LEONELLO OLIVERI
Nel
1631 si svolse in Val Bormida, a Spigno Monferrato (Al.) una terribile vicenda che ebbe come vittime 14 donne accusate di
stregoneria. Siamo nel pieno di una guerra (quella dei 30 anni, che percorse anche questa valle con le armate
di tre Stati) e nella fase più acuta di quella terribile epidemia di peste,
così drammaticamente fatta rivivere dal Manzoni
nei Promessi Sposi.
Questa
fu la cornice, e in parte anche la motivazione,
in cui si snodò questa terribile vicenda, culminata in un drammatico
processo.
Il
presente lavoro ripresenta, con alcune modifiche, il lavoro con lo stesso titolo
pubblicato dal sottoscritto nel 1995 nel vol. XCIII ( primo e secondo semestre)
del Bollettino Storico Bibliografico Subalpino (Deputazione Subalpina di Storia
Patria, Torino, Palazzo Carignano, 1996). Viene ora proposto in questo blog per
offrirgli una visibilità più ampia.
Il “processo
alle streghe di Spigno” presenta una caratteristica che lo rende quasi
unico. Esso infatti è stato ricostruito non solo sulla base degli atti
(ritrovati in parte) ma anche di una
ricca corrispondenza fra tutte le autorità interessate (Vescovo, Santo Uffizio
di Roma, Inquisitore di Genova, Parroco vicario del Vescovo in sede, Marchese
del luogo), corrispondenza che permette di ricostruire gli interessanti e
complessi retroscena ( ovviamente quelli messi per scritto e giunti fino a noi)
che lo caratterizzarono.
Tutta
la documentazione è presentata in calce
1.
il processo.
2.la guerra.
2.1 La guerra di successione del Monferrato.
2.2 La guerra di successione di Mantova.
2.3 La guerra in Val Bormida.
3. la peste.
3.1 La peste nella valle.
3.2 La peste a Spigno.
4.
I retroscena.
4.1. Il feudo di Spigno.
4.2 L'abbazia di S. Quintino
4.3. Dietro alle quinte.
4.4. La fine
APPENDICE
I. gli
atti del processo.
II
le lettere
Il processo.
Una
calda mattina dell'estate del 1631 Vincenzo Bachiello, Procuratore Fiscale
della Curia foranea di Spigno ([1]), si
presentava davanti a d. Giovanni Verruta, arciprete della locale chiesa di S.
Ambrogio nonché vicario foraneo all'uopo delegato dal Vescovo di Savona,
denunziando che “alla villa della Rocchetta di Spigno siano christiani e
christiane poco timorate di Dio Benedetto che comettono molti disordini come
inhobedienti a S.ta Chiesa, massime di streghe, comettendo molti assassinamenti
et stregherie” : era il 9 luglio 1631 e nel piccolo centro della Val
Bormida iniziava
quello
che fu probabilmente il più drammatico processo per stregoneria celebratosi nel
XVII sec. in Liguria e nel basso Piemonte.
Un
fortunato rinvenimento di due gruppi di documenti esistenti presso l'archivio
vescovile di Savona, alla cui diocesi Spigno all'epoca apparteneva ([2]), ci
permette di far luce su questo avvenimento: si tratta di una parte degli atti
del processo e di tutta la corrispondenza intercorsa fra l'arciprete di Spigno
e il Vescovo, nonché fra il Vescovo il Tribunale dell'Inquisizione di Genova e
il S. Offizio di Roma.
In
questo lavoro tali documenti, non sempre di facilissima lettura, saranno pubblicati integralmente.
La
denunzia del Procuratore Fiscale determinò l'apertura di un procedimento inquisitorio:
il 12 luglio, con l'interrogatorio dei primi testi, iniziarono così le
indagini.
La
prima udienza si tenne a poca distanza dal capoluogo, nel vicino paese di
Rocchetta di Spigno, da dove provengono molti dei testimoni (e quindi degli
accusatori) e dove si trasferirono il Verruta con un notaio, il Procuratore e
il “nunzio della Curia”. Per primo fu sentito Marius de Colla, abitante
di Rocchetta, di anni 55, il quale afferma di aver “sempre sentito nominare
che Margarita Bracha sia masca e strega”. Per informare meglio gli
inquisitori sulla personalità di questa donna il teste ricorda che “a
Roccaverano (paese poco distante) hanno abbruciata sua sorella e suo
fratello per sospetto che siano masche e masconi”: prudentemente conclude
dicendo di non saper altro ma che, in ogni caso, “se lo sii, Dio benedetto
la faci castigare“. Il secondo teste, Bartolomeus Viatius, di 70
anni, dichiara di aver anche lui sempre “sentito dire qui alla Rochetta che Margherita Bracha sia
una masca e strega”. Anche lui ne ricorda i precedenti famigliari, facendo
presente ai giudici la sorte della sorella e del fratello dell'imputata. Consiglia
poi gli inquisitori di esaminare “Bartolomeo Ferraro, che saprà dir un non
so che di Bartolomeo Perletto detto Caramello”.
Con
l'interrogatorio del terzo teste, Petrus Matia, di 31 anni, la vicenda comincia
a colorirsi degli ingredienti tipici di ogni storia di streghe: pure lui ha
sempre sentito dire che Margherita era una strega, ma conosce anche qualcuno
che gli aveva detto di aver visto (!) “questa
Margarita e sua figlia in Spigno, scapelliate (spettinate) di notte due
o tre anni (or) sono”; come si vede, la psicosi della strega
incomincia a farsi strada, e le indiziate aumentano: alla madre, Margherita, si
aggiunge la figlia, colpevole ... di essere andata in giro, di notte,
spettinata! Ma le dichiarazioni di Pietro (uno
dei
testi più giovani - 31 anni - e più poveri: 200 scudi di beni) non si fermano
qui: egli aggiunge infatti che alcuni suoi conoscenti, Francesco Fornarino et
altri “danno la causa a questa Margarita che gli abbi mascato ( = fatto
morire con un incantesimo) li figlioli che gli sono morti” . Pietro rappresenta,
per gli inquisitori, un teste importante: nelle sue dichiarazioni coinvolge
infatti anche un'altra donna, “Bianchina Suliana o sii Santino”, che ha
la fama di strega “perché non viene mai tre volte l'anno a messa”..
Tocca
poi a Bartolomeus Ferrarius, tirato in ballo dalle dichiarazioni di un
teste precedente: anche lui ricorda che “ ritrovandomi in casa di Fornarino
la moglie di messer Francesco Fornarino disse
che volevano far prigione Bartolomeo Perletto detto Caramello et
Margherita Bracha che erano masche e mascone” ; circa il fatto che
Margarita fosse masca “ne è pubblica voce e fama". Riguardo il Bartolomeo
Perletto “detto Caramello” accusato dai testi precedenti, il nostro
Bartolomeo riferisce ai giudici che quattro anni prima (!) il detto Perletto fu
visto “ havere per mano la barba di un becco(= caprone) dicendo le
seguenti parole ad alta voce: “questo è il mio padrone e quello che mi governa,
mi dà denari e tutto quello (che) ho bisogno”, e con esso andava,
o sii da esso becco si faceva menare attorno alle rocce” : ecco quindi un
altro classico elemento diabolico, il caprone, tradizionalmente presente in
ogni racconto di streghe e stregoni.
Le
dichiarazioni di Bartolomeo accendono l'interesse degli inquisitori, che
cominciano a trovare nelle testimonianze quegli elementi che dovrebbero essere
canonicamente presenti.
Le
domande incalzano: quante volte aveva il teste visto ciò? Una “quatrina”
(!) di volte. Riteneva il teste che tali cose fossero cose “da buon cristiano?”.
Certo che no, è la risposta, anzi “tengo e giudico che fossero cose da
malissimo cristiano”. Per meglio colorare la personalità del Bartolomeo Perletto,
il teste precisa che non solo della di lui qualità di “mascone” (=stregone)
era pubblica voce e fama, ma che per di più “non ha neanche la Corona
(del rosario) et alle feste invece d'andar a sentir Messa esso va a lavorare
nanti (=prima) la Messa, doppo et come fosse un giorno feriale”.
Al
termine dell'interrogatorio il nostro venticinquenne Ferrarius coinvolge un'altra
donna, Caterina Marencha, anch'essa indicata dalla pubblica voce e fama come
vecchia strega.
A
confronto col precedente, l'interrogatorio del trentacinquenne Georgius
Brachus (parente della Margherita sotto inchiesta?) non offre elementi di
novità, limitandosi il teste a ribadire i sospetti su Margarita (al cui proposito
Giorgio ricorda quanto gli diceva “la poverina di mia madre”: “dubito
che questa Margherita non sii strega"· Circa Bartolomeo Perletto
Giorgio afferma invece che “non è mai stato possibile far(gli) acomprar
una Corona”, e nei confronti di Bianchina fa presente che “non viene se
non una volta l'anno alla messa”.
La
Commissione Inquirente si sposta a questo punto in casa di Franciscus de
Fornarinis per interrogarne, in qualità di teste, la moglie. Tale
gentilezza è certo dovuta al ruolo sociale della famiglia Fornarino, che pare
più elevato rispetto agli altri abitanti: il marito, uno dei pochi che sarà in
grado di firmare la propria dichiarazione, possiede infatti un patrimonio di 2000
scudi e viene indicato come nobile, la moglie come “domina”. I Fornarino
erano coloro cui, secondo le dichiarazioni di un teste precedente, Petrus Matia,
Margarita Bracha avrebbe “mascato” un figlio causandone la morte.
Rispondendo
a quanto le viene letto ([3]) Maria
de Fornarinis, 30 anni, 1000 scudi di patrimonio, ricorda che due o tre
anni prima Margherita Bracha venne a trovarla quando aveva un figliolo “di
nome Alberto di giorni 11”: vistolo, Margherita ne lodò la bellezza ma “tanto
tosto fu partita essa Margarita, cominciò a lamentarsi et haver male e consummò
in maniera che in tre giorni morì secho (=secco?) essangue, tortute
(=storte) le gambe, e sopra le reni havea un segno che parevali una mano
infuocata nella quale si vedevano le proprie dita "· Aggiunge poi
Maria di aver parlato del fatto alla levatrice dalla quale era venuta a conoscenza
della “cativa nominanza di Margarita”: da allora “giudico che questa
Margarita ha stata quella che m'ha morto esso figliolo né ho mai sospettato
un'altra persona, ch'io sappi, sospettosa di strega che questa, di che n'è
pubblica voce e fama”. Si costruisce così a poco a poco il castello di
elementi che porteranno la vicenda ad un esito drammatico.
Nel
proseguo dell'interrogatorio Maria riporta le chiacchiere di alcuni suoi
braccianti, riferendo come uno di essi, Segurano Suliano (parente della
Bianchina?) avesse raccontato di aver visto che il Perletto “havea un becco
per la barba e diceva: “è mio padrone, e ha una cantina più ben fornita che la
tua” ed indi montò a cavallo ad esso becco”, mentre un altro lavoratore,
Giacomo Perletto (figlio del Caramello!) aveva detto di essere andato, una
volta che aveva mal di schiena, “da Lucia Peirana e mi fece un remmedio che
pigliò tre grani di sale con tre fille di filo torto e li mise in una scodella
d'acqua e poi seppe dire: “sono tre masche che vi nuociono e una ne può più che
l'altre”, Ecco quindi apparire altri elementi tipici di ogni storia di
streghe: dopo le scorribande notturne di donne scapigliate è ora la volta di
cavalcate su caproni, di guaritrici al lavoro con magici intrugli, di macchie
di sangue a forma di mano sul corpo di neonati morti.
Alla
fine dell'interrogatorio questo gioco al massacro in cui vecchie chiacchiere di
paese diventano capi d'accusa mortali per vicini, parenti ed amici, produce i
suoi frutti e sei sono le persone che finiscono nel mirino della Legge con
l'accusa di stregoneria: Margarita Bracha con la figlia Margarina, Bartolomeo
Perletto detto Caramello, Bianchina Suliana ovvero Santina, Caterina Marenca e
Lucia Peirana. Ma sotto lo stillicidio delle testimonianze, e poi delle
torture, la lista sarà destinata ad allungarsi ancora.
Terminata
questa prima tornata di interrogatori, rebus sic stantibus, stando così
le cose, gli inquirenti ritengono di aver raccolto elementi sufficienti contro
Margherita Bracha e Bianchina Santina seu Suliana: il Procuratore Fiscale
“accettando le cose dette dai testi” ne richiede la cattura e l'incarcerazione,
chiedendo che esse “non vengano rilasciate prima che la giustizia sorta il
suo effetto”: desiderio, questo, che vedremo realizzarsi appieno.
E così l'admodum reverendus dominus
Vicarius dispone l'arresto delle due donne e la loro reclusione in celle
separate: Margherita viene rinchiusa nelle stalle del castello di Spigno,
Bianchina in un vano sotto il campanile.
In
seguito, temendo che le stalle non offrissero sufficienti garanzie di
sicurezza, Margherita viene trasferita in una stanza dell'edificio adibito ad
ospedale. La sorveglianza di entrambe viene affidata a Giorgio de Prato, "birruario”
di Spigno, cui viene ordinato di provvedere anche al mantenimento delle due
donne "affinché non muoiano di fame “.
Il
14 luglio 1631, di mattina, le due donne sono arrestate.
Nello
stesso giorno si procede all'interrogatorio di altri testimoni.
Il
primo ad essere sentito, Iacobus Sulianus, non offre ai giudici elementi
nuovi, limitandosi a riferire di “aver sentito dire che Margarita Bracha e
sua figlia Margarina sono streghe” e che Bianchina “viene
puoco alla Messa”.
Più
interessante è la testimonianza di Lucretia Ivalda, “mantilara huius
loci”, cioè ostetrica di Spigno, che ricorda quanto già riferito in
precedenza dalla domina Maria de Fornarinis circa la morte di un neonato figlio
di quest'ultima, morte provocata dalle “stregonerie “ di Margherita.
Riferisce
che, a quel tempo, non appena aveva saputo che Margherita era andata a far
visita alla puerpera, aveva esclamato “Dio ci aiuti”“, essendo al corrente
della fama di strega goduta (si fa per dire) da Margherita. Interrogata se non
avesse dubbi circa la responsabilità di Margherita in merito al “mascamento”
del figlio di Maria, risponde che non le era possibile dubitare di ciò in
quanto “la notte che io dormii colà (nella casa della puerpera) non
sentii in vita mia li più brutti urli e gridi di gatti ([4]) che
in quella casa”: prova questa irrepugnabile - come ognun sa - dello
svolazzare di streghe intorno a una casa!
La
nostra Lucrezia, quarantacinquenne, madre di cinque figli, continua la propria
deposizione affermando poi che questo bambino “che nacque bello grosso”
morì in tre giorni dopo essere diventato “esangue, torzuto, col segno di una
mano verso le reni”: anche questi segni inequivocabili di un intervento
magico, tanto più che sulla macchia “si vedevano le proprie dita d'essa mano
infocata “.
I
giudici le chiedono se fosse al corrente di altri malefici attribuibili a Margherita:
Lucrezia risponde di aver sentito parlare anche di un altro caso di “mascamento”,
quello del figlio di una certa Lucia Rodano; tale informazione le sarebbe stata
fornita dalla madre in persona: incidentalmente, possiamo anticipare che questa
Lucia nel proseguo del processo da parte
lesa diventerà imputata (ovviamente di stregoneria) e alla fine seguirà la
stessa sorte delle sue infelici colleghe.
Il
teste successivo Batina Matii, rilascia una deposizione piuttosto confusa
e poco chiara anche per il precario stato di conservazione dei documenti.
Nella
parte comprensibile leggiamo le solite accuse generiche contro Bianchina
Suliana. Di fronte alla domanda rituale “ritiene lei Bianchina donna di mala
vita et inhobediente alli ordini e comandi di S. Chiesa”, la teste non si
sbilancia, rispondendo prudentemente che “io non posso giudicare né pensare”:
aggiunge però che “alla Messa non gliela vedo troppo spesso “ et in cambio
di andar alla Messa alle feste va a coglier herbe per li suoi animali”.
Ioanninus
Bacinus, di 60 anni, è il teste successivo. Si tratta di uno dei lavoranti
di campagna della famiglia Fornarino, chiamato
in causa come testimone da Maria de Fornarinis. Interrogato se avesse
mai avuto occasione di parlare di “cosa alcuna di stregheria”, il teste
ricorda che una volta era stato ammalato “quatro mesi che non mi potevo
arregere sopra le gambe”. Secondo lui causa di ciò era Margherita “per
la mal nominanza che ha”. Ne era convinto: infatti da quando questa donna
aveva smesso di venire in casa sua, lui era guarito, beninteso anche grazie a “Dio
benedetto che mi aiutò (per)ché V.S. (d. Verruta, presente al
processo come rappresentante del Vescovo) venne a benedir la mia casa e mi
confessò“. Del resto Margherita doveva avere una certa dimestichezza con
Belzebù, visto che lei “ha sempre in bocca (la frase): che il Diavolo
l'acompagni”.
Proseguendo
la deposizione il teste nomina anche Bianchina di cui Giovannino era “nipote
per mia moglie, figlia di un fratello di suo marito”: a suo carico il
teste, oltre alla già nota ritrosia nel frequentare la Chiesa, porta altri
elementi. Infatti rispondendo ad una precisa domanda ( “ha lui teste sentito
dire d'aver visto a balare alcuno sotto alcuno arbore?”) Giovannino dice
che un suo amico gli aveva detto (: relata refert, avrebbero detto i giuristi
romani!) che una volta “sentì un gran fracasso sotto degli alberi circa a
due hore di notte, da che ne ebbe gran paura”. “Ma ch'io habbi visto non
lo posso dire” è la rigorosa conclusione del teste, povero bracciante
agricolo di 60 anni che habet in bonis valorem scutorum centum, uno dei
più bassi fra quelli delle persone coinvolte nel processo.
Viene
poi interrogato Michael de Burmida, di 50 anni, una delle sole tre
persone in grado di firmare la propria deposizione (le altre due saranno i
nobili Innocenzo Gavotto e Francesco Fornarini). Michele ricorda che una volta
Margherita Bracha aveva preso in braccio “un mio figliolo, di nome Bernardino,
al quale subito venne una tosse che pareva infredato e da lì a quel tempo mai
più parlò, né per due anni continui non puotè andare liberamente sendo delle
gionte disgionto della vita tutto in modo tale che stava dove li ponea, et alla
fine morse sgionto della vita tutto “. In un primo momento egli aveva
attribuito la malattia del figlio a causa naturale, ma da quando un giorno
Margherita, incontrandolo, gli aveva chiesto se era vero che lui le dava la
colpa di ciò, Michele aveva incominciato a sospettare di lei “perché mi mise
il sospetto con le parole che essa mi disse”.
L'esame
del nobile Innocentius Gavotus, l'unico teste che non fornisce alla
Giustizia nessun elemento utilizzabile contro le imputate, chiude la lunga
giornata di lavoro dei nostri giudici che, cum esset hora admodum tarda,
decidono di aggiornare l'escussione dei testimoni al giorno seguente.
L'indomani,
15 luglio, considerato l'avvenuto arresto di Margherita e Bianchina, il
Procuratore Fiscale secut protestat de expensis, incomincia a pensare alle spese del processo, e ad ogni
buon conto decide di effettuare l'inventario dei beni delle due donne affinché
gli stessi siano messi al sicuro ad salvandum ius .
L'inventario
viene effettuato il 16 luglio, alla presenza di testimoni ed iniziando dalla
casa di Bianchina. Lì, Isabella, sua sorella, procede al consegnamento
dei beni, per la verità non numerosi: “una troia con porchetti sei, una
vacha e due manzoti (= manzi, vitelli), stara due di vino, borie cinque
di grano, uno staro di fabbe (= forse fave?), uno zebro, una bronza ([5]),
quattro caratelli, uno staro di fagioli, uno staro di castagne, una catena da
fuoco, una bronzina, un ferro da segare” (falce da fieno) ed altri pochi
oggetti, nonché i terreni di loro proprietà. Trattandosi di beni in comune fra
le due sorelle, essi vengono al momento affidati alla custodia di Isabella.
Il
corteo costituito dal Vicario, Procuratore Fiscale, Notaio e birruario della
Curia si sposta poi nella casa di Margarita, dove la figlia Caterina fa l'elenco
dei pochi beni esistenti: un porchetto, due pecore, un borlotto di
lentichie, una borlotta di grano et una bronzina”, cui si aggiunge la casa e
“tute queste poche terre”: anche questi beni vengono lasciati alla
custodia di Caterina.
Riprendono
poi gli esami dei testi con l'interrogatorio di Iohannis Baptista
Colombus, chiamato a deporre contro la nipote, Bianchina.
Il
teste ripete le solite chiacchiere, che sua nipote va poche volte all'anno alla
Messa, che mai lui l'aveva vista con la corona del rosario in mano.
A
una domanda precisa: “se lui teste l'avesse mai vista fare alcunché per cui possi
lui medesimo congeturare sii puoco timorata di Dio” Giovanni risponde che
molte volte si era stupito sentendo e vedendo Bianchina “parlare tra sé, e
nel suo parlare pare parli con un'altra persona e pure si vede sola”: dato
che Giovanni mai vide né sentì “altro
cristiano parlar in quel modo”, il teste “immagina e giudica tale
comportamento più tosto male che bene”. I giudici non si lasciano scappare
l'occasione, e chiedono a Giovanni che cosa significasse quel suo “più male
che bene”. La risposta è semplice, e inchioda la nipote: “io giudico che
parlando nella forma sudetta parli più tosto con spiriti diabolici che altro, e
per questo dico che giudico più tosto male che bene"· Precisa inoltre
di averla sentita parlare da sola più volte, ricordando in modo particolare che
una volta l'aveva trovata mentre nell'orto diceva “guardate quanti bei pomi
ha questo mio arbore". “Eppure - è lo stupito commento del
nostro ottantenne testimone - nell'orto non si vedea se non essa sola”.
I
giudici gli chiedono quindi se, stando così le cose, il teste “tiene questa Bianchina in sospetto di mala
christiana e sospetta di strega”: “Signor sì, che stando le cose
suddette fatte dalla suddetta Bianchina la tengo in sospetto per masca”, è
la sicura risposta del teste, non sappiamo se orgoglioso di poter in questo
modo aiutare il corso della Giustizia.
Fornita
quest'ultima risposta il teste, padre di famiglia con beni del non trascurabile
valore di 700 scudi, è congedato.
Tocca
quindi alla sua figlia ventenne, Margherita, che conferma le
dichiarazioni del padre a riguardo dei soliloqui di Bianchina nell'orto (cosa questa
che la teste non ritiene “atto da Cristiana come le altre”) e della di lei
scarsa frequenza alla Messa.
È
poi la volta del nobile Franciscus Fornarinus, ventottenne marito
della Maria già in precedenza interrogata e padre del bimbo morto all'età di 11
giorni a causa, come dicevano, delle stregonerie di Margherita Bracha.
Francesco
ricorda che Margherita era venuta a casa sua e che non “si volesse partire
di casa (senza) che non vedesse questo mio figliolo, et non tanto tosto
si partì, che questo figlio incominciò ad aver male, et prese volta cativa
(una cattiva piega) in maniera che non campò più di tre giorni”. E come
faceva il teste a ritenere che al bambino “gli fosse stato nociuto da questa
Margarita?”: semplice “Questa (donna) ha sempre avuto cativa
nominanza e qui in casa mia non venne alcuna altra sospetta”, ergo ...
Francesco,
prima di essere congedato, fa anche il nome del già più volte citato Bartolomeo
Perletto, detto Caramello, ricordando di aver sentito raccontare da alcune
persone la storia di quest'uomo indubbiamente originale che “si faceva
condurre per certe roche da un becco ch'avea per la barba”.
Il
giorno successivo, 16 luglio, viene interrogata un'altra delle persone ricordate
dalla moglie di Francesco, Maria, come qualcuno che sapeva: Seguranus
Sulianus, di 60 anni.
Dopo
l' Innocentius Gavottus citato in precedenza è questo l'unico altro teste
che si mostra almeno un poco recalcitrante a fornire indicazioni agli
inquirenti ([6])
: alla solita domanda, infatti, se gli fosse capitato di discorrere con
qualcuno di streghe, risponde con un deciso “Signor no, che mi ricordi”.
L'interrogatorio diviene allora più incalzante, e l'atteggiamento più
marcatamente inquisitorio e autoritario dei giudici, forse seccati che il Suliano
non offrisse loro elementi d'accusa, appare anche dalla lettura degli atti
processuali: dica “cosa fece domenica, dove andò e distintamente dove
consumò quella giornata”. La risposta è altrettanto precisa ma prudente e
non compromettente: “alla mattina andai alla Messa, indi venni a casa di
Fornarino, ivi stetti un pezzo, indi mi fermai a casa dei Perletti e puoi me ne
andai a casa”. I giudici avvertono la mancanza di collaborazione in questo
testimone sessantenne, forse anche un leggerissimo sentore di presa in giro in
queste risposte così minuziose ma di fatto inutili all'accusa e, forti della
testimonianza di Maria Fornarino, insistono: “che cosa fece in casa di
Fornarino, con chi parlò e di cosa parlò?”. A questo punto Segurano è
costretto a riferire che in quella occasione si era discusso degli ultimi avvenimenti,
dell'incarceramento di Margherita Bracha ([7]) e del
Perletto che andava in giro tenendo un becco per la barba.
Il
17 luglio i giudici sentono l'ultima teste. Lucia uxor Bartholomei Rodani:
questa donna, di 30 anni, poverissima (è la più povera fra tutte le persone
ricordate negli atti, con beni per soli 50 scudi) entrata nel processo come
teste ne uscirà, anzi, non ne uscirà, come strega.
Lucia
ricorda come lei avesse sposato in seconde nozze il suo attuale marito,
Bartolomeo. Costui dal precedente matrimonio aveva avuto un figlio di nome
Carlo: il marito le aveva raccontato che questo bambino “gli era stato
guastato” da una strega. Interrogata se questa strega fosse Margherita
Bracha, risponde cautamente “Io non lo posso dire perché non lo so, e detto
mio marito meglio saprà dir quello che occorre, che io non posso dir altro”:
risposta onesta, che però non la salverà dal passare, di lì a poco, dal banco
dei testimoni a quello delle imputate.
Finalmente
il 18 luglio, in aula domus habitationis Archipresbiteri Vicarii Foranei
fu interrogata, levata dal carcere, Margherita Bracha, la prima delle
14 streghe di Spigno.
Ed
eccola, infine, davanti ai suoi giudici la vecchia Margherita Bracha, quella
che aveva sempre il diavolo sulla bocca, che aveva fatto ammalare Gioannino,
che aveva fatto morire Bernardino, figlio di Michele, e Alberto, figlio di
Maria e Francesco, per averli “ mascati” stregati.
Di
lei le carte processuali ci dicono quasi nulla: era vedova (il marito si
chiamava Bartolomeo), anziana (l'ultimo figlio l'aveva avuto 20 anni prima), grassa,
di condizioni modeste senza essere indigente, dalla battuta pronta, talvolta
anche ironica e, forse, con una certa propensione per il vino. Il suo
interrogatorio, nel quale compare - è bene ricordarlo – immediatamente nella
duplice veste di imputato carcerato “in factu proprio” e di teste “in
alieno”, si svolge secondo il solito rituale certificato nelle opere di tanti
“maestri” dell 'Inquisizione ([8]).
La
prima domanda è quindi se l'imputata conoscesse la causa della sua carcerazione
([9]) : “non
so perché mi ritrovi così detenuta - risponde Margherita - quando non
sii per quel che m'immagino, che da tutti sii tenuta per una masca”.
Rispondendo ai giudici Margherita afferma poi di essere stata arrestata
all'uscita dalla Messa a cui andava con una certa regolarità (“l'altra
domenica passata io v'ero pure”). I giudici notano la sua pinguedine e -
fraintendendo - la ritengono incinta: brutto segno, vista la sua vedovanza ([10]). Ma la
maliziosa domanda degli inquirenti (”interrogata quod in utero gerat “)
ottiene la risposta che si merita: “sono venti anni che io non partorisco
più figlioli, et hora sono pregna di pane e di vino”. I giudici le chiedono
“an unquam fuit Mediolani, Genova,
Neapoli “, se mai fosse andata in quelle città: si trattava di una domanda
di rito ([11]),
che ottiene una risposta velatamente ironica: “ non ho mai passato Gorrino e
Serole” ([12]).
Anche la domanda successiva è rituale, chiedendole i giudici se le vesti che in
quel momento indossava fossero le stesse del momento della cattura ([13]). Così
era.
I
giudici cercano poi di delineare meglio la personalità dell'imputata: le
chiedono infatti quali rimedi Margherita utilizzasse “pro dolore dentium, oculorum
et similium et ad removendum glaciem”. Il ruolo di Margherita all'interno
di quel piccolo paese di campagna che era Spigno acquista così una fisionomia
più precisa: si trattava di una di quelle vecchie che nei paesi delle Langhe
curavano, e talora ancor oggi curano, alcuni acciacchi con un misto di medicine
naturali (erbe) e riti pseudomagici; magia bianca, comunque, e non nera!
Giustamente R. Mandrou ([14]) ha
sottolineato che “la strega di villaggio prima di essere denunciata e
consegnata alla giustizia,( ... ) ha vissuto per un lungo tempo tollerata e accettata
dalla propria comunità”: certo che se la situazione cambiava, e un grave
pericolo richiedeva un indifeso capro espiatorio, la stessa viene inesorabilmente
sacrificata.
Margherita
risponde di saper curare solo il “male della giazza “ ([15]) e i vermi.
Il primo malanno viene curato con la recita di una filastrocca ([16]), e poi,
ricorda Margherita, al malato “faccio il segno di S. Croce e poi dico cinque
Pater noster e cinque Ave Marie e puoi li faccio dire a quello ch'ha male e lo
condanno in una livra d' oglio in riverenza della lampa “ ([17]).
Margherita curava anche i “vermi” sempre con la recita di una filastrocca ([18]) fatta seguire
da cinque Pater noster e cinque Ave Maria “in riverenza di Dio e S. Maria
che quel male se ne vada via”: come si vede si tratta di un tipico caso di “guaritrice”
in cui la religione si mescola con la superstizione e la suggestione.
A
questo punto la testimonianza di Margherita si interrompe: il fascicolo che
contiene gli atti del processo è infatti mutilo e termina lasciando sospesa la
dichiarazione dell'imputata, né è stato possibile trovare, malgrado tutte le
ricerche, la parte restante della documentazione.
Se
non avessimo altre fonti informative, di questo processo, e della sorte delle
11 donne ricordate nella prima pagina degli atti, non sapremmo altro.
Fortunatamente
esiste nell'archivio vescovile di Savona un secondo pacco di documenti: come
già ricordato si tratta della corrispondenza intercorsa fra il Parroco di
Spigno nonché locale vicario del Vescovo, don Verruta, il Vescovo di Savona,
mons. Francesco Maria Spinola ([19]), il
padre Inquisitore di Genova, fra. Piero Ricciareli, il Procuratore del S.
Officio di Roma, Stefano Senarega, il Segretario del S. Offizio di Roma,
Cardinale D'Onofrio e il Marchese di Spigno Alfonso Asinari Del Carretto. In
tutto 29 documenti interessantissimi, che ci svelano non solo ]'ambiente in cui
è nato e si è svolto iJ processo, ma anche
suoi retroscena (almeno quelli resi noti per scritto) e i suoi sviluppi,
fino all'imprevedibile, sorprendente e drammatico esito finale.
Ma
prima di passare all'esposizione e all'analisi di tali documenti, integralmente
pubblicati in calce al presènte studio, conviene fare un passo indietro per
collocare questo processo nell'ambiente locale, storico e cronologico in cui la
vicenda si svolse e da cui trasse origine e materia.
2.
La guerra.
Per
comprendere quanto allora successe a Spigno è indispensabile valutare quei drammatici
fatti non con la nostra ottica ma sulla base delle idee e soprattutto della
mentalità dell'epoca.
È
pertanto opportuno cercare di ricostruire la situazione non solo storica ma
anche psicologica e sociale, in una parola l'ambiente di vita in quel piccolo
villaggio sperduto fra i monti della Val Bormida, dove una popolazione contadina
viveva sulla propria pelle le conseguenze delle vicende che sconvolsero l'Europa nel periodo drammatico
della “Guerra dei Trenta Anni” (1618-1648).
Il
processo nacque infatti da una precisa e contingente situazione locale (la
paura, la carestia, la peste) a sua volta determinata da avvenimenti storici di
origine più lontana, collegati alla guerra che allora sconvolgeva l'Italia
settentrionale.
Occorre
innanzitutto fare una precisazione di tipo geografico: Spigno, e la Val
Bormida, erano attraversati dall'unica strada che dal mare, tramite la rada di
Finale, il Monferrato e la Lombardia spagnoli, garantiva collegamenti fra la
Spagna e i suoi possedimenti in Italia Settentrionale e, attraverso essi,
l'Europa centrale e del nord. Tale fatto si ripercosse drammaticamente sulla valle
e sulla sua gente, facendole subire i contraccolpi della tumultuosa politica
che allora gravitava intorno alla Spagna.
La
collocazione strategica della Val Bormida aveva così fatto sì che dal '500 la
Spagna tentasse ripetutamente di impadronirsi della zona, frammentata in
diversi feudi imperiali soggetti - con qualche eccezione – a feudatari di
un'unica casata, i Del Carretto e contesa, per gli stessi motivi, dal Ducato di
Savoia, da quello di Mantova, dall'Impero e dalla Francia.
Dopo
aver imposto il proprio protettorato sul Monferrato, tramite il Ducato di
Mantova, alla Spagna mancava infatti solo la stretta striscia di terra da Cairo
a Finale, attraverso Carcare, Pallare, Bormida e il Melogno, per poter avere
una comunicazione diretta (tramite il mare) con l'Europa nord/ centrale passando
sempre su territori in suo possesso: l'acquisto del marchesato di Finale (che
si estendeva appunto fino a Carcare) nel 1598 permetterà finalmente alla Spagna di congiungere
direttamente i suoi possedimenti, coinvolgendo però la Valle Bormida di Spigno
in tutte le vicende che vedranno questa potenza contrapposta al Piemonte e alla
Francia. Esaminiamo pertanto la situazione della zona all'epoca del nostro
processo, perché proprio dalle drammatiche vicende politiche e sociali di
quegli anni si innescheranno a Spigno presupposti che porteranno a questo
tragico fatto.
La
prima metà del XVII secolo fu un periodo convulso per l'Italia settentrionale, percorsa
da troppi eserciti in armi: vaso di coccio tra vasi di ferro, l'essere
disarmata la trasformò in un campo di battaglia per le armate di cinque Stati
(Impero, Spagna, Francia, Ducato di Savoia, Repubblica di Genova) in lotta fra
di loro, e fu così per molti anni devastata da una lunga guerra che per
comodità distingueremo in quattro fasi, anche se - in realtà - si trattò di un
unico, convulso, periodo di distruzioni e di sangue.
2.1
La guerra di successione del Monferrato.
Tutto
cominciò con la cosidetta “guerra di successione del Monferrato”, che
imperversò dal 1612 al 1617 ([20]). Tale
Marchesato, di cui anche ampi settori della Val
Bormida facevano parte dalla fine del sec XIV ([21]),
apparteneva ai Gonzaga di Mantova: quando nel 1612 muore il duca Francesco IV
Gonzaga, che aveva sposato la figlia di Carlo Emanuele I di Savoia, resta come
unico erede, oltre al fratello
Ferdinando, la figlia Maria: il nonno materno rivendica quindi per la nipote la
successione al Monferrato, feudo trasmissibile anche in linea femminile.
Possiamo vedere in ciò un tentativo, da parte del Piemonte, per annettersi
queste terre che si incuneavano nei possedimenti sabaudi e controllavano lo
sbocco sul mare ([22]) da
sempre ambito dal Piemonte.
Riuscita
vana la diplomazia, Carlo Emanuele tentò la via delle armi, impadronendosi di
Alba, Moncalvo, Trino. In aiuto dei Gonzaga si muove però la Spagna e la guerra
si allarga. La pace di Madrid (6/9/1617) determinerà una provvisoria cessazione
delle ostilità segnando un ridimensionamento delle pretese sabaude, con la
restituzione ad ogni belligerante dei territori precedentemente posseduti e la
riconferma del Monferrato ai Gonzaga.
Pochi
anni più tardi nuovi venti di guerra scuotono quella valle. Ancora una volta a
dar inizio alle ostilità è il pugnace Duca sabaudo. La nuova guerra (durata
nove anni, dal 1625 al '34) avrà come pretesto la controversa successione al
marchesato di Zuccarello, centro non certo di grande rilevanza economica o
strategica, e sarà sicuramente sproporzionata nelle dimensioni che assunse alla
causa, anzi pretesto, che l'aveva determinata: per il possesso di tale
Marchesato, rimasto senza padroni da quando il suo feudatario, Scipione Del
Carretto, era stato deposto dall'Impero perché riconosciuto colpevole di
omicidio, si mossero infatti il Piemonte, appoggiato dalla Francia, e la
Repubblica di Genova, appoggiata dalla Spagna e dall'Impero, tramutando quindi
la rivalità fra due Stati confinanti in un autentico conflitto europeo ([23]), inserito
nella “ guerra dei trenta anni “ (1618-
1648)
che inondò di sangue l'Europa e nel cui ambito anche le vicende oggetto di
questo studio devono essere inquadrate e, in un certo senso, spiegate.
2.2
La guerra di successione di Mantova.
Le
ultime fasi di questa guerra si intrecciano con un'altra, la “guerra di
successione di Mantova” (1627-1631), nata dalla morte del duca Vincenzo II
Gonzaga alla fine del 1627. La mancanza di eredi diretti scatenò la bramosia di
Francia e Spagna, che sostennero ciascuna uno dei due rami cadetti aspiranti
alla successione: i Gonzaga di Nevers, appoggiati dalla Francia, quelli di
Guastalla sponsorizzati invece dalla Spagna. A fianco di quest'ultima potenza
si schierò anche l'Impero (Mantova era Feudo Imperiale, cioè direttamente
dipendente da Vienna), mentre il Duca di Savoia rimase in prudente attesa,
pronto ad offrire la propria alleanza a quella parte che fosse disposta a
concedere la separazione del Monferrato dal Ducato di Mantova e la sua
annessione al Piemonte. La Spagna fu più veloce ad accettare, il Duca sabaudo
abbandonò l'antico compagno (non sarà questa l'ultima volta) e i piemontesi si
ritrovarono da un giorno all'altro provvisori alleati dei loro vecchi nemici:
nel frattempo non esiteranno, ad ogni buon conto, a compiere incursioni nei
territori vicini, anche se soggetti alla Spagna.
Le
truppe piemontesi occupano nuovamente Alba, Trino e Moncalvo, mentre il
Governatore spagnolo di Milano, d. Gonzalo de Cordova, si accinge all'assedio
di Casale occupato dai Francesi e le truppe imperiali, i famosi Lanzichenecchi,
scendono in Italia (portandovi, a quanto pare, anche la peste) e assediano
Mantova: è questa la cornice storica in cui sono ambientati i Promessi Sposi di
manzoniana memoria. Le truppe francesi non stanno però a guardare e muovono
all'assalto del Piemonte: nei primi scontri Carlo Emanuele è vittorioso (nel
1628) ma l'anno successivo viene sconfitto e nel 1630 muore, forse di peste. Il
Piemonte è occupato dai Francesi e il nuovo duca sabaudo, Vittorio Amedeo I,
deve firmare un armistizio separato. In base a tale trattato, redatto a
Cherasco nell'aprile del 1631, Mantova viene concessa ai Gonzaga-Nevers, il Duca
piemontese deve rinunciare a Pinerolo, occupato dalle truppe d'oltr'alpe ma, in
compenso, mantiene il controllo di Alba.
Il
trattato di Cherasco non segna però la fine delle operazioni militari, che anzi
continueranno ancora per diversi anni, complicate dalla “Guerra civile” che dal
1636 al 1642 continuerà ad insanguinare le terre piemontesi.
Infatti
a Vittorio Amedeo I, morto in quegli anni, era successo il giovanissimo figlio
Carlo Emanuele II, che per 10 anni rimase sotto la tutela e la reggenza della
madre, la “Madama Cristina”, sorella del re di Francia: per tutto questo
periodo la politica sabauda fu quindi, in pratica, controllata dalla Francia.
Contro tale situazione insorsero però i cognati di colei che veniva definita “Madama
reale”, il Cardinale Maurizio e il principe Tommaso, che cercarono l'appoggio
della Spagna.
Anche
quando Cristina, Maurizio e Tommaso trovarono un accordo, il Piemonte e la Val
Bormida continuarono ad essere campo di battaglia per la guerra, lunga e
sanguinosa che Francia e Spagna si combattevano, preferibilmente in casa
altrui, e che proprio in Val Bormida vide scontri accaniti.
Per
trovare un poco di pace bisognerà arrivare al 1659, quando le due superpotenze cesseranno,
ma non definitivamente, le ostilità.
2.3
La guerra in Val Bormida.
Questa
è la cornice storica entro la quale si svilupparono, e con la quale trovano una
spiegazione, gli avvenimenti oggetto del presente studio che ebbero come teatro
la Val Bormida.
Indispensabile
una osservazione preliminare: all'epoca dei fatti l'alta Val Bormida non era
un'entità politica e giurisdizionale compatta, non faceva cioè parte di un
unico Stato: il solo elemento comune ai suoi diversi paesi era l'identità
linguistica e religiosa, oltre che - ovviamente – quella derivante dallo stesso
ambiente socio-economico e dalla identità delle vicende (ma più esatto sarebbe
definirle sciagure) vissute. Il territorio dell'alta Valle era infatti
politicamente diviso fra vari Stati: Giusvalla, Piana, Dego, Roccavignale,
Altare e Mallare erano pertinenza del Marchesato del Monferrato e quindi del
Ducato di Mantova; Rocchetta Cairo, Cairo e Vigneroli appartenevano per 3/4 al
Monferrato e per 1/4 a Milano e quindi alla Spagna ([24]);
Carcare, Pallare, Bormida, Calizzano e Massimino erano passati alla Spagna,
proprio in quegli anni, in seguito alla vendita dell'ex Marchesato di Finale a
tale Potenza da parte dell'ultimo Marchese Del Carretto, Sforza Andrea;
Millesimo, Cosseria, Biestro e Plodio erano infine per metà territorio del
Monferrato e per metà dell'Impero, cui apparteneva anche Cengio. Tutti questi
paesi, con l'esclusione di quelli amministrati dalla Spagna, erano poi
governati direttamente da un feudatario locale (nei fatti, l'unico padrone per
i sudditi) discendente, con poche eccezioni (es. Cairo, Mallare) dalla casata
dei Del Carretto. Come si vede era una situazione politica e giuridica assai
complessa, che portava anche, come conseguenze, notevoli intralci all'attività
commerciale, sottoposta a balzelli infiniti ad ogni attraversamento delle
numerose frontiere che solcavano la valle (il torrente Nanta a Carcare tra
Spagna e Feudi Imperiali, il Ponte della Volta ad Altare e l'abbazia di
Fornelli a Pallare tra Spagna e Monferrato, le “Mule” a Cosseria tra i territori
dei Del Carretto e quelli cairesi degli Scarampi, Cà di Ferrè - sopra Spigno -
tra Monferrato e Repubblica di Genova etc.) e sottoponeva queste terre ai
contraccolpi di tutte le vicende politiche e militari che interessavano i
diversi Stati su esse confinanti.
Le
prime ostilità tra il Piemonte e il Monferrato hanno immediate ripercussioni militari
anche in Val Bormida fin dall'aprile del 1613 allorché il Duca sabaudo “maestro
di infingardi e di doppiezze” ([25]), si
spinge fino nella valle conquistando Gottasecca, Camerana, Roccavignale ed
Altare. Il sopraggiungere di rinforzi
spagnoli, mandati in soccorso dal Governatore di Milano, lo costringe però a
rientrare nei suoi confini. L'anno successivo riprende le ostilità, e per la
seconda volta gli Spagnoli inviano grossi contingenti che presidiano in forze
Spigno, Cairo e Millesimo, guardati a vista dalle truppe savoiarde che hanno
raggiunto Cortemilia. Gli scontri coinvolgono anche la popolazione civile, i
soldati si abbandonano a ruberie e devastazioni, specie nei confronti di
edifici sacri ([26]).
Per
alcuni anni le attività militari segnano il passo, ma l'assenza di truppe
regolari non significò, per gli abitanti di questa infelice terra, pace e tranquillità:
bande di banditi, al soldo di qualcuna delle potenze in lotta, ora di Genova,
ora del Duca sabaudo, desolavano le campagne. Le loro scorrerie hanno lasciato
tracce più nella memoria popolare che in documenti scritti: talora però ci si
imbatte, casualmente, in qualche testimonianza del loro passaggio ([27]).
Nel
1624 gli scontri hanno un'improvvisa recrudescenza proprio in Val Bormida, in
cui fanno la loro comparsa, a fianco di quelle savoiarde, truppe francesi.
Saranno quest'ultime a distinguersi nella prima impresa “militare” testimoniata
per le nostre terre, allorché nel 1644 saccheggeranno Calizzano. L'anno
successivo altra azione di guerra in val Bormida, questa volta centrata su Cairo
Montenotte assalito e bombardato dalle truppe franco-sabaude ([28]).
Ancora tre anni di relativa pace, e poi nuovi atti di violenza ai danni delle
indifese comunità della valle. Questa volta tocca a Carcare,
saccheggiato
dai piemontesi ([29]),
a Rocchetta di Spigno, il paese della maggioranza delle “streghe” coinvolte nel
processo, devastato dai francesi che commettono omicidi sin nella chiesa ([30]), ad Altare,
a Roccavignale ([31])
assalite dai francesi, a Osiglia, angariata da una banda di briganti capitanata
da un certo Bartomelino Pozzoverasco che tanto ricorda il “Conte del sagrato”
di manzoniana memoria ([32]).
Negli
anni successivi le armi tacciono. Un silenzio innaturale scende sui paesi
devastati dalla guerra, sulla popolazione ridotta alla fame dal passaggio continuo
di troppi eserciti nemici. Ma anche negli accampamenti c'è silenzio e morte: un
nuovo generale si aggira tra le lande spettrali cui venti anni di guerra hanno
ridotto l'Italia Settentrionale: è la peste, che in tanta miseria disperata è
l'unica forza a non avere speciali riguardi per nessuno, e al cui assalto
devono cedere tutti, anche i potenti. Per un breve periodo le armi restano
inoperose, e anche i soldati guardano con terrore questo nuovo nemico naturale.
La
guerra langue, ma la popolazione trema: “Le strade non sono sicure per gli
Alemanni che commettono molti inconvenienti” (!) – scriverà il 3 gennaio
del 1631 il parroco di Spigno al suo Vescovo a Savona – non si può menare il
grano né a Piana né a Giusvalla per causa della soldatesca”,e ancora - il
24 dello stesso mese, “si teme più tosto guerra che pace, né gli Alemanni si
partono da queste parti per la novità dei Francesi in Savoia e Piemonte”([33]).
Ma
appena anche il nuovo flagello della peste è passato, la guerra si riaccende
cieca e devastante, portando ancora altri dolori e lutti in un paese già
prostrato, esigendo nuovi tributi di vite là dove troppe ne erano già state
travolte.
Il
1636 si apre con avvenimenti preoccupanti per gli abitanti della Val Bormida,
rimasti in pochi nei paesi spopolati dalla peste. A gennaio milizie sabaude si
affacciano fin a Millesimo, ne prendono prigioniero il feudatario, il conte
Nicolò Del Carretto, portandolo a Ceva, e si dirigono minacciose su Carcare. Il
presidio spagnolo che occupava questa località si ritira verso Spigno, Cairo
viene fortificata ([34]).
L'anno
successivo i franco-piemontesi dilagano in Val Bormida, prima Carcare e poi
Cairo vengono pesantemente saccheggiati ([35]). Dopo
una breve pausa di pochi mesi, durante i quali la guerra si sposta su altri
teatri, le operazioni militari hanno una improvvisa recrudescenza in Val
Bormida, con epicentro proprio nella zona di Spigno dove, nel 1637, l'armata
spagnola guidata da Martino d'Aragona viene sconfitta, nella piana antistante il
paese, dai piemontesi del duca Amedeo di Savoia e, due anni più tardi, nel triangolo
Saliceto-Cengio-Cairo, in cui si trovavano concentrate parecchie migliaia di
soldati francesi, piemontesi e spagnoli. Questi ultimi, nella primavera del
1639, profittando della complicata situazione in cui si trovava il Piemonte,
all'epoca della cosiddetta “guerra civile”, cercano di occupare il potente
castello di Cengio, difeso da un notevole circuito di fortificazioni, che
costituiva la chiave dell'ingresso in Piemonte ([36]): per
aver ragione dei difensori del castello occorre una settimana (23-30 marzo) e
quando gli ultimi occupanti si arrendono sul terreno resteranno, fra francesi,
piemontesi e spagnoli, oltre 800 caduti. In seguito a questa vittoria tutta la
zona fra Millesimo e Cengio viene occupata dagli Spagnoli, ma sarà una presenza
tutt'altro che definitiva.
La
guerra che ormai da quasi una generazione sconvolgeva praticamente tutta
l'Europa presentava una caratteristica, quella di alternare a momenti di
scontri mesi di relativa tranquillità. Anche nella zona oggetto del presente
studio si verificò questa strana situazione, specie fra il 1639 e il 1644: per
quasi cinque anni non ci furono fatti d'arme militari di un certo rilievo, e la
popolazione poté vivere in una relativa tranquillità.
Poi, all'improvviso, la guerra fa nuovamente
sentire il suo impeto. Nel 1644 tocca ancora una volta a Carcare, assalito dai
franco-piemontesi: respinti dal castello, ripiegano su un meno pericoloso
saccheggio delle abitazioni ([37]).
E
così fiammate di guerra e brevi periodi di pace si alternano per diversi anni, inframmezzate
da tanti piccoli episodi di soprusi e angherie.
Sono
queste le vicende di guerra che stavano sconvolgendo in quegli anni Spigno e i
paesi vicini: ci è sembrato importante dilungarci nella loro illustrazione
perché da esse scaturì probabilmente quella situazione di incertezza, paura,
terrore, disperazione che a sua volta generò le condizioni perché quel processo
potesse celebrarsi: fattucchiere, guaritrici e “streghe” erano infatti sempre
state presenti nella realtà (o nella fantasia) delle popolazioni della zona,
talvolta ricoprendo anche un ruolo di indubbio valore sociale, quello, diremmo
oggi, di “medici di base” in un'epoca in cui il ricorso al medico “vero”
(vero?) era possibile unicamente ai ricchi: solo quando la situazione diventa
disperata la loro presenza, prima tollerata o addirittura ricercata, diventa
sintomo di una devianza da eliminare perché la società possa sopravvivere.
C'è
ancora un ulteriore elemento da tenere in considerazione per raccogliere il
maggior numero possibile di elementi
atti a comprendere quanto successe a Spigno.
La
guerra produsse innanzitutto una generalizzata miseria e l'impoverimento di
diverse comunità, soprattutto quelle che, come Carcare, Cairo e appunto Spigno,
erano situate sulla via di transito delle truppe. Questi centri si trovavano -
giova ricordarlo - sulla strada che dalla rada di Finale, luogo di sbarco delle
truppe spagnole, andava verso il retroterra padano e la Lombardia: tutte le
truppe dirette nell'ex Ducato di Milano, all'epoca possedimento spagnolo,
transitavano lungo questa via, sulla quale passavano anche molti rinforzi che
la Spagna inviava nel nord Europa (Austria, Fiandre) per le quali la traversata
via mare davanti alle coste ostili di Francia e Inghilterra presentava troppi
pericoli. Questi soldati dovevano essere ospitati. E anche quando si trattava,
caso raro, di truppe disciplinate, che non volevano “insegnar la verecondia
alle ragazze o alleggerire i contadini dalla fatica della vendemmia”, come
ricorda il Manzoni, restava pur sempre l'obbligo, per i paesi attraversati da
tali truppe, di fornir loro cibo e mantenimento: e non era obbligo da poco.
Ecco
quindi le frequentissime suppliche che alcuni paesi, soprattutto quelli posti
lungo la strada, furono costretti ad inviare alle Autorità Spagnole per
chiedere di essere esentati da un compito che diventava sempre più
intollerabile ([38]).
Al mantenimento
dei soldati si univano poi le angherie piccole e grandi cui erano obbligati gli
abitanti, dal fornire alle truppe i
cariaggi e le bestie da tiro, per trasportare i bagagli ([39]), alla
consegna di denari o derrate alimentari ([40]), al
foraggiamento della cavalleria di passaggio, a “lavori forzati” intorno alle
fortificazioni dei castelli ([41]).
Di
molte delle sofferenze che la guerra inflisse a queste popolazioni contadine
mancano oggi testimonianze scritte, appartenendo tali sofferenze a quella “cultura
del silenzio” che caratterizza le zone agricole, nelle quali le vicende della
povera gente sono affidate al ricordo orale e non lasciano
che
labili prove scritte. Fra le poche giunte fino a noi ci sembra opportuno riportarne
due proprio allo scopo di evidenziare le condizioni di disperazione in cui
guerra e passaggi di soldatesche varie avevano gettato la popolazione e che
provocarono poi quello scoppio di intolleranza che fu il processo di Spigno.
La
prima è una lettera inviata nel marzo del 1639 da Carcare dal padre scolopio G.
Crisostomo Peri a S. Giuseppe Calasanzio, il fondatore del Collegio delle
Scuole Pie che il santo spagnolo proprio in quegli anni (nel 1621) aveva eretto
nel paese. In essa accennando ai movimenti delle truppe spagnole dirette verso
il castello di Cengia presidiato da quelle franco-piemontesi, il sacerdote
ricorda che “l'armata francese stata qui a Carcare 13 giorni ha rovinato
tutto questo povero luogo: le biade che erano così belle sono state mangiate
dai cavalli in luogo di fieno e non c'è speranza di poterne raccogliere messe
alcuna” ([42]).
La seconda è una supplica del Consiglio Comunale di Cairo del 1637 in cui si
ricorda che “a Cairo viene fatta grande
istanza che si voglia sovvenire i poveri d'un poco di grano di quello del monte
di pietà” ([43]).
È
quindi una situazione di generale miseria e povertà, che non poteva non
sboccare nelle drammatiche conseguenze che in realtà ebbe: carestia, indebolimento,
malattie, epidemie. Era ormai giunto il tempo che apparisse la terribile
nemica, che riempì di terrore l'intera Europa: la peste.
(per approfondimenti sulla guerra dei 30 anni in Val Bormida v.
storiadellavalbormida.blogspot.it/2016/12/la-bormida-durante-la-guerra-trenta_21.html
(per approfondimenti sulla guerra dei 30 anni in Val Bormida v.
storiadellavalbormida.blogspot.it/2016/12/la-bormida-durante-la-guerra-trenta_21.html
3. La peste.
Questa
devastante epidemia, figlia della guerra, della miseria e dell'indebolimento della
popolazione ([44]),
arrivò anche nelle nostre terre, dove lasciò un solco profondo di sofferenze e
di morte. Essa fu inoltre, a nostro avviso, la vera causa che determinò, con la
desolazione in cui gettò le popolazione della Valle, quello scoppio di
disperata intolleranza che fu il processo alle streghe di Spigno.
Per
capire cosa allora successe occorre quindi cercare di verificare l'impatto che
tale malattia contagiosa ebbe sulla popolazione della valle.
3.1
La peste nella valle.
Non
esistono, che io sappia, studi specificatamente dedicati a questo avvenimento
per quanto concerne l'area valbormidese, anche se praticamente ogni libro di
storia locale ha il suo capitolo in cui l'epidemia di peste viene presentata,
talora anche con un tono apocalittico ancor più grave di quanto fu in realtà.
Esaminando
comunque gli scarni dati racimolabili da fonti diverse è possibile farsi un
quadro, certo impreciso e parziale, che dà comunque un'idea del terribile
impatto che la pestilenza del 1631 ebbe sulle popolazioni valbormidesi.
Nella
zona l'epidemia - che in Italia Settentrionale durò dal 1629 al '33, col suo
culmine nel '30 (la peste del Manzoni) - arrivò in due ondate, una nel 1630, la
seconda, più devastante, l'anno successivo.
Nel
1630 furono colpiti, nella valle, pochi paesi (Biestro, Altare, Piana e
appunto, Spigno) con un numero di decessi significativo rispetto alla media
annua ma non elevatissimo: ben più grave sarà invece l'epidemia del '31, che colpì,
per di più, anche i paesi in cui era già apparsa l'anno precedente.
Per
ricostruire quanto successe nella zona, ancora una volta una fonte insostituibile
è rappresentata dagli Archivi parrocchiali e dai registri (quelli dei
battesimi, dei matrimoni e dei morti) in essi conservati: si tratta però di
dati incompleti in quanto molti di tali archivi furono saccheggiati dalle
truppe francesi nel 1796-99, e i documenti dispersi o distrutti. Ciò che resta
ci permette comunque di delineare un quadro sommano paese per paese.
La
prima località per la quale troviamo dati significativi è il piccolo centro
montano di Biestro (Sv.): qui, come si è detto, la malattia arrivò nel 1630,
facendo nel solo mese di agosto 32 morti ([45]): per
valutare questo dato nel suo valore basterà notare che la media annua dei morti
era, in quel paese e in quegli anni (1624-1629), di 8/9 decessi, mentre la
popolazione ammontava (nel 1654) a 320 persone: la peste eliminò il 10% degli
abitanti!
Altri
dati sono disponibili per Altare, al cui riguardo i registri conservati nel
locale archivio parrocchiale ci forniscono diverse informazioni sull'evoluzione
del contagio: i primi decessi si ebbero nel 1630, anno che vide 86 morti contro
una media di 27-30 del periodo precedente ([46]).
L'accresciuta mortalità non venne però probabilmente identificata (o non la si
volle identificare) con la peste, mancando nei registri parrocchiali ogni
annotazione al riguardo.
L'anno
successivo non fu invece più possibile farsi illusioni, il contagio era
penetrato nel paese e la peste fu riconosciuta come tale: i decessi,concentrati
nei mesi estivi, salirono a 106 (in un paese di neppure 800 abitanti ([47]) e in
almeno 57 casi il parroco nel registrare i nomi sul liber defunctorum precisò
”mortuo morbo pestis”, morto di peste.
Il
contagio ebbe uno strascico anche nel 1632, quando il morbus pestis è
ricordato come la causa di due decessi.
Ad
Altare, come in altri centri, la peste lasciò conseguenze sull'andamento demografico
del paese: i matrimoni, nel 1631, scesero a 6 contro una media annua di 12-13,
le nascite si ridussero a 32 di fronte alle 48-54 degli anni “normali” ([48]).
Conseguenze ci furono anche nei rapporti sociali, almeno a giudicare dai tre
omicidi che avvennero nel paese, non sappiamo per quale motivo, fra l'aprile e
il luglio di quel tragico 1631 ([49]).
In
altri centri della Val Bormida la malattia arrivò con un anno di ritardo rispetto
a Biestro ed Altare, ma il passare dei mesi non ne aveva certo diminuito la
virulenza. Ancora una volta sono i Registri degli Archivi parrocchiali a farci
intravedere la vastità del contagio: a Cairo, di fronte ad una media annua di
decessi compresa fra 50/70 ([50]) si
arriva, nel 1631, alla drammatica cifra di 503 ([51]). Anche
per Carcare l'archivio parrocchiale fornisce dati abbastanza precisi: esiste
infatti ([52])
la testimonianza lasciataci da Giò. Giacomo Barbieri, succeduto come parroco al
suo predecessore vittima della peste, che così annotò: “ L'anno del Signore
1631, restando vacante la chiesa della Carcare per la morte del p. Francesco
Berruti, curato, che se ne morì di peste nel mese di luglio ([53]
)ci andai nell'anno 1632 restando il loco purgato e ben netto dal contaggio
dell'anno 1631 antecedente, per il quale sono morti tra grandi e piccoli cento
settanta “.
A
Carcare l'epidemia dovette quindi cessare nel 1632, dato confermato anche da
una annotazione dcl “ Libro dei Matrimoni “ ([54]),
lasciando però, oltre ai morti (170 su una popolazione di ca. 750 ab.), una
popolazione stremata, che per anni trascinò le conseguenze della strage: ancora
nel 1634 i
matrimoni
furono 3, nel 35 uno, contro una media di almeno una ventina negli anni
precedenti al contagio.
Altare,
Calcare, Cairo e, in misura minore, Biestro, sono gli unici paesi dell'alta Val
Bormida per i quali si conoscano documenti d'archivio coevi riportanti con una
certa precisione l'estensione del contagio: per altri paesi i dati sono più
indiretti, ma comunque sufficienti a farci intuire che ovunque la peste colpì
con durezza.
Per
Calizzano una relazione francese del 1808, invero un poco tarda, ricorda 400
morti di peste nel 1631 ([55])
l'archivio parrocchiale di questo paese non offre testimonianze dirette, alcuni
registri presentano però delle lacune fra il maggio del 1631 e il marzo del
1633, probabilmente causate dagli sconvolgimenti provocati dalla pestilenze,
mentre annotazioni risalenti al 1640 ed esistenti nel, “libro degli ordinati”
ricordano il 1631 come ”tempo di peste” ([56]).
Analoga testimonianza è offerta nello stesso paese anche da un cartiglio,
datato al 1631 – “peste Calizzani grassante” - presente su un quadro
della cappella di S. Rosalia (venerata come protettrice dalla peste) e
raffigurante un carro carico di cadaveri mentre altri cadaveri sono stesi a
terra. Una testimonianza indiretta del diffondersi della peste a Calizzano, e
del suo allargarsi, proprio partendo da questo centro, sui paesi
della
costa, si ha in un interessante documento riportato dal Silla nel suo studio su
Finale ([57]):
esso ricorda come in questo ultimo paese la peste fosse stata portata “dal
tercio (=reggimento) appestato di fiorentini e per il ritorno del Muto
di Bardino impestato da Calizzano, ove esso mutto serviva per monatto “.
Analogamente
a Millesimo l'archivio parrocchiale presenta solo tracce indirette del
contagio, mancando il “Registro dei Morti”: dal superstite “Libro della nascite
e battesimi 1596-1635 “ veniamo comunque a sapere che anche in questo paese il
1631 fu “tempo di peste” ([58]) . Pur
non conoscendo con precisione l'ampiezza che il contagio raggiunse in questo
paese, un dato indiretto ci conferma che esso fu comunque diffuso: di fronte, infatti,
ad una media annua di nascite oscillante intorno a 25/30, nel 1631 esse furono
solo 16 e di queste solo 5 nel periodo aprile/dicembre, quando
più
infuriava, almeno nei paesi vicini, la pestilenza.
Lacunoso
pure l'archivio parrocchiale di Dego, ma anche qui una conferma indiretta
dell'imperversare del contagio: il registro dei battesimi ([59]) presenta
un'ampia lacuna proprio nel periodo di massima diffusione del contagio:
l'ultima registrazione risale infatti al 5 febbraio del 1631 e poi c'è il vuoto
fino all'anno successivo, allorché l'annotazione”Descrizione nuova fatta da
me infrascritto Gaspare Sicho, moderno arciprete di Dego, incominciando l'anno
1632” ci permette di capire che anche qui la peste fu presente, portando
via, fra gli altri, anche il parroco e determinando, di conseguenza, la fine di
ogni registrazione fino all'arrivo, cessato il contagio, del successore.
Una
labile testimonianza anche a Cosseria, dove la mancanza del “Registro dei morti”
non permette confronti diretti: ma anche per questo paese il superstite “Registro
dei Battesimi” (che, e forse non è un caso, inizia dal 1635) segna un
progredire delle nascite man mano che ci si allontana dall'anno della peste: 14
battesimi nel 1635, 24 nel '36, 25 nel '37, 29 nel 1638.
3.2
La peste a Spigno.
La
ricostruzione degli effetti della peste a Spigno, Rocchetta, Merana, Piana,
cioè nei paesi più direttamente interessati dal processo oggetto di questo
studio, è importante ai fini della ricostruzione dell'ambiente in cui si svolse
il processo stesso. Essa è resa più facile, rispetto ad altri paesi, proprio
dagli
atti e documenti processuali, nei quali, specie nelle lettere, le citazioni riguardanti
la peste sono tanto presenti quanto quelle concernenti le streghe, evidenziando
così come il binomio peste-streghe fosse nella mentalità dell'epoca
inscindibile.
Nella
zona il contagio si diffuse, non sappiamo in quale misura, fin dal 1630; alla
fine dell'anno, coi mesi invernali, la malattia ha una pausa, che viene
interpretata come la cessazione del morbo:
“A Spigno - scrive il parroco d. Verruta al Vescovo il 3 gennaio '31 - si sono purificate le case infette,si fa la quarantena generale nel borgo con la diligentia et il modo avuto da Milano ([60]), né più more alcuno, et sono più di 25 giorni che non è morta persona alcuna “.
“A Spigno - scrive il parroco d. Verruta al Vescovo il 3 gennaio '31 - si sono purificate le case infette,si fa la quarantena generale nel borgo con la diligentia et il modo avuto da Milano ([60]), né più more alcuno, et sono più di 25 giorni che non è morta persona alcuna “.
Si
fa anche il conto dei danni e dei lutti, non indifferenti: “Sulle fini di
Montechiaro sono rimasti pochi huomini, il prevosto di Montaldo è scappato per
timore della peste, a Turpino, per grazia di Dio, non vi è successo male se non
in una famiglia”,
L'illusoria
speranza che la peste sia finita si avverte anche in una lettera di poco
posteriore, inviata dallo stesso arciprete al Vescovo alla fine di gennaio: “Nella
cascina (del Vescovo) le cose vanno male, et il difetto consiste nel
male del contagio, per esservi morta gente nella cassina, qual si farà nettare
et purificare come si conviene, per sicurezza di tutti. A Spigno le cose
passano bene, sono più di un mese che non è morto alcuno e non vi è alcun
malato, facendosi la quarantena generale con buonissima regola e modo nel
borgo: che però spero in Dio benedetto s'acquetino le influenze”.
Nella
speranza del parroco la peste è quindi finita, le “influenze” (!) che l'hanno
provocata si sono acquetate e ora resta solo da fare la quarantena, pulire le
case infette e cercare nuovi affittuari per i beni rimasti vacanti.
Ma
con l'arrivo dei primi tepori primaverili l'epidemia dilaga nuovamente con
aumentato vigore, infrangendo le illusorie speranze della gente.
Sono
ancora le lettere degli amministratori dei beni della mensa vescovile indirizzate
al Vescovo ad illustrarci il precipitare della situazione: il 17 aprile il
parroco di Spigno scrive che “è venuto il Prevosto di Piana dicendo che non
vuol più stare a Piana per la contagione (ma a differenza dei suoi colleghi
di Cairo e di Montaldo non lascerà i suoi parrocchiani fino a quando, due mesi
più tardi, morrà di peste) e due degli affittavoli (dei beni vescovili) sono
morti di contaggione. Lo Sgorlino - affittavolo di un'altra cascina
appartenente al Vescovo- sta bene et s'è ritirato alla cassina dell' Abbazia
di Spigno per fuggire la peste”; il 21 maggio è “dominus Bertuzzo, mastro
di casa della Mensa vescovile” a comunicare al Vescovo che “ hoggi mi
hanno detto che il prete di Piana morto di contagiane e sono morti anche quelli
che tenevano i beni di Piana”. Quanto allo Sgorlino “sta bene, ma gli
sono morti due figlioli, il primo e l'ultimo.Il Vescovo cerca un altro sacerdote
per non lasciare Piana sprovvista di una guida spirituale in quei drammatici
giorni, ma non ne trova: anche l'invito fatto ai Francescani di Spigno di
inviare provvisoriamente un loro frate a Piana viene cortesemente declinato “dolendomi
oltre modo di non poter servire V.S. Ill.ma stante che in Piana moiono del
continuo del morbo contagioso”, come scrive il 4 giugno al Vescovo di
Savona il Padre Guardiano dei Francescani di Spigno, et il morbo procede in
non voler far nettare le case infette” ([61]). La
paura del contagio è forte, e il 21 luglio il paese è ancora senza sacerdote: “
dimani vado a Piana per veder se quel prete di Dego vi volesse andar,
scrive d. Verruta al Vescovo: e dopo la visita infruttuosa fa del paese un
quadro drammatico: “A Piana in chiesa ci sta il lume (la lampada del SS.
Sacramento), ma per li corpi insepolti niuno vi ardisce andarci. Lo Sgorlino
sta bene “.
A
settembre la situazione è ancora drammatica: “A Piana - è sempre d.
Verruta ad informarci - le cose non possono andar di peggio, né in modo alcuno
trovo prete che vi vogli attendere. Monsignor (Vescovo) d'Acqui è morto
di contagio ([62]) e
le cose passano malissimo. A Turpino sono morti quasi tutti di peste, i
rastrelli sono serrati per la peste, a Spigno le cose vanno assai bene, se ben
succede qualche caso nelli filioli maleficati dalle streghe che restano ancora
di fuori delle carceri”: per intendere cosa significhi quel “le cose
vanno assai bene “ basterà notare che in 15 giorni - dal 4 settembre all'8
ottobre - si contano ben 28 morti “di contaggio “ ([63]), morti
che, come ricorrerà due anni più tardi un sacerdote in una lettera indirizzata al
Vescovo di Savona “”in tempo di contaggio, per ordine del sig.
Commissario si seppellivano dove si ritrovavano, senza portarli alla chiesa”
([64]).
Nell'ottobre,
finalmente, si trova un sacerdote disposto a recarsi a Piana almeno per
amministrare i matrimoni: è quel d. Bertuzzo già prima ricordato, che il
3/10/1631 riceve apposita autorizzazione dal Vescovo “attento notorio
epidemiae impedimento et epidemiae morbo qui locum Planae graviter invasit “.
Con
l'arrivo dell'autunno, finalmente, la virulenza del contagio si attenua per
poi, lentamente, sparire.
A
Giusvalla, a pochi chilometri da Spigno, la popolazione chiede al Vescovo il
permesso di celebrare la messa all'aperto “per vedere di schivare li pericoli
di contagione dai quali, ancorché siamo circondati, per grazia di Dio e di M.V.
siamo ancora liberi” ([65]), a
Spigno, il 21 ottobre, d. Verruta con timida speranza comunica al Vescovo che “il
contagio pare abbi cessato, sendo più di otto giorni che non s'è ammalato né
morto alcuno: Dio per sua misericordia ci aggiuti et diffendi”“ .
Il
22 dicembre buone notizie anche per Piana, dove “si nettono le case et è
cessato il contagio”.
La
fine della peste, pur nel perseverare della guerra, viene celebrata con
manifestazioni di festa e di gioia: si adempiono i voti fatti durante
l'imperversare del morbo ([66]), si
canta e si balla con tanto slancio da suscitare i rimproveri del Vescovo ([67]).
Si
tirano però anche le prime somme: “Molti paesi del Vescovado di Acqui sono
privi di preti, scriverà d. Verruta al Vescovo il 22 dicembre 1631, ( .. ) molte
possessioni sono gerbide (non coltivate) per essere state abbandonate ( .. ), a
Turpino non v'è gente per la contagiane, ( .. ) vanno gerbide possessioni di
rilievo”: ci si conta, molti mancano, tra questi un altrimenti anonimo
valbormidese, quello Sgorlino più volte ricordato come affittuario del Vescovo
e rifugiatosi in una cascina per sfuggire al morbo: dopo aver perso due figli,
il 19 novembre “è morto con tutti li suoi e non vi è rimasta che solo una
figlia piccola”. Un piccolo dramma nel gigantesco dramma della peste.
Se
si passa infatti ad analizzare i dati relativi alla popolazione di singoli centri,
almeno quelli per i quali disponiamo di dati complessivi significativamente precisi,
l'impatto determinato dall'epidemia del 1630-31 può essere valutato in tutta la
sua ampiezza: Dego passa da 1312 a 532 ab. (-59%), Rocchetta Cairo da 283 a 270
(-4,5%: fu un paese veramente fortunato!), Sassello da 2604 a 1500 (-42%), S.
Giulia da 400 ca. (il dato non è sicuro) a 332, Scaletta da 400 (dato non
sicuro) a 154 ([68]).
Per
altri centri i dati assoluti sono meno precisi, ma possono ugualmente fornirci
qualche indicazione: Carcare passa da
750 abitanti presunti per il 1612 ([69]) ai 592
del 1687, con una differenza in meno che è quasi identica al numero delle
vittime della peste fornito dalla ricordata annotazione del parroco G.
Barbieri. Per Cosseria, invece, i dati sono più imprecisi, soprattutto per il
troppo ampio intervallo che li separa: gli abitanti erano 904 nel 1628 ([70]), ma
per trovare un'altra indicazione attendibile bisogna aspettare due secoli, fino
al 1824, quando erano solo 740: un intervallo troppo lungo, per addebitare tale
calo solo alla peste ([71]) : ma
il dato è comunque interessante.
Dopo
i dati particolari di singoli paesi possiamo anche tentare un bilancio conclusivo,
che appare sconsolante.
Alcuni
centri della Val Bormida, specie nei suoi settori meridionali, appartenevano
all'epoca alla Diocesi di Acqui, per la quale sono disponibili dati complessivi
della popolazione.
I suoi abitanti erano 77822 nel 1586, scenderanno
a 40647 nel 1639, con una diminuzione di 37175, pari al 47%: l'allora Vescovo
di Acqui, mons. Felice Crova, succeduto al suo predecessore morto di peste, può
quindi sconsolatamente scrivere che “per le terre della Diocesi delle tre
parti sono morte le due” ([72])
Ecco
i frutti combinati di guerra e peste: da qui nacque il processo alle streghe.
(per approfondimenti sulla peste in Val Bormida v.
(per approfondimenti sulla peste in Val Bormida v.
4. I retroscena
4.1.
Il feudo di Spigno.
Al
tempo dei fatti oggetto del presente studio Spigno era un piccolo paese di
circa 1000 persone, posto lungo la strada che dal mare (Savona, Finale) andava
alla pianura padana.
I
suoi abitanti vivevano di una economia prevalentemente contadina soggetti ad un
feudatario locale: Spigno era infatti un feudo imperiale.
Questo
piccolo centro, di probabile origine romana, ebbe una certa espansione nel
medio evo, soprattutto a partire dal 991, quando vi fu fondata l'abbazia
benedettina di S. Quintino. Iniziò da allora quella dualità, quel conflitto di
giurisdizione fra potere laico (il feudatario) e religioso (il Vescovo) che
vedremo caratterizzare il processo del 1631.
All'epoca
della fondazione dell'abbazia il territorio di Spigno apparteneva ai marchesi
Anselmo ed Ottone, figli di quell'Aleramo da cui praticamente iniziò la storia
feudale della Liguria savonese e del basso Piemonte. Da essi discese Ugone,
capostipite dei marchesi di Ponzone che tennero questo feudo per diversi
secoli. Nel 1232 Enrichetta e Manfredino
marchesi di Ponzone vendettero parte della giurisdizione su Spigno a
Giacomo Del Carretto: da questo momento la grande famiglia carrettesca, i cui diversi
rami signoreggiavano su tutta la Val Bormida fino al mare, diventa proprietaria
del feudo, di cui completerà l'acquisto fra il 1300 e il 1335. Nel 1290 i
Signori di Spigno prestano giuramento di fedeltà alla Repubblica di Genova, che
da quell'anno avrà quindi la “superiore sovranità” sul territorio. Nel 1419
Genova deve però cedere al Monferrato tutti i diritti dalla stessa detenuti sui
suoi possedimenti oltregiogo e a partire da tale data i Del Carretto di Spigno
riceveranno l'investitura, anzichè da Genova, dai Paleologo del Monferrato e,
dopo l'estinzione di questa casata nel 1533, dai Gonzaga di Mantova cui erano
passati i diritti dei Paleologo.
Nel
1532 Albertino Del Carretto vende metà di Spigno a Francesco Spinola, marchese
di Garessio, fratello dell'allora Vescovo di Savona. Nel 1579 l'altra metà di
Spigno passa, in seguito all'estinzione della linea maschile della locale
famiglia carrettesca nella persona di Caterina Del Carretto, al figlio di
Caterina, Luigi Asinari, cui a quanto pare rimase la giurisdizione intera del
paese. A Luigi nel 1614 successe il figlio Marco Antonio Asinari Del Carretto,
che è il Marchese (il feudo era infatti stato elevato a dignità di marchesato
da Filippo II re di Spagna) che si troverà a gestire il processo del 1631.
4.2
L'abbazia di S. Quintino
Le
vicende di Spigno furono però sovente intrecciate con quelle dell'abbazia di S.
Quintino, edificata nei pressi dell'abitato nel X secolo: l'importanza di tale
fondazione monastica travalicò la sfera religiosa, sconfinando nel campo
politico e gettando le premesse per quell'intrecciarsi di competenze religiose
e laiche che vedremo caratterizzare questo processo.
Pur
facendo parte Spigno della diocesi di Acqui (nel 991, non nel 1631!) e del
comitato acquense, il fondatore dell'abbazia volle infatti che la stessa fosse
“in consecratione episcopi sancte Vadensis ecclesiae” ([73]) ,
dipendesse cioè dal Vescovo di Savona anzichè da quello di Acqui. È per questo motivo
che nel 1631 troveremo Spigno dipendere ecclesiasticamente dalla diocesi
savonese, pur essendo incuneato fra i territori di quelle di Acqui e di Alba.
Ma
la presenza del Vescovo di Savona aveva anche un ruolo politico, dato che il Vescovo
savonese aveva sull'abbazia di Spigno non solo la giurisdizione ecclesiastica,
ma anche quella politica: fra il 1325, infatti, e il 1469 l'abate di S.
Quintino acquisì dai Marchesi di Ponzane la giurisdizione feudale sull'abbazia
stessa e sui vicini centri di Lodisio, Cagna, Turpino, Pianae Giusvalla, ove il
monastero aveva vasti possessi. L'abate diviene pertanto feudatario. E così nel
1484 lo vediamo prestare giuramento di fedeltà al Marchese del Monferrato, come
un qualsiasi feudatario, per i feudi sopra ricordati. ·
Nel
novembre del 1500 con bolla del papa Alessandro VI l'abazia viene ceduta al
clero secolare e unita con tutti i suoi beni alla mensa vescovile di Savona. Da
allora il Vescovo di Savona assume il titolo di feudatario di Cagna, Piana,
Giusvalla e Lodisio. Come feudatario nel 1512 verrà investito dal marchese
Guglielmo di Monferrato della giurisdizione su queste località ”con mero e
misto impero e con facoltà di spada”.
L'abbazia di Spigno(da http://web.mclink.it/MH0688/Fuoriclasse/mappa.htm) |
Nel
1531 il Vescovo di Savona, Agostino Spinola, fratello di quel Francesco sopra
citato, “per accrescere splendore di dominio alla propria casa ne privò la
chiesa savonese” ([74]) vendendo
(anzi, permutando con altri beni) apppunto al fratello Francesco i feudi di
Cagna, Piana, Giusvalla, Turpino e Rocchetta di Spigno, riservando così alla
chiesa savonese la sola giurisdizione feudale su Lodisio, fra l'altro in
compartecipazione con il marchese di Garessio.
A
partire da tale data sul territorio oggetto del presente studio convivono quindi
più o meno felicemente tre signorie: il marchese di Garessio Francesco Spinola
(omonimo del precedente ma posteriore di un secolo: morirà nel 1632), signore
di Dego, Cagna, Piana, Giusvalla, Turpino (e forse di Rocchetta di Spigno e di
parte di Spigno), nonchè consignore di Lodisio, il marchese di Spigno, Marco
Antonio Asinari Del Carretto, ed infine il “supremo signore di Lodisio“ nella
persona del Vescovo di Savona sedente in cattedra (nel 1631 è Francesco Maria
Spinola, parente - alla lontana - del Marchese di Garessio).
Il Vescovo
di Savona aveva anche la giurisdizione ecclesiastica su tutto il territorio già
di proprietà della ex abbazia di S. Quintino (o almeno sulle chiese di Spigno,
Piana, Turpino, Giusvalla, Rocchetta di Spigno e Merana, di cui nominava i
sacerdoti), nonché la proprietà dell'abbazia e di quanto restava dei suoi beni.
Come
si vede una situazione complicata.
4.3.
Dietro alle quinte.
Il
secondo gruppo di documenti conservato nell'archivio vescovile di Savona ( e
presentato integralmente in calce ) ci permette di raccogliere nuove, più ampie
informazioni sulla genesi del processo, il suo svolgimento, la sua conclusione
e, soprattutto, i suoi retroscena. Come già detto si tratta della
corrispondenza, in originale o in copia, intrattenuta tra il parroco di Spigno,
don Giovanni Verruta e il suo Vescovo (o la cancelleria vescovile), mons.
Francesco Maria Spinola, nonchè tra il Vescovo, il padre inquisitore di Genova,
fra' Pietro Ricciareli e la Congregazione del S. Offizio di Roma nella persona
del suo procuratore Stefano Senarega e del Cardinale di S. Onofrio. Ci sono poi
le copie delle lettere che d. Verruta inviò, per ordine del Vescovo,alle
autorità giudiziarie di Spigno, nella persona del procuratore fiscale Vincenzo
Bachiello, nonchè l'origjnale della lettera che il marchese di Spigno, Alfonso
Asinari Carretto, inviò al Vescovo al termine del processo. In tutto si tratta
di 29 documenti di un'importanza veramente notevole· perché ci rivelano -molto
più della documentazione costituita dagli atti legali, fra l'altro incompleta - i retroscena di questo processo, che fu, anche e soprattutto, uno scontro
tra due giustizie e due giurisdizioni diverse, quella laico/ feudale e quella
religiosa, entrambe gelose delle loro prerogative.
È
quindi questa una delle non frequentissime occasioni in cui un avvenimento storico
di una certa importanza, sia dal punto di vista sociale, sia da quello sottinteso
dalle implicazioni dello scontro tra potere laico e religioso che in esso si
verificarono, può essere studiato, e compreso, non solo tramite la
documentazione legale ufficiale e pubblica ma anche tramite quella, per così
dire “privata” e riservata, che ci apre uno squarcio interessante su ciò che fu
una drammatica vicenda e un episodio indicativo della dialettica tra “ Stato “
(nella persona di un marchese) e Chiesa, tra Giustizia di Stato e Giustizia di
Chiesa.
Il
primo documento ( lett. 1) che tratta, anche se di sfuggita, il problema
del processo alle streghe di Spigno risale al 17 luglio del 1631, cioè cinque giorni
dopo l'apertura del processo stesso: è una semplice frase in una lettera che d.
Verruta scrisse al Vescovo cui ricorda che “già ho scritto a V.S. Ill.ma circa
le donne incarcerate. Aspetterò ordini”. Dalla lettera si capisce che il Vescovo
era già stato informato in precedenza, forse tramite una lettera a noi non
pervenuta. Appare anche quella che si rivelerà essere la dote e la caratteristica
tipica di d. Verruta in tutto il processo: non dimenticare mai di esercitare il
ruolo di vicario del Vescovo e di agire sempre sulla base delle disposizioni
ricevute e non delle proprie convinzioni.
Il
21 luglio una seconda lettera (lett. 2) inizia a rivelare particolari
interessanti: d. Verruta scrive che ”si sono già interrogate una volta le
donne incarcerate et il Dottore (il procuratore fiscale, oggi diremmo il
pubblico ministero o il GIP) dice (che) converrà torquerle
(=torturarle) sendo gravate (= indiziate) a tal segno. Con tutto ciò
esseguirò l'ordine datomi di interrogarle per la seconda volta et mandare costì
(= a Savona, in vescovado) le scritture “.
È
qui testimoniata per la prima volta quella che poi sarà la costante di tutto il
processo: le divergenze fra le autorità
feudali locali, decise a andare avanti con rigore e pesantezza (uso della
tortura) e quella religiosa rappresentata dal Vescovo che invece, prima di
autorizzarne l'uso, voleva visionare i verbali del primo interrogatorio. In
mezzo d. Verruta, pronto ad ubbidire agli ordini dcl Vescovo ma in cuor suo
forse stupito di fronte a tante delicatezze verso quelle che per lui erano
senz'altro streghe pericolose: non dimentichiamo che le streghe erano
considerate fra le principali artefici della diffusione della peste, che
proprio in quei giorni mieteva vittime anche a Spigno e dintorni, come la
stessa lettera di d. Verruta ricorda esplicitamente.
Siamo
anche di fronte alla prima illegalità, o comunque scorrettezza, formale e procedurale,
in quanto nei casi di “stregonerie “ la tortura poteva essere disposta solo
dall'autorità ecclesiastica.
Tale
scorrettezza procedurale viene immediatamente avvertita in vescovado e il
giorno dopo, 22 luglio, il cancelliere della Curia Vescovile manda a d. Verruta
precise istruzioni ( lett. 3) sul comportamento che avrebbe dovuto
tenere come rappresentante del Vescovo.
Innanzitutto occorre calmare gli entusiasmi
delle autorità laiche locali: “Poiché (dalla lettera di d. Verruta) si
vede che il magnifico Podestà per quanto dite cammina a buon fine per estirpar
simili radici, con bel modo l'andrete trattenendo allegandoli che simil materia
si deve conoscere dal Giudice ecclesiastico per esser (materia) di Santo
Ufficio “. Il tutto, ovviamente, con diplomazia, senza rompere con il
Podestà perché “bisognando d'aiuto ricorrerete da lui che in tal caso si
dovrà compiacere di darlo”. Inoltre don Verruta dovrà curare che nel
processo si proceda esaminando testimoni prima di “innovar altro contro le
pretese streghe”: e il fatto che si usi l'aggettivo “ pretese” ci fa capire
chiaramente quale fosse l'opinione del Vescovo di Savona circa le imputazioni.
A don Verruta viene inoltre ricordato di “mandar copia delle scritture
secreta e sigillata, non potendo dar rimedio se prima non si vedono le
scritture ed informazioni”. Il richiamo al segreto ci pare particolarmente
interessante, specie alla luce dell'atteggiamento che sia il Vescovo che il S.
Uffizio terranno in occasione di questo processo, come di altri: evitare che la
situazione potesse sfuggire di mano una volta che i particolari fossero
dilagati fra l'opinione pubblica, terrorizzata dalla peste: ma l'opinione
pubblica, cioè gli abitanti di Spigno toccati dalla peste, era già al corrente
delle voci che correvano sulle imputate, anzi, in parte ne era l’origine.
All'inizio
di settembre (la data è illeggibile nella lettera) d. Verruta invia a Savona,
al vicario generale del Vescovo un “ alligata che contiene la sostanza del
processo” (lett. 4) che non è però stata rinvenuta in archivio.
Supplica
inoltre il Vescovo di “risposta subito, perché siamo minacciati noi giudici
di nuova contagione, come pur segue a Roccaverano, Acqui et altri luoghi
circonvicini. Mons. d' Acqui è morto di contagio, e le cose passano malissimo.
Qui( ... ) succede qualche caso (di morte di peste) nelli filioli
maleficati dalle streghe che restano ancor di fuori dalle carceri. ( ... ) A
Piana le cose non ponno andar di peggio. ( ... ) A Turpino sono morti
quasi tutti di peste”.
Questa
lettera è assai importante per capire le motivazioni psicologiche che furono
alla base del processo: una popolazione terrorizzata stava morendo di peste, di
fronte alla quale la scienza non conosceva rimedio. L'unica speranza consisteva
nell'attribuirla ad una causa specifica che, una volta rimossa, avrebbe
determinato la fine del contagio. Ecco quindi l'incrollabile certezza che la
peste fosse causata dalle streghe: eliminate le streghe, eliminata la peste.
L'odio contro le streghe in periodi di
gravissimo pericolo rispondeva quindi ad una motivazione “validissima” (da un
punto di vista psicologico): quella di salvare la pelle. Ecco spiegata anche la
disperazione di d. Verruta (che della colpevolezza delle accusate – “queste maledette
bestie” - era convinto), ecco il perché della fretta con cui i magistrati laici
e l'autorità feudale cercavano di risolvere il problema con un veloce processo
che avrebbe calmato la disperazione dei sudditi prima che, come a Milano, essa
potesse coagularsi in atti di rivolta contro il feudatario ([75]) e con
una ancor più veloce esecuzione, fretta ben testimoniata dalla frase con cui d.
Verruta chiude la lettera: “risupplico V.S. Ill.ma risponder per queste
masche, poiché il sig. Marchese m'accelera nelle condanne, non prenderà la Corte
nostra”([76]).
Subito
dopo il ricevimento della lettera del Verruta con la “sostanza del processo”,
e comunque prima del 9 settembre, il Vescovo informa (lett. 5) il padre
inquisitore di Genova, il domenicano Pietro Martire Ricciareli ([77]). Nella
sua lettera il Vescovo, dopo aver ricordato le difficoltà logistiche causate
dalla peste che avevano impedito la sua presenza al processo (“sono istato
alla gagliarda, stante il danno comune, il tempo del contaggio, l'assistenza del
giudice secolare”), fa presente la volontà di quest'ultimo di “voler
venire a risoluzione rigorosa per interesse pubbico" e comunica all'inquisitore
di aver concesso al suo vicario “autorità assoluta acciochè la giurisdizione
Ecclesiastica non restasse indietro dalla risoluzione che facesse la secolare”:
ecco quindi un esplicito cenno alla necessità di dover far coesistere due
giustizie, entrambe desiderose di indipendenza ma contemporaneamente vincolate
a quanto l'opinione pubblica si aspettava che facessero.
Per
la “gravità delle causa”([78]) , il Vescovo
ricorda comunque di non “essersi risoluto dargli (al Vicario) altra
autorità che prima non resti questo negotio partecipato a V.S. Molto Reverenda
e con suo consenso scritto. Riguardo la documentazione relativa il Vescovo
pare accontentarsi di quanto gli ha rimesso il suo vicario foraneo: “Se il
processo è così ben formato come il sommario, dubito che sia necessario a
terrore et ad essempio e per compimento di giustizia provedervi rigorosamente.
Il farlo copiare per vederlo, il che saria più accertato, daria dilazione di
mesi oltre le spese e resteria di grave pregiudizio al publico”. di qui la
necessità di informare l'inquisitore “accioché la giustizia babbi il suo
luogo e la giurisdizione non ne sia tolta”
Ma
la fretta non piace all'inquisitore genovese, che su tutta la faccenda ha
evidentemente l'animo sgombro da pregiudizi e le idee chiare: “viste le
confessioni (delle streghe) è negotio assai grave - risponde
l'Inquisitore il 9 settembre (lett. 6) - del quale stimo necessario
darne pronto avviso alla Sacra Congregatione (del S. Officio)”. Nel
frattempo, però, il Vescovo deve “avvisare quel Signor marchese che
s'astenghi di tentar cos'alcuna contro di dette streghe, dovendo prima essere
conosciuta la loro causa dal Sant'Officio”. Ecco che si sta delineando lo
scontro tra le due magistrature, e il tono si fa risoluto e anche minaccioso: “perciò
avverti (il marchese) di non incorrere nelle censure”. Circa le
streghe appare evidente all'inquisitore che “il Vicario foraneo (d.
Verruta) ha avuto la preventione in tutto e per tutto”: ma se anche così
non fosse “lascerà che il Sant'Officio faccia prima la parte sua, che puoi
allora farà anch'esso la sua”.
Due
giorni dopo (lett. 7) il Vescovo informa direttamente la Congregazione del
Santo Uffizio a Roma su quanto stava succedendo “nella mia Diocesi di là dai
monti”, inviando nel contempo il “sommario della causa contro alcune
persone esistenti nella mia Diocesi” ([79]): la
minuta della lettera evidenzia, nelle numerose cancellature e riscritture che
presenta, il travaglio interiore e forse le incertezze del Vescovo di fronte
agli avvenimenti. In particolare in una prima stesura aveva scritto “causa
contro alcune streghe”, poi corretta in “donne”, poi in “persone”.
Sembra anche di avvertirsi un certo prendere le distanze da quanto già successo
specie là dove la lettera ricorda che tutto il processo è stato fatto “dal
mio Vicario Foraneo, a cui per la difficoltà del contaggio delegai la causa”:
forse il dubbio si agitava nell'animo del presule ([80]).
Dubbi
ed incertezze sono invece finora assenti in d. Verruta, che in prima fila
conduceva la sua battaglia lontano dal Vescovo e vicino al marchese (e alla
peste).
Il
29 settembre invia al suo Vescovo una ampia “informazione sommaria” (lett.
10) “acciò V.S. Ill.ma resti
informata di quello che va succedendo attorno alla causa delle streghe
portatrici di contagione”. È un documento assai interessante, un riassunto
di tutte le fasi processuali svoltesi sino a quella data, tanto più importante
in quanto gli atti del processo a noi giunti si interrompono, come notato in
precedenza, al 16 luglio.
Don
Verruta riassume la vicenda dall'inizio, ricordando come “ad istanza del
Procuratore Fiscale s'essaminarono sei testimoni quali per pubblica voce e fama
han risposto unanimi che Margarita Bracha sii masca et che Bianchina Suliana
pure, per non andare due volte l'anno alla messa”. Il Vicario ricorda poi
che venne interrogata Caterina Marenca di Merana (località tra Piana e
Spigno) “qual captivata dal giudice
secolare et posta in carceribus da esso essaminata nega, sostenendo due ore di
corda” ([81])
et altri tormenti nella negativa“: ecco la prima esplicita citazione
della tortura alla
quale le “streghe” furono, notiamo bene illegalmente ([82]),
sottoposte.
Caterina
resiste per due ore ([83]), poi “venne
nanti al Vicario et Delegato et confessa liberamente (!) essere masca”.
Il Verruta espone poi la descrizione fatta da Caterina relativa a come la stessa
fosse diventata strega: “essendo d'inverno senza pane et alimenti per li
figlioli chiamò (che) o Dio o il Diavolo l'aiutasse, quindi le comparve
il Diavolo vestito di verde, in forma di un bel giovane ([84]) che
le disse non dubitasse perché se avesse fatto a suo modo l'haveria provista di
tutto quello (di cui) avesse avuto bisogno”. Dalla “confessione”
appare intanto un elemento che caratterizza tutte le “streghe “ di Spigno: la
loro povertà.
La
dichiarazione di Caterina, ricordiamo rilasciata dopo due ore di tortura,
continua e la povera donna confessa che “dicendogli di sì essa (il Diavolo)
gli fece far la Santa Croce in terra e poi gliela fece conculcare (= calpestare)
et con la mano le fece atto di levar la Cresima sulla fronte et poi le fece
rinegar Dio, la Beata Vergine ([85]),
la Passion di Cristo et il Battesimo ( ... )(e le disse che) s'havesse
potuto pigliar il SS.mo Sacramento (facendo la Comunione) dall'altare
per calpestarlo l'havrebbe preso et non ingoiato, quod Deo non placuit”([86]):
appare qui un altro elemento tipico della stregoneria, quello legato ad una
religiosità “rovesciata” i cui riti sopravvivono ma, per così dire, capovolti ([87]).
Guazzo, Compendium maleficarum, 1626 |
Ma
la deposizione di Caterina va ben oltre: afferma che il Diavolo “si fece
adorar col farsi baciar il cullo et conobbe sodomitice carnalmente essa”.
Appare così il secondo elemento tipico ([88]) della
figura della strega: i suoi rapporti sessuali col demonio, visti anch'essi come
una sorta di doppio capovolto rispetto a quelli umani (“baciar il cullo”,
avere rapporti sodomitici).
E su
questo particolare aspetto Caterina insiste, coinvolgendo anche altre persone,
tra cui Bianchina Suliana, in compagnia delle quali Caterina era andata in una
certa località “col bastoneto (= evidentemente una variante della
scopa!) et dice il modo d'usarlo”, aveva poi “ballato col Diavolo”
ed infine erano state “da lui conosciute carnalmente”, sempre -
beninteso – “sodomitice
Bianchina
esaminata subito dopo, continua la lettera del Verruta, “confessa il modo
d'esser stata fatta et diventata strega, et esser da anni 16 circa, et essersi
data al Diavolo per libidine”.
A questo
punto l'esposizione dei fatti e delle deposizioni delle streghe quale leggiamo
nella lettera del Vicario diventa un allucinante spaccato del più ricco
condensato di tutto ciò che la fantasia, gli incubi e le allucinazioni popolari
attribuivano alle streghe.
Margherita
Braca dapprima resiste alla tortura, “essaminata si fa donna santa, ad ogni
modo nell'esame cascò due volte o tre in terra tramortita”. Poi “persistendo
in negativa si ordinò fossero rasate”: l'asportazione di capelli e peli da
ogni parte del corpo era una procedura tipica nei processi di
stregoneria ([89]).
Con questo metodo si intendeva sia eliminare eventuali protezioni magiche date
dal demonio alle sue vittime, sia mettere in risalto eventuali macchie o segni
sul corpo che diventavano automaticamente la prova dell'appertenenza di tale
corpo al demonio.
Lucia
Rodana “arrestata ad un'hora di notte et essaminata a mezzanotte”, (e
mettiamoci un poco nei panni di queste povere donne di campagna, strappate alle
loro case e interrogate - tortura a parte - nel cuore della notte, al lume
delle torce, in antri semibui da “signori” per loro onnipotentiche le sanno già
colpevoli e le vogliono morte), con la sua ”confessione” aumenta notevolmente
il numero degli incriminati, coinvolgendo, oltre a Caterina Marenca, Bianchina
Suliana e Margherita Bracha, già arrestate, la figlia di quest'ultima
Margarina, Lucia Peirana, Zanina Suliana, figlia di Bianchina, Marieta Colomba,
Bianchina, figlia di Caterina Marenca, e Bartolomeo Perletto: siamo già
arrivati a 9 streghe!
Lucia
Rodana dice che in loro compagnia era andata “a commetter molti malefici” e a “
ballare sotto un noce sanando un tamburino a mezzanotte indi furono
conosciute dal diavolo sodomitice” : a parte il classico elemento del ballo
notturno sotto il noce, per il resto si tratta di particolari che i giudici
avevano già sentito e che erano quanto un inquisitore dell’epoca si aspettava
secondo la tipica casistica dei comportamenti stregoneschi ([90]).
Ma ad un certo punto Lucia rivela anche quello
che tutti cercavano: lei era “stata presente, in compagnia delle suddette, a
portar la contagione a Spigno nel mese di ottobre, et mostra le case unte di
contagio”. Ecco che finalmente appare il vero motivo d'essere del processo,
quello che tramutò all'improvviso persone la cui stranezza o diversità o
attività di guaritrici era nota a tutti e sopportata, quando non addirittura
ricercata, negli anni normali, in mostri da eliminare: erano untori,
propagavano la peste, che in quei mesi stava facendo strage nel paese,
minacciava ogni persona, marchese, giudici e vicario compreso. E di fronte a
questa confessione (superfluo ricordare come raggiunta), il particolare per cui
Lucia “era andata a concitar (= provocare) la tempesta due volte et
insegna il modo” passa in secondo piano.
Dopo
tale confessione ”il Podestà fa incarcerare le suddette tutte nominate”.
La
relazione di d. Verruta continua ricordando che “si stilla Margarina figlia
di Margarita” (Bracha) ([91]): in
ogni caso anch'essa confessa di essere diventata strega “per aver invocato
il Diavolo” e di aver commesso alcuni malefici. Anche Lucia Peìrana
dichiara di essere strega da tre anni, da quando “havendo chiamato il
diavolo come disperata le comparve vestito di verde (anche a lei!) in forma di un bel
giovane” e di essere andata “in compagnia delle sudette e di Marieta
Barbera e Giacomo Aurame a portar la contagione a Spigno”: dichiara inoltre
di detenere “una pignatta di untagio (= pentola con unguento per
propagare la peste) quale ritrovata è stata abbruciata nella piazza
del castello”. Possiamo immaginare quale impatto psicologico abbia potuto
avere sulla popolazione terrorizzata e falcidiata dal contagio questa
operazione effettuata nella piazza principale del paese sconvolto dalla peste,
e come tutto ciò potesse disporre la gente nei confronti sia di chi - a questo
punto evidentemente - era accusato (anzi, si autoaccusava) di provocare tale
contagio e ne faceva vedere lo strumento, sia di chi avesse eventualmente
tentato di salvarle, cioè di non condannarle.
Dalla
deposizione di questa imputata, come dalla precedente, si può notare come il
processo si alimentasse in pratica da sè stesso: spontaneamente, ma più spesso
impaurite o sottoposte a tortura, le imputate confessano o inventano dei
complici, i quali a loro volta trascinano davanti ai giudici altri infelici.
I
giudici passano poi ad interrogare la figlia di Marieta Barbera, Zanina “che
va con le crozze” (= stampelle? ) ([92]), la
quale in un primo momento “dice di essere donna da ben” ma poi “confessa
esser strega et esserlo diventato per carnalità”: e ancora una volta la
fobia sessuale (non importa se
degli
inquisitori locali, di quelli che nel corso dei secoli hanno preparato i vari
formulari di domande che i giudici rivolgevano programmaticamente alle “streghe”
o delle imputate stesse) fa la sua comparsa in questo processo.
Lucia
Peirana aveva fatto il nome di Giacomo Aurame come stregone, e costui “liberamente
costituito nelle nostre forze”
depone “di esser masco” e di “esser andato a portar la contagione a Spigno
tre volte”. Confessa inoltre di esser andato “ad concitandas grandines”,
a suscitare grandinate.
Di
quest'ultima malefatta rivela anche il modo: “essendo chiamato dal Diavolo,
andò sopra un monte, dove erano tutte le sudette (streghe) e fatto un
fossetta ivi tutte orinarono, come anche il Diavolo, indi mescolando quell'orina
il Diavolo vi mise un poco di polvere, et levandosi in alto fumo si fanno
nuvole, da dove dicono al diavolo: metti giù, metti giù”.
Marieta Barbera, madre di Zanina “esaminata
depone di esser strega liberamente da quatr'anni et di essersi data al diavolo
per libidine, et confessa molti malefici in compagnia delle medesime e di
Bartolomeo Perletto, et di esser venuta a Spigno a portar la contagiane et
mostra le case che hanno
onto,
chi tiene l'onto sì per il bastoneto come di contaggio”: e ancora una volta
nel giudicare quanto allora avvenne noi non possiamo fingere di ignorare quale
avrebbe potuto essere la reazione di un giudice (o di una qualsiasi persona) di
allora di fronte ad una donna che parlava di unguenti per far volare una scopa
o per diffondere il contagio, tanto più che dallo scritto di d. Verruta parrebbe
potersi capire che sia l' Avramo che Marieta abbiano parlato liberamente, cioè
senza essere sottoposti a tortura ([93]) .
Gli
imputati successivi, invece, confessano solo dopo le insistenze (di che tipo
non è detto esplicitamente, ma è facile da indovinare) dei giudici.
Zanina Suliana “si fa santa, finalmente sostenendola
le altre in faccia, ( ... ) confessa esser strega, data al diavolo per libidine”:
le sue colpe non sono però terribili, avendo fatto solo “alcuni balli
notturni in compagnia del Diavolo”; Margarita Bracha, che nel primo
interrogatorio non aveva confessato, “si fa casta, alla fine confessa esser
strega da 11 anni in qua ( ... ), resiste però, così vien convinta (!)et
dicono tutte (le altre) haver un pignattino di contagio ([94])
consignatoli dal Diavolo in loro presenza”; Maria Scaiola “donna di rilievo, protesta dell'infamia e
poi confessa da due anni esser masca ( ... ) nel resto non se le può parlare,
non accorgendosi ingannata dal Diavolo che fu origine della contagiane di
Spigno et fu quella che invita le altre a tanto fare, come le vien sostenuto
in faccia dalle altre"·
È
questa forse la fase più penosamente drammatica dell'intera vicenda, quella in
cui delle povere donne, piegate dalla tortura, sì accaniscono nel trascinare
nella loro rovina altre infelici come loro “sostenendole in faccia etc.”:
antichi rancori, invidie, rivalità e liti da cortile, o forse solo la paura
(pensiamo a Lucia Rodana, interrogata in una tetra cantina a mezzanotte) e la
sofferenza fisica, diventano la molla che trascina altri in una spirale
infernale.
L'ultimo
personaggio citato dal Verruta nella sua relazione è quel Bartolomeo Perletto
detto Caramello il cui nome è spesso apparso in precedenza: in un primo momento
“si sostiene (come) huomo da bene”, poi però “da tutte le
altre le vien sostenuto in faccia esser masco et esser andato con
loro a sonare di notte”. Pertanto anche Caramello “si risolve, et confessa
esser uno stregone da 20 anni in qua”: lui almeno non si è dato al diavolo
per libidine! Oltre a diversi malefici, Caramello dice di esser stato presente
al momento della preparazione dell'unguento necessario a diffondere il
contagio: alla sua realizzazione, in quel di Cagna ([95])
avrebbero partecipato “in numero di 300 persone”: un vero,
affollatissimo sabba infernale! E dell'unguento Caramello ci fornisce anche la ricetta,
per la quale erano necessari - ovviamente – “serpi velenose, bisce, babbi,
scelestri, laioli (= rospi, ramarri e ·salamandre) et simili animali ([96]) con
erbe posteci dentro dal Diavolo”: come si vede, tutti ingredienti classici.
Di tale unguento è stata “distribuita una pignata a Maria Scaiolà, una a
Bianchiana Suliana, a Margarita Bracha, a Catherina Marenca et ad altre”: e
con questa precisazione Caramello ha restituito la cortesia alle sue
accusatrici!
Don
Verruta ricorda poi che “tutte queste cose (gli imputati) hanno sostenuto
ogni dì nella ripetizione ([97]) e
nella tortura ordinata dal signor Podestà” ([98]), e ci
illumina sulle intenzioni dcl locale marchese Asinari Del Carretto, che
desidera “farle (al processo o alle streghe?) dar fine per
incominciar indi altro processo contro le captivande” e che “per sradicar
simili bestie intende far' presto”. Ma soprattutto d. Verruta supplica di
aver presto istruzioni perché “tardandosi di più siamo minaciati di nuova
contagiane da loro, avendone composta nuovamente alla Roch’ovrano”: povero
d. Verruta, terrorizzato dalla paura di prendersi la peste per colpa delle
streghe, tanto più avendo saputo (e come?) che nuovo unguento per il contagio era
stato certissimamente preparato (ricordate il Manzoni?) a Roccaverano, a pochi
chilometri da Spigno.
Le
ultime righe della relazione hanno il cupo rimbombo di una epigrafe funebre: “Tutte
le incarcerate, che sono 14 ([99]),
hanno confessato, fuor d'una convi(n)ta da complici nei delitti, che
per opera del Diavolo nega tuttavia”: se uno confessava era
evidentemente colpevole, se non confessava lo era maggiormente, perché poteva
resistere alla tortura solo con l'aiuto del Diavolo.
La
risposta del Vescovo tramite il suo cancelliere, non si fa attendere ed è
perentoria (lett. 11 del 3 ottobre): constatato che “dal
Tribunale Secolare (ci) si affretta in dover innovare ed eseguire contro
le incolpate per streghe” (notate bene, “incolpate”, non “streghe”),
si intima a d. Verruta di “non innovare nè permetta che si innovi cosa
alcuna in far essecutione contro dette incolpate sino all'ordine et aviso della
Sacra Congregatione”.
Il
povero d . Verruta si trova così tra l'incudine del “Signor Marchese che mi
sta giornalmente alla vita” e le precise disposizioni del Vescovo che evidentemente
suscitano in lui stupore: “Nelli luoghi circonvicini ([100]) - scrive
al Vescovo il 20 ottobre (lett. 12) - si è venuti all'essecutione
contro simili bestie, il che fa stupir (che) qui si usi tanta difficoltà
( ... ) tanto più che minacciano per la vita li primati del luogo, et se ne
vede l'effetto “.
Evidentemente la peste continua a colpire e la
gente ha paura: comunque d. Verruta ubbidisce, assicurando che “non
permetterò, per parte mia et per quanto potrò, (che) si innovi altro”.
Ma è solo, contro la paura sua e, più ancora, altrui, e teme di non poter
resistere: “temo - fa presente nella lettera - che andando più alla
lunga si faranno dal (Tribunale) Secolare altre resolutioni, nè ci posso
competere, perché mi trovo qui solo abbandonato".
E
questa situazione di solitudine di un povero prete, bloccato dalla peste
lontano dal suo Vescovo in lotta di fronte a un potere ben deciso, forse più
per paura e calcolo che per convinzione, ad andare fino in fondo per eliminare
quelle che la gente vedeva come causa della peste, isolato davanti ad
un'opinione pubblica spaventata ed ostile, in un piccolo feudo in cui il
marchese rappresentava il potere assoluto e inappellabile, mentre - fra l'altro
- correvano voci di guerra contro Genova, e quindi contro Savona, sede
episcopale, deve essere da noi tenuta presente
prima di emettere sbrigative sentenze ([101]).
Il
giorno dopo, nuova lettera al Vescovo ( lett. 13 ): e queste lettere che
si rincorrono l'una dopo l'altra ben dimostrano l'ansia di d. Verruta, vaso di
coccio tra vasi di ferro: “Dio per sua misericordia ci aggiuti e diffondi da
queste streghe, quali di continuo vanno minacciando chi le cerca et vole male.
( ... )Mostrai al Signor Marchese la lettera perché non si innovasse cosa alcuna
circa le essecuzioni , né sì qui hanno havuto la sentenza, se ben s'aspetta
di giorno in giorno et il Signor Marchese vorria levarsi di briga,
tuttavia si starà. ( ... ) Il Podestà è quello che va solicitando, et
informa male il Procuratore Secolare”.
La
documentazione in nostro possesso presenta a questo punto una lacuna: mancano
documenti che ci permettano di capire cosa sia successo fra il 21 ottobre (
quando a Spigno si aspettava la sentenza di giorno in giorno..) e il 31 gennaio
dell'anno successivo. Una lacuna per certi spetti misteriosa, forse
inquietante. Dai documenti residui sappiamo che ci fu uno scambio di
corrispondenza anche in quel periodo, ma questa parte del carteggio non è
giunta fino a noi (o – quantomeno - non è stata da noi rintracciata).
Non
sappiamo se si tratti di una lacuna casuale, magari dovuta all'approssimarsi dell'inverno, che rendeva più difficili le comunicazioni, o se si sia steso ( dove? A Savona
o a Spigno?) un velo di silenzio su quanto forse stava succedendo.
Il
31 gennaio 1632, finalmente la risposta del S. Officio al Vescovo savonese.
È
una lettera illuminante (lett.14), che fa anche giustizia di condanne forse
un poco approssimative pronunziate contro
questo organismo che invece, in questa circostanza, si dimostra più tollerante,
e rispettoso della procedura rispetto alla giustizia laica.
La
Congregazione del S. Officio, per mano del cardinale di S. Onofrio, fa infatti
presente al Vescovo savonese che la documentazione inviatagli “circa le
pretese streghe” (“pretese streghe”, non “streghe”) è oltremodo difettosa e “dinota che il
processo contenghi una moltitudine di nullità non solo perché sono state
esaminate confusamente, ma ancora perché non consta del corpo di delitto alcuno
([102])
e non di meno alcune di loro sono state tormentate eccessivamente per due ore e
più di horologio “. Tutto da rifare, dunque: il Vescovo dovrà sottrarre le
inquisite alla giustizia secolare facendole venire “o costì o in qualche
luogo vicino a lei”, essendo necessario che “si sentano fuor dal luogo
dove sono state gravate” (=incolpate), lontano cioè da una folla
terrorizzata che le voleva morte: nella nuova sede saranno sentite “senza
suggerirle cosa alcuna ([103]),
ma solo interrogarle se sappiano la causa della loro carcerazione”.
Nel
frattempo il Vescovo avrebbe dovuto ordinare che “colà (a Spigno) non
si proceda a carcerare altre”. La lettera termina poi con una frase che ben
chiarisce l'opinione della Congregazione del Santo Officio sull'argomento: “In
fine della causa ella vedrà che non vi sarà fondamento, come si può credere dal
sommario” (inviato a Roma). ([104])
Analoghe
disposizioni sono trasmesse il 12 febbraio (lett. 16) al Vescovo savonese dal
padre inquisitore genovese Pietro Martire Ricciareli, che avvisa inoltre il Vescovo
della sua volontà di assistere personalmente al processo quando le donne “saranno
ridotte in luogo ove passino essere riesaminate”. Nel frattempo il Vescovo
deve “avvisare questo marchese che non eseguisca cosa alcuna se prima il S.
Ufficio non ha fatto la parte sua acciò non incorresse nelle censure come fece
già un commissario di Triora” ([105]): come
si vede, conosciuto l'orientamento del Santo Officio, il tono si fa deciso e
perentorio. Strano però il ritardo fra la comunicazione del S.Uffizio al Vescovo
(31 gennaio) e l’analoga del P. Inquisitore (12 febbraio)
Il
17 febbraio ( doc. 17) il Vescovo trasmette al suo vicario, d. Verruta,
le disposizioni ricevute: “sarà contento di intimare al sig. Podestà e altri
a quali li spetta che in modo alcuno non facciano sentenza né essecutione
contro quelle donne o huomini, imputati o vero processati costì, li quali
pretendevano esser incorsi in materia di sortilegi o streghe, ( ... ) e ciò
sotto le pene e censure de' Sacri Canoni”.
La
lettera non lasciava spazio a possibilità di interpretazioni personali o
esitazione alcuna: ma fra la comunicazione del S. Uffizio al Vescovo in cui si
intimava di trasferire le carcerate e la trasmissione da parte di quest’ultimo
dell’ordine di non far sentenza erano
però passati 17 giorni.
Un
ritardo forse fatale.
Il
il 21 febbraio (lett. 18) d. Verruta “archipresbiter ecclesiae
parrochialis S. Ambrosii Spignì et Vicarius Foraneus citra iugum” intima,
sotto l'usbergo di una elegante prosa latina, al Procuratore “et aliis quibuscumque
spectat” che “ne quoquo modo sententiam faciant nec exequant in materia
sortilegii aut maleficiorum” . Per maggior sicurezza spedisce al Vescovo
l'attestazione, firmata da un notaio, dell' avvenuta consegna della intimazione
nelle mani del “M. Magnifico d. Hieronimo Bocciello, Procuratori Spigni,
personaliter reperto”.
A questo punto la situazione è chiara e non
sono più possibili ambiguità. Da una parte il potere laico, rappresentato dal
marchese Asinari Del Carretto, che aveva iniziato il processo e voleva
concluderlo con rigore: a questo potere la Chiesa aveva intimato di fermarsi e
di cederle il passo; dall'altra l'autorità religiosa, che voleva avocarlo a sé
e che non credeva alla correttezza delle procedure, alla serenità
dell'ambiente, alla imparzialità dei giudici e, in fondo, alla colpevolezza
degli imputati.
Siamo
al braccio di ferro: il marchese avrebbe consegnato le imputate alla Chiesa
riconoscendo quindi un limite al suo “mero e misto imperio con facoltà di
spada” e perdendo - forse - la faccia di fronte ai suoi sudditi, o avrebbe
disubbidito, sfidando le censure dei Sacri Canoni?
Ma
siamo nel '600, l'epoca del sorriso che copre l'astio, dal guanto che cela il
pugnale: è ragionevolmente difficile pensare ad uno scontro diretto.
Passa
una settimana.
Il
29 febbraio il Vescovo di Savona riceve da Spigno una lettera (lett. 19)
“del suo servitore affezionatissimo”il marchese Alfonso Asinari Del Carretto,
il figlio del padrone di Spigno ([106]): saluti,
convenevoli, dichiarazioni di stima, espressioni di desiderio “di compiacere
a V.S. Illustrissima” nonchè l'assicurazione di ”ricever con particolar
gusto li suoi comandi”.
Infine
una piccola postilla riguardante quella noiosa seccatura rappresentata dalle
streghe: “Mi spiace, scrive il giovane marchese-figlio (immaginiamo con
un ineffabile sorrisino), che per esempio e per timore all'avvenire - in
poche parole per dare una lezione - non sii potuto eseguire qualche rigore
apparente, giacché per la longhezza et dilatatione (del processo) sono tutte
morte et con haver finito avanti hieri di passar la barca di Caronte ci hanno
levato a tutti questo impaccio come detto Signor Arciprete le havrà
avisato” ([107]):
niente pubblica giustizia, quindi, nè processo avocato altrove, perché le
streghe sono tutte morte!
È
uno spaccato del '600 di eccezionale chiarezza, che tanto ricorda il manzoniano
incontro tra il Conte Zio e il Padre Provinciale. Sì avverte forse rammarico
nella lettera, perché l'intimazione del Vescovo ha tolto al marchese, con la
possibilità di un bel rogo multiplo sulla piazza del castello, anche la
possibilità dì far sfoggio della propria autorità, rammarico addolcito però
dalla soddisfazione derivante dalla velata manifestazione del proprio potere
che è comunque ugualmente emerso: niente trasferimento del processo, niente
scarcerazione delle streghe, perché, poverine, sono tutte morte. E fra i
sudditi del marchese in Spigno probabilmente nessuno ignorava come o, forse,
per ordine di chi.
Tutto
questo in una cortesissima lettera di poche righe, che termina con un
affettuosissimo “bacio mille volte le mani e così fa mia madre"·
Da parte di Don Verruta nessuna comunicazione
dell’accaduto al Vescovo.
E il
Vescovo?
Due
giorni dopo scrive (lett. 20) al padre inquisitore di Genova
comunicandogli che malgrado l' “inibizione al Signor Marchese fosse fatta in
tempo, che due erano ancor vive ([108]) “ho
ricevuto avviso che tutte sono morte, che tronca a noi l'occasione di
cercar di più ( ... ). Perciò io non ho occasione di replicar altro, mentre la
morte il tutto scioglie” . E forse c’è un respiro di sollievo
4.4.
La fine.
E il
processo di Spigno?
Eravamo
rimasti alla comunicazione circa l'avvenuto decesso delle “streghe” mandata dal
Vescovo all'inquisitore di Genova, decesso che “a noi tronca l'occasione di
cercar più oltre”.
Potremmo
terminare a questo punto l'esposizione di questo antico, drammatico fatto: ma
la vita continuava anche dopo la morte di 14 donne, d. Verruta continuava a
scrivere al Vescovo e può essere interessante andare a vedere come le tracce di
questi fatti svanissero poco per volta.
L'11
marzo (lett. 21) d. Verruta mette al corrente il Vescovo su tanti piccoli
avvenimenti e particolari che riguardavano i beni della mensa vescovile a
Spigno. Poi una piccola osservazione: “Non manco di avvisare com il signor
Podestà piglia denari dalli beni delle streghe morte, et una incolpata ch'era in carcere ([109]) l'hanno
lasciata andar a far i fatti suoi”. Sembra quasi di avvertire una nota di
stupore in quel “hanno lasciato andare un'incolpata”, come se le
granitiche certezze di d. Verruta non fossero neppure state scalfite da quanto
era successo.
La
lettera successiva, del 5 aprile, (lett. 22), è ancora più esplicita.
Dopo aver ricordato che il podestà si
stava accordando “circa le streghe morte, ( ... ) con chi in 40 scuti, con
chi in 50, con chi in 60 o più o meno” ([110]) 109,
d. Verruta si lamenta perché “abbiamo noi perduto il tempo di tutta l'estate”.
Circa la donna incarcerata e poi lasciata libera di “andar a fare li fatti suoi”, d. Venuta ci tiene a precisare che
“quando mi sono opposto, li messi della chiesa sono andati in prigione sotto
pretesti indiretti”: non riusciamo a capire se si sia opposto in quanto la
ritenesse colpevole o per obbedire alle disposizioni avute, secondo le quali le
incolpate dovevano essere condotte a Savona.
Il
23 aprile nuova supplica (lett. 23) di d. Verruta, che evidentemente non
sapeva quale comportamento tenere riguardo alle persone morte in carcere: far
finta di niente o cercare di appurare le circostanze?: “Supplico V.S. Ill.ma per
quanto posso a darmi nuovo avviso come havrò a governarmi con questo podestà
per le streghe morte, (streghe: le granitiche ceertezze di d. Veruta non
sono state smosse!) temendo assai che i Signori mi faranno qualche burla, et
sono sicuro sarà perseguitato io o mia casa, conoscendo l'umor loro: che però
la risupplico si sii possibile trovar strada per la quale io puossi caminar con
soddisfazione di tutti”. Evidentemente d. Verruta temeva che la morte,
misteriosa e poco chiara, delle donne in carcere potesse provocare qualche
scontro tra la Chiesa (lontana) e il potere feudale (vicino), nel quale lui,
piccolo prete di un paese di campagna, sarebbe stato coinvolto e prima vittima.
La
morte delle donne incarcerate fu vista dalla autorità ecclesiastiche centrali
per quello che forse era, cioè una dimostrazione del potere del marchese e
conseguente sfida all'autorità del Vescovo?
Non
abbiamo elementi per esprimere un giudizio certo: quanto meno si ricava
l'impressione che a Roma non si avessero molti dubbi sulla non casualità di
tali morti. Restava il problema di quale atteggiamento scegliere: far finta di
niente accettando per buona l'accidentalità dei decessi o pretendere spiegazioni?
O ancora scegliere una via intermedia?
Il 3
maggio del 1632 l'inquisitore di Genova scrive al Vescovo savonese (lett.
24) per avere informazioni, su mandato della Sacra Congregazione dcl Santo
Officio, circa quelle “streghe che sono state fatte morire a Spigno dagli
officiali del signor Marchese di detto luogo”.
Nessun
dubbio, quindi, sull'origine dei decessi e sugli esecutori, con al massimo
incertezza sul mandante e, al più l'offerta di un alibi: la morte provocata
dagli uomini del marchese magari non obbedendo ad un ordine preciso ma, diciamo
così, per eccesso di zelo. Senonchè la lettera è ancora più sottilmente
esplicita nella sua apparente neutralità: il padre inquisitore chiede infatti
al Vescovo di informarsi se dette streghe “fatte morire dagli officiali del
Signor Marchese” sono “morte da se stesse naturalmente o vero di morte
violenta, per ordine dei sudetti officiali, e se tutte, o parte di esse sono
state fatte morire innanzi, o doppo l'inhibitione fatta al Podestà”.
Il
10 maggio il Vescovo trasmette a d. Verruta (lett. 25) la richiesta di informazioni,
usando le stesse parole, per cui il suo Vicario dovrebbe appurare se “le streghe che sono state morire a Spigno
dagli officiali del Signor Marchese ( ... ) sono morte da se stesse
naturalmente, o vero di morte violenta, et per ordine di chi, e se sono state
fatte morire inanti l' inhibitione etc”.
Questa
altalena fra morti fatti morire dagli ufficiali del signor marchese oppure
morti da se stessi naturalmente o di morte violenta non è per nulla né
contradditoria né sconclusionata. In pratica il discorso delle autorità ecclesiastiche
al marchese era, se abbiamo ben capito, pressapoco così: intuiamo benissimo
come possono essere andate le cose, tu sai che noi lo immaginiamo, puoi dire
che si sono suicidate o che sono morte di morte naturale, ma per noi sono state
fatte morire e, volendo, potremmo andare avanti nella faccenda.
Siamo
nel '600: l'importante non è essere, ma sembrare.
Immaginiamo il nostro povero d. Verruta
dinnanzi a tale nuovo incarico, così imbarazzante e anche pericoloso, tanto più
che nella lettera si chiedeva anche la trasmissione di copia autentica del
processo, dando l'impressione che l'Inquisizione volesse vederci chiaro: e ciò
poteva significare grossi fastidi per il marchese o i suoi officiali, e quindi
pericoli per il vicario del Vescovo.
A
questo punto la burocrazia feudale, che fino a quel momento aveva funzionato perfettamente,
incomincia a diventare vischiosa, reticente e a mettere innanzi impreviste ed improvvise
difficoltà: vediamo infatti che d. Verruta scrive al Vescovo il 20 giugno,
(lett. 26), che in luogo della copia autentica si sarebbe mandato “un
sommario amplissimo per essere il processo lunghissimo et di copiarlo il Notaro
ricusa pretendendo la mercede prima”. Più avanti anche avere simile
sommario si rivela difficile “et non sarà poco aver simile sommario stante
che ogni giorno li somno alla vita e pure non mi sentono ( ... ) “.
Resta
da dire che in archivio, a Savona, non c'è traccia (o almeno non abbiamo
trovato) né di copia autentica completa
né di sommario.
Cala
così il sipario sul processo di Spigno, un processo che, nel suo svolgimento,
conferma alcune acquisizioni della recente ricerca storiografica relativa alla
stregoneria e alla sua repressione nell'Europa del Seicento ([111]).
In
particolare, anche dalla vicenda di Spigno emerge come la gestione del fenomeno
“stregoneria” rispecchiasse conflitti fra potere laico e potere religioso, fra
tribunali civili e Sant'Uffizio, con quest'ultimo non di rado –ma nel '600 avanzato
- più garantista e più propenso a credere all'innocenza delle streghe di quanto
non lo fossero i giudici laici.
Non
sappiamo se la morte in carcere delle “streghe” abbia creato dei problemi al
marchese Marc' Antonio Asinari, che del resto morì di lì a poco. A lui successe
il figlio Federico cui l'imperatore Ferdinando II nel 1636 concede ampia
conferma del feudo di Spigno, salvo poi proscriverla “per eccessi e violenze”
mentre i suoi feudi saranno “devoluti alla Camera ducale di Milano” ([112]) : se
al siluramento del marchese abbia contribuito la storia del processo non ci è
noto.
Comunque
nel paese la vicenda delle povere “ streghe di Spigno” venne dimenticata, e noi
riteniamo abbastanza in fretta.
Si
ha l'impressione che, passata la peste e la tempesta di cieco terrore che essa
produsse, tutto il villaggio abbia voluto cancellare quel processo che il paese
stesso, o una sua parte, aveva forse richiesto.
Fu
rimosso così bene dalla memoria e dalle coscienze che perfino il ricordo di
tale fatto svanì nella memoria collettiva del paese tanto da non trovare spazio
alcuno né nelle pagine degli storici e dei cultori di storia patria che delle
vicende di Spigno, e di quella zona più in generale, si occuparono né nei
ricordi della popolazione.
Ed
oggi, a Spigno, ben pochi su questa vicenda sanno qualcosa. ([113])
Margherita
e Margarina Bracha, Bianchina e
Gioannina Suliana, Bartolomeo Perletto, Lucia Peirana, Lucia Rodana, Marietta e
Gioannina Colomba, Giacomo Aurame, Maria Scaiola, Marietta e Gioannina Barbera,
Caterina e Bianchina Marencha non sono mai morte.
Forse
non sono neppure esistite ([114])
(Pubblicato nel 1996 nel vol. XCIII ( primo e secondo semestre) del Bollettino Storico Bibliografico Subalpino (Deputazione Subalpina di Storia Patria, Torino, Palazzo Carignano,)
(Pubblicato nel 1996 nel vol. XCIII ( primo e secondo semestre) del Bollettino Storico Bibliografico Subalpino (Deputazione Subalpina di Storia Patria, Torino, Palazzo Carignano,)
LEONELLO OLIVERI
Osservazioni (marzo 2017)
Si è detto
all’inizio che questo processo ( il cui studio risale alla fine degli anni ‘80
e la pubblicazione da parte del sottoscritto al 1996) presenta la
caratteristica di avere due tipi di documentazione: non solo quella ufficiale,
data dagli atti, ma anche quella dei retroscena, data dalla corrispondenza
intercorsa tra le varie autorità interessate.
Al riguardo si
possono fare alcune osservazioni:
1 ) la documentazione “ufficiale” (gli “acta criminalia”, doc.
1 e succ.vi) copre solo il periodo dal 9 al 18 luglio 1631, comprende
l’escussione dei testi e nel complesso riguarda solo l’interrogatorio di una strega, Margherita Bracha (una su
14);
2) tutte le altre informazioni derivano, in pratica, dalle lettere di
d. Verruta: ovvero dalle informazioni che don Verruta voleva trasmettere;
3) esiste una lacuna nella documentazione dal 21 ottobre 1631 al 31
gennaio 1632: cosa è successo in quei tre mesi? Tutto fermo per l’inverno?
4) Il 3 febbraio 1632 d. Verruta invia al Vescovo la copia
dell’”esposizione concernente il negotio delle streghe” ricevuta dal Procuratore Fiscale
Secolare, copia che non è stata rinvenuta in archivio, a meno che non sia
rappresentata dagli “acta criminalia”, comunque incompleti.
5) Il 2 marzo 1632 il Vescovo comunica al’Inquisitore che
l’ordine al Marchese di non procedere era stato inviato (il 21 febbraio)
”in tempo che due (streghe) erano ancora vive”: quando il
Vescovo aveva saputo ciò, e di conseguenza quando era stato informato della
morte delle altre?
Come si vede,
in realtà malgrado la varietà della documentazione rimasta, su questo processo
non sappiamo ancora (e forse non sapremo mai) tutto.
![]() |
I luoghi delle "streghe" |
SONO ANCORA TRA NOI (
Ma non sono streghe)
“il
magnifico Podestà per quanto dite cammina a buon fine per estirpar simili
radici,”scriveva in quel lontano 1631 il cancelliere del Vescovo a d.
Verruta, ma “simili radici” non furono, ( e io ritengo fortunatamente),
estirpate.
Chi
erano quelle “streghe”? Chi era Margherita Braca che guariva il dolor di
denti, degli occhi, i vermi, il male del masclun, il male della giazza?
Non certo una strega, piuttosto una “guaritrice” per i poveri che non potevano
permettersi un medico (che forse non era molto più preparato). Una guaritrice
che univa una secolare, millenaria conoscenza delle proprietà delle erbe a
preghiere e formule magiche, in cui forse credeva e che comunque “facevano
atmosfera”. Personaggi così, finché le cose andavano bene, erano
indispensabili: quando andavano male, potevano diventare, come nel caso di
Spigno, accessibili capri espiatori.
Non
furono estirpate queste guaritrici, e rimasero fino ai nostri giorni nei piccoli villaggi di campagna delle Langhe.
Ne
abbiamo un esempio in un bellissimo (a mio giudizio) libro sulla vita nelle Langhe
(quelle povere, non quelle del vino e dei tartufi): si tratta de La
Cauzagna, della cairese Rosilde
Rodino Chiarlone (1920-: un partecipato romanzo ( siamo alla fine degli anni
’60, pubblicato nel 1975) che è anche un reportage fedele della vita chiusa,
stentata ma anche solidale (nei limiti lasciati dalla dura necessità della
sopravvivenza) di un piccolo, reale, villaggio di contadini che devono
combattere ogni giorno con la miseria sempre incombente, spaccandosi la schiena su una terra dura e
avara, in un orizzonte chiuso e privo di prospettive.
In
questo villaggio (Cobarello, “un pugno di case arroccate sulle cime tufacee
di una langa poverissima che si affaccia sulla sottostante valle Bormida di
Piana Crixia”) viveva –siamo negli anni fra la I e la II Guerra Mondiale- una di questa guaritrici,
Gigia.
Ecco,
come l’autrice la ricorda:
GIGIA
Gigia
era lei a scovare i bambini e metterli fra le braccia delle mamme già belli e
fasciati da cima a fondo; e oltre a procurane agli altri aveva pensato anche
abbondantemente per sé; Gigia di figli ne
aveva avuto una quindicina (..) quelli che in tenera età se ne erano
andati per sempre (..) raccontavano che Gigia
fosse solita benedire quando varcavano la soglia della casa nella
sottile bara di legno dicendo: “Va creatura innocente con gli angeli del
paradiso: ti ho già fatto il corredo, la dote
e le nozze”..
(…)La
vecchia aveva molta familiarità col diavolo. Non passava una settimana che non
lo dovesse incontrare a tu per tu; conosceva il suo linguaggio, gli parlava ora
alle buone, ora alle cattive per farlo allontanare dalle persone o dalle cose.
E quando quello insisteva Gigia tornava all’attacco, tre volte e se non bastava
cinque, sette volte, sempre dispari, poi quando decideva di andarsene bruciava
erbe aromatiche per disperdere l’odore di zolfo e tutto era fatto
(…)Anche
i mali del corpo Gigia curava; molti li allontanava con le erbe, altri con riti
strani fatti di parole e di segni di cui lei sola conosceva il mistero e che noi
chiamavamo “magie”
Stavo
male e mia madre mi portò da Gigia La trovammo seduta sullo scalino della
porta che sonnecchiava con la pipa in
bocca:
“E’
la bambina, vorrei farle segnare i vermi”. Gigia senza alzarsi mi prese per un
braccio e mi disse di respirarle profondamente nelle narici. “gli occhi e il
fiato non sono da vermi”. Mi palpò bene il ventre con le sue mani ad uncino:”E’
gonfia come un tamburo: infiammazione della vescica”. Prese una zucca, la fece
a fette sottili e stese quelle sulla superficie del mio ventre, poi coprì il
tutto con un asciugamano di canapa (..) Ritornai da Gigia il giorno dopo ed un altro ancora perché
fossero tre le volte che Gigia interveniva. Guarii
(…)
Un’altra volta avevo un febbrone da cavallo. Mi portarono da Gigia, fu lei a
“segnarmi “ con la sua mano ad artiglio, leggera come quella di una fata, sulla
fronte e sul ventre, spalmandomi
unguenti misteriosi che ora spandevano olezzo di rosa, ora fetore di carogna.
Poi
anche il medico e le medicine ed un susseguirsi
di scene disperate, di singhiozzi soffocati intorno a me, sempre gonfia
come un pupazzo di gomma.
Gigia
ordinò la cicuta, tutte le donne della borgata andarono a cercarla, Gigia la
pestò, la portò ai piedi del mio letto e ordinò a mia madre di levarmi tutto di
dosso: il mio gonfiore diffuso per tutto il corpo impressionò le donne che
stavano introno al letto e si misero le mani davanti agli occhi.
Gigia
prima finì il tabacco che aveva acceso dentro alla pipa, mise la pipa in tasca
e si alzò. Sollevò il cesto di cicuta pestata che era in terra e lo collocò sul
mio letto; con una preghiera che le usciva dalle sue labbra come il sibilo di
un serpe in amore, e con cinque segni di croce così riassunti che parevano
movimenti di mano compiuto per scacciare una mosca fastidiosa si purificò e
allo stesso modo purificò le fasce e la cicuta(..) le donne erano rigide e
pallide come statue per il mistero di
quella strana funzione che le soggiogava; come tutte le altre volte sentivano
la presenza di un essere invisibile che
Gigia riusciva a chiamare, ma se fosse
Dio o il Diavolo non lo sapevano. (..) Gigia incominciò ad imbottirmi di cicuta
pestata intorno al collo, poi passò alle spalle, sempre avvolgendo con le fasce;
Gigia non era arrivata allo stomaco che io battevo i denti dal freddo: Mia
madre si spaventò e pregò Gigia di smettere, ma quella se la tolse di torno con
una parolaccia delle sue e continuò ad imbottire e a fasciare. “Sui reni due
cuscinetti bisogna metterne, sono loro i più ammalati: non filtrano più” diceva
Gigia. Era arrivata a coprirmi tutto il ventre (..e finì alle caviglie. La lampada
a petrolio andò in frantumi e per poco
non appiccò il fuoco alle coperte. Gigia aveva finito. Con le sue mani verdi di
cicuta, che parevan ramarri, riempì la pipa
affondandola nella vescica conciata di maiale, dove era sempre vivo e
vegeto l’insetto nero che teneva fresco e fragrante il tabacco, andò in cucina,
con le dita prese una brace accesa e la mise ad accendere la pipa. Tirò qualche
boccata, fece saltare via la brace della pipa, poi parlò: “Fra due o tre ore la
bambina chiederà di orinare, ve lo chiederà ancora e poi ancora fino a tanto
che l’acqua che era mescolata al sangue sarà filtrata dai reni e uscirà tutta”
L’indomani
il medico disse “Siamo a posto, gli
ultimi medicamenti le hanno fatto bene, incominciavo a perdere le speranze, con
la nefrite che aveva non si scherza: perbacco! E’ forte l’odore di cicuta”; “Ne
ho fatti due impacchi sui reni”, si sbrigò a dire mia madre ; “tutto fa,” disse
il medico. Io ero guarita
(…) Gigia guariva di cuore, lasciava il letto
a qualunque ora della notte per correre dagli ammalati(..) partiva col sacchetto
delle erbe e il pentolino degli unguenti
(…) Gigia quella primavera incominciò a
ripetere la cantilena che contrassegnò la sua demenza senile: “Porca brega me
ne frega guarirai quando potrai”: era una cantilena che aveva uno strano suono
nella bocca di Gigia, perché negava un interesse che forse era stato l’unica
ragione della sua vita, guarire il prossimo.
(..) Gigia ebbe un desiderio bruciante di
camminare, camminare con le pecore davanti
per strada, per sentieri, per
valli e per monti. Non mangiava per camminare, non dormiva per camminare (…).
Fermarono Gigia, la legarono al gambo di un letto perché con le sue mani ad
uncino avrebbe divelto la porta, e invece si dilaniò il volto, le braccia:
Gigia è pazza, la pazzia dei vecchi.
.
(..)
Quel pomeriggio Gigia riuscì ad evadere dalla sua prigione buia e andò alla
luce; camminò finché le gambe la portarono e poi cadde. La ritrovarono dopo
alcuni giorni di ricerche, in un
ruscello: l’acqua le aveva lavato la ferita, le aveva pettinato i capelli
d’argento, levigato la pelle grinzosa e
pareva una statua d’alabastro coricata in mezzo alle acque correnti”.
Così
morì Gigia, a differenza di quelle che l’avevano preceduta 350 anni prima non
perseguitata, forse amata, certo preziosa, una delle ultime testimoni di una
sapienza millenaria in cui conoscenze, religione, superstizione si univano in
un sincretismo ormai al suo autunno.
(L.O. aprile 2017)
(L.O. aprile 2017)
APPENDICE DOCUMENTARIA
GLI ATTI DEL
PROCESSO ([115])
![]() |
La prima pagina degli atti del processo |
Orig.
cart., Savona, Archivio Vescovile, Vicariato di Spigno,
Streghe, Atti del
processo, 9 luglio 1631.
[Doc.
1] Anno Domini 1631, die 9 (iulii]
Acta
criminalia agitata in Curia foranea oppidi Spigni et coram. Ill.mo et admodum Rev.mo
Domino Pietro Ioanni Verruta. Ill.mo et Rev.mo D. Episcopo Savonensi et in hac parte
dellegato loco vicarii Sancti Offitii ad instantiam Vincentii Bachielli
Procuratoris fiscalis dictae Curiae.
Contra stries et maleficas videlicet
Margaritam Bracam, Blanchinam Santinam seu
Sulianam, Margarinam etiam Bracam, Bartolomeum Perletum, Luciam Peiranam,
Ioanninam Sulianam, Luciam Rodanam, Marietam et Ioaninam matrem et filiam de
Colombis, Iacobum Auranum, Mariam Scaiolam uxorem Stefani.
Bernardinus scribanus notarius et dictae
Curiae cancellarius etc., ac loco notarii Sancti Offitii asumptus.
[Doc.
2] Anno Domini millesimo sex [centesimo trigesimo primo ... ]. Coram Ill.i
et adm. Rev. D. Ioanne Verruta Archipresbitero S. Ambrogii Spigni Vicarioque
foraneo pro Ill. D. Episcopo Savone et in hac parte delligato comparuit nob.
Vincentius Bachiellus procurator fiscalis Curie foranee qui quaerelanter
exposuit come presente che “alla villa della Rochetta di Spigno siano
christiani e christiane poco timorate di Dio Benedetto che comettono molti disordini
come inobedienti a S.ta Chiesa, massime di streghe, comettendo molti assassina
menti et stregherie contro gli ordini di S.ta Madre Chiesa, che perciò sendo di
ciò pubblica voce e fama richiede et insta prendersi informationi circa quanto
da esso viene esposto et trovati tali delinquenti arrestarli et castigarli
nelle pene della ragione et in ogni miglior modo amministrarsi giustizia,
altrimenti protesta di negata giustizia, l'officio etc."·
Salvo etc.
Et predictus Ill.stris et admodum rev. D.
Vicarius sedens etc. visis et auditis praemissis, ordinavit informationes
sumendas esse prout paratissimus etc.; si illas etc., et ita etc., nuntio etc.
qui etc.
[Doc.3] Anno praemisso et die 12
mensis iulii. Predictus Illustris et Rev. Dominus Vicarius contulit
secum me Notario, dicto Fiscali ac Nuntio Curie ad villam predictam Rochetae
causa et ad effectum coram quo Marius de Colla testis productis per dictum
fiscalem citatus per Georgium de Prato nuntium etc. cui delato iuramento
veritatis dicendae etc. interrogatus super contentis in expositione eidem
lecta, respondit: “Io non so altro solo che da poi che mi ritrovo ad habitar
nella presente villa della Rochetta, ho sentito sempre a nominarsi [ ...
masc]ha e strega Margarita sorella di Zechino Poggio, moglie lasciata da
Bartolomeo Bracho di questa villa della Rochetta di Spigno et questo in
occasione [che] mi ritrovavo in compagnia d'altri, discorrendo di
simili persone intesi sempre che questa sii strega; se lo sii, Dio benedetto la
faci castigare, né saper altro, solo quanto ho deposto; intendo di più che
hanno abbruciata sua sorella alla Rochaovrano, et detto Zechino, suo fratello,
pure, per sospetto che siano masche e maschoni né saper altro"·
Super generalibus recte, et est etatis
annorum 55 circa, habet in bonis valorem scutorum 600, pater familias, et fecit
sequentem signum + .
[Doc.
4] Successive Bartolomeus Viatius [ ... ], testis ut supra, productus,
citatus etc., cui delato iuramento veritatis dicendae et interrogatus super
contentas in querella et expositione eidem lecta, respondit: "Io ho
sempre sentito dire qui alla Rochetta che Margarita Bracha sii una masca e
strega, che fu moglie d 'un Bartolomeo Bracho, et un giorno di questa settimana
passata sendo vicino alla fine della Rocha vicino a Croce, sulla strada
pubblica, la Caterina, la moglie di Bartolomeo Auramo della Rocha mi disse che
alla Rocha haveano preso il fratello di questa Margarita et sua sorella che
indi hanno abbruciata, né io so dir altro, ma V. S. esamini Bartolomeo figlio
di Giacobo Ferrare che le saprà dir un non so che di Bartolomeo Perletto detto
Caramello, non mi ricordo però il preciso per esser gl'havevo non so affari né mi
ricordo bene, lui saprà dir il tutto né so altro”.
Super
generalibus recte et aetatis annorum 70, habet in bonis valorem scutorum mille,
pater familias, et fccit sequentem signum + .
[Doc.
5] Successive, coram Notario, Petrus Maria, testis in querella nominatus
citatus veritatis dicendae, et interrogatus super contentas in querella et
expositione eidem lecta, respondit: "io dirò a V. S. ho sempre sentito
nominare Margarita Bracha esser una strega, e una volta sentii dire che
Inocenzo Gavoto trovò questa Margherita e sua figlia in Spigno, scapelliate, di
notte due o tre anni sono, e Francesco Fornarino et altri che danno la causa a
questa Margarita che gli babbi mascato lì figlioli che le sono morti, et mia
ava, quando morse, questa Margarita venne in casa, essa incominciò a strepitare
e dire "fatela levare, perché è questa che m'ha mascato e mi dà gran
dolore stando in casa nostra”. Di più ho sentito a nominar Bianchina moglie di
Giovanni Suliano o sii Santino, che essa pure sii una strega perché non viene
mai tre volte l'anno a messa; e di più ha detto a mia moglie " Se havesse
l'havere ch'è da Serole a basso non voglio mai che ti possi governare”; dicendo
queste cose bisogna pur sappi qualche cosa, e questo è quanto sappi sopra
quanto consta dimandato” .
Super
generalibus recte, et est etatis annorum 31, habet in bonis valorem scutorum
ducentorum, uxoratus cum Batina filia q.m Iovanni Podii, et fecit sequemem
signum + ; quibus habitis fuit [ dimissus] etc.
[Doc.
6] Sucessive Bartolomeus Ferrarius testis in querella nominatus citatus etc,
cui delato iuramento etc. respondit: " Sopra quello V.S. mi ha letto,
io ritrovandomi in casa di Fornarino, la moglie di messer Francesco Fornarino
disse che volevano far prigione Bartolomeo Perletto detto Caramello et
Margarita Bracha che erano masche e mascone, e puoi ho sempre sentito dire in
mio tempo che questa Margarita è una masca et n'è pubblica voce e fama, com'
anche Caterina ?) moglie d'un fu Giacbetto Marencho esser vecchie
streghe, come sempre ho sentito per tali nominate, del resto non so altro ([116]);
più dico hora che mi soviene una volta [ ... ] presente a casa nostra nella
contrada delle [ ... ] quatro anni sono, dove detto Bartolomeo Perletto detto
Caramello havea per mano la barba d'un becco dicendo le seguenti parole ad alta
voce: “questo è mio padrone e quello che mi governa, mi dà denari e tutto
quello che) ho bisogno, e con esso andava, o sii da esso becco si faceva menare
attorno le roche d Manera e diceva: “o Giacometto, vieni a pigliar me e il mio
becco”.
Interrogatus
quante volte ha visto a far simili cose al detto Bartolomeo, respondit: " Una
quatrina di volte mi sono trovato presente et ho visto che detto Caramello,
così sopranominato, faceva tali cose” . lnterrogatus se queste cose fatte
dal suddetto Bartolomeo erano cose da buon cristiano et a che fine le faceva,
respondit: "io vedendolo a far queste cose, chiamando il diavolo per
suo padrone, tengo e giudico fossero cose da malissimo cristiano, a che fine
non lo so'. Interrogatus se questo tal nominato Bartolomeo e questa voce e
fama (che) sii un stregone e da chi habbi lui teste sentito tali cose et alla
presenza di chi, respondit: “Io ho sempre sentito dir che esso Bartolomeo
sii un mascone, sendone pubblica voce e fama, anzi non ha neanche la Corona
(del Rosario), et alle feste invece d'andar a sentir Messa esso va a
lavorare nanti la Messa, doppo et come fosse un giorno feriale, di modo che non
facendo differenza alcuna dalla festa alli giorni da lavoro, et gridandoli io
in particolare, mi ha havuto a dire che non ha che fare né di mezzo della corte
né altro, e questo quanto'"
Super generalibus recte, et etatis annorum
25, filius familias, uxoratus, et fecit sequens signum + ; quibus habitis etc.
[doc. 7] Sucessive
coram Notario, Georgius Brachus testis productus citatus cui delato iuramento de
veritate dicenda etc. interrogatus super contentas in querella, respondit: “Io
non so dir altro, solo che sempre sentii nominare Margarita Bracha esser
strega, et massime dalla poverina di mia madre, dicendomi “mi
dubito che questa Margarita non sii strega” et di questa non so dir altro; ho
di più sentito nominare Bartolomeo Perletto detto Caramello esser lui pure un
mascho, et Bianchina moglie di Giovanni Sentino, perché non a mai stato
possibile far acomprar una Corona al detto Bartolomeo et la detta Bianchina non
viene se non una volta l'anno, si può dir, alla messa; del resto non so dir
altro sopra questo”.
Super generalibus recte, et etatis annorum
35 circa, habet in bonis valore scutorum 600, pater familias, et fecit sequens
signum *"''·; quibus habitis etc.
[Doc.
8] Ea die, in domo de Fornarinis sub suis notoriis coherentiis, etc.
Coram
predicto Ill.stri et ad. dum Rev.do Domino Vie. Foraneo ut supra, etc. Domina Maria
uxor D. Francisci de Fornarinis, testis in processu nominata, citata et eidem
delato iuramento veritatis dicendae et interrogata super querella fiscali eidem
lecta et declarata, respondit: “ Di quanto V.S. sig. Arciprete et Vicario mi
dirnandate et m'ha fatto leggere, dirà a V.S. quello (che) mi occorre,
et accade due o tre anni sono, hebbi da mio marito Francesco un figliolo di
nome Alberto [ ... ] d'età di giorni 11, venne questa Margarita Bracha a
vedermi e mi portò sei ove contro il suo solito, dicendomi: “havete il vostro
figlio esperto”; dicendo che dormiva, non si volse mai partire se prima non lo
vedesse, là dove portando io questo mio figliolo vicino al fuoco per fasciarlo,
dove era questa Margarita attaccata ed app resso, dissemi: " è pure
esperto e grosso”; il povero figliolo non tantosto fu partita essa Margarita
cominciò a lamentarsi, et haver male e
cosummò in maniera che in tre giorni morì secho essangue, tortute le gambe, e
sopra le reni havea un segno che parevali una mano infuocata, nella quale se vi
vedevano le proprie ditte, dal che sendone da Lucretia lvalda, mantilara in
Spigno, avvisata come costei, cioè Margarita, ha una cattiva nominanza, e che
n'era pubblica voce e fama, giudicai sempre e giudico che questa Margarita ha
stata quella che m'ha morto esso figliolo, né ho mai sospettato un'altra persona,
ch'io sappi, sospettosa di strega che questa, di che n'è pubblica voce e fama
"·
Interrogata
se mai ha sentito dire da alcuno che questa Margarìta habbi fatto altri
malefici et sii strega e per tale tenuta, respondit: “Signor sì che li
nostri ayradori che sono Antonio Bracho, Ioannino Bacino et tutti di questo
contorno, la tengono per una strega, havendola vista a balare con sua figlia
sotto un pero a Casale, e questo haverlo sentito dire da Gioanino Bacino
medesimo et tutti di Casale “.
Interrogata
se sii pubblica voce et fama che questa Margherita sii strega e masca, respondit:
“Signor sì che è pubblica voce e fama e tutti lo dichono e se più vi fossero
lo diriano “.
Interrogata
se habbi sentito dire o sappi vi sii altra o altro sospetto di masche o
maschone, respondit: " Signor, doppo si dice di queste streghe,
Segurano Suliano dice che si trovò presente una volta che Bartolomeo Perletto
detto Caramello cridava con Sebastiano del Piazzo, e che havea un becco esso
Caramello per la barba e che diceva verso esso Sebastiano: “Guarda questo
becco, è mio padrone e ha una cantina più ben fornita che la tua in questa Rocha”,
et ch'indi montò a cavallo ad esso becco e se ne voltò per quelle roche verso
casa sua soggiungendo: “La mia cantina è in quelle roche"· Di più,
dice essa costituta, “hieri, qui nella mia ara, Giacobo Perletto figlio del
suddetto Caramello, disse una volta (che) havevo male alla schiena e
andai da Lucia Peirana e mi fece un remeddio che pigliò tre grani di sale con
tre fille di filo torto e li mise in una scudella d'acqua e puoi seppe dire:
"sono tre masche che vi nociono, e una ne può più che !'altre”, e subito
guarii. Di più ho sentito dire dalli sudetti ayradori che Bianchina, moglie di
Giovanna Sentino, detta la Colomba, è pure una strega, e v'è voce pubblica che
essa Colomba sii <strega>, né so altro”.
Super generalibus recte et etatis annorum
30, ha[bet in bonis] dotalibus scuta mille, et fecit sequens signum + ; quibus
habitis etc.
[Doc. 9] Quibus sic stantibus
Procurator Fiscalis ut supra presens etc. acceptans dicta et depositiones testium
ut supra examinatorum in partibus utilibus et favorabilibus, tamen et non aliter
etc., petit et instat ad formalem capturam et arestationem deveniri et a
carceribus non relaxari nisi prius iustitia suum sortiatur effectum, nec
permitti delicta impunita, quin immo eos et eas puniri et multari in penis
iuris ad formam Sacrorum Canonum; secum protestarur de negata iustitia ac de
recursu etc. offitium etc., salvo iure etc.
Et prefatus Illustris et admodum
Reverendus D. Vicarius, sedens etc., praemissis visis et attentis, attenta ea
requisitione ac instantia dicti Procuratoris Fiscalis, ordinavit deveniri ad capturam
et arestationem diete Margaritae Brachae et Blanchinae Santinae
et eas in locum tutum in oppido Spigni conduci et reponi ad effectum et ita
etc. etc., nontio etc., qui etc.
[Doc.
10] Sucessive Georgius de Prato et Laurentius Perletus nuntii ac birruarii
Curie retulerunt mihi Notario se sub die hodierna et nunc conduxisse in
presenti oppido Spigni Margaritam Bracham et Blanchinam uxorem Ioannis Santini,
huius Curie subpositis, et eas in tutum, separatim, reposuisse silicet: dictam
Margaritam in castro presentis loci in stabulo dicti castri, et recte
claudidisse hostium, et dictam Blanchinam reposuisse subtus campanile easque ibi
dimisisse et ita rettulerunt et refferunt etc.
In quorum etc. Bernardinus scribanus
Notarius et Cancellarius etc. Et quoniam locus in quo posita fuit dieta
Margarita erat dicto Domino Vicario in sospectum pro fuga, sic, instante
predicto Procuratori Fiscali, fuit ab ipso loco levata et posita in cubile
hospitali huius loci, cum monitione in forma facta Georgia de Prato birruario
ut eam tute custodiat ne fugam aripiat, et ita etc.; et hoc sub die decima
quarta predicti mensis, mane, etc.
Ordinavit insuper prefatus Dominus
Vicarius, ne fame pereat, nec non et dicta Blanchina, de alimentis provideri et
hac de re, curam, et diligentiam premissa exequendi, dedit, tradidit et in voce
iniunxit Georgino de Prato nuntio, et caveat ne de necessariis pereant et egeant,
nam in casum etc., erit paratus de proprio, et ita etc., nontio praedicto etc.,
qui etc.
[Doc.
11] Ea die, coram pre[fato Vicario], in aula suae habitationis, in iur [
... ) Iacobus Sulianus, testis in processu nominatus, citatus, productus et
iuratus etc. interrogatus super contentas in querell eidem lecta, respondit:
"Io ho sentito dire un giorno della settimana passata, sentii a dire da
Maddalena, servema di Giorgio Bracho, mi disse che Margarita Bracha e Margarina
sua figlia sono streghe e masche, del resto non so dir altro, solo che
Bianchina moglie di Giovanni Suliano, o Santino, viene puoco alla Messa, del
resto ridico non saper altro”.
Super
generalibus recte, et est etatis annorum 50, habet in bonis valorem scutorum
200, pater familias, et fecit sequcns signum + ; quibus habitis fuit dimissus,
animo tam etc.
[Doc.12]
Anno Domini millesimo sexcentesimo trigesimo primo, die decima quarta mensis Julii,
in aula habitationis domini Vicarii prefati et coram ipso, Lucretia Ivalda,
mantilara ([117])
huius loci, testis in processu nominata, citata, etc., cui delato iuramento
veritatis etc. et interrogata an unquam habuit sermonem cum aliquo de arte
venefica, respondit: “Dirò a V.S. (che) tre anni sono, sendo
levatrice de figlioli, mentre madama Maria moglie di messer Francesco Fornarino
partorì un bellissimo figliolo, andai colà in casa sua et nell'intrar in casa
dissi: “Dio ci aiuti”, et ivi era Margarita Bracha, la quale stette ivi un
pezzo, di poi si partì, partita che fu dissi a detta madama Maria: 'Vi venghi
il buon anno, chi ha fatto venir qui questa masca”.
Interrogata
per qual causa disse queste parole lei constituta, se perché lo sapesse che fosse
detta Margarita mascha o perché l'avesse sentito dire e da chi, respondit:
" Io dissi queste cose perché lo havevo sentito dire da molte persone,
e massime dalla signora fu madama Aurelia Fornarino et altri suoi famigli, non
per ingiuriarla né per altro, e perché n'era come n'è pubblica voce e fama “.
Interrogata
se sa lei teste perfettamente o s'immaginasse o sospettasse (che) fosse questa Margarita
che lo mascasse e nocesse, respondit: “Signor sì che mi venisse in sospetto
che fusse detta Margarita mascha che l'havesse nociuto et fatto morire, perché
la notte puoi che dormii colà non sentii in mia vita mai li più brutti urli e
gridi de gatti che in quella casa”.
Interrogata se vide quelli segni d'esangue,
torzute, et in particolare la mano, o sii segno infocato, respondit: " Signor
sì che questo figliolo che nacque bello grasso, svenne esangue, torzuto, con
questo segno d'una mano verso le reni e si vedevano le proprie dite d'essa mano
infocata"·
Interrogata
quanto tempo campò questo figliolo doppo (che) vi venne male e di che ettà era,
respondit: “Signor, non campò più di tre <giorni> doppo che vi
venne male, et non havea d'ettà più di dieci o undici giorni, né so altro”.
Interrogata se questa Margarita habbi fatto
altro maleficio, respondit haver sentito dire da Lucia moglie di Bartolomeo
Rodano quondam G. che le guastò un figlio essa Margarita, "del resto
non so altro né posso dir altro”.
Super
generalibus recte, et etatis annorum 45 circa, habet in bonis dotalibus scuta
centum, mater quinque filiorum, et fecit seguentem signum + ; quibus habitis
fuit dimissa, animo tamen etc.
[Doc.13]
Sucessive Batina [ ... ] nominata, citata et eidem iuramento [ ... ]
interrogata se mai gl'è occorso cridare o disc[orrer con ... ] niuna donna
della sua contrada, respondit: " lo non ho cridato con alcuna, solo che
con Bianchina moglie di Gioanni Suliano o sii Sentino più volte inanzi la morte
di mia madre e doppo per cose ordinarie di donne mi disse, dico più volte: “S'havessi
da Serole al basso l' havere che v'è, non voglio che ti levi dalla fame e sete,
et s'essa havesse solo un staro di terra vuole le vagli più ch'a me quello ho
detto da Serole a basso”.
Interrogata
che cosa viene lei teste a pensare di queste parole e se tiene essa Bianchina donna
di mala vita et inobediente alli ordini e comandi di S. Chiesa, respondit: “Io
non posso giudicare né pensare, solo che dicendomi simili parole non habbi in
sé qualche arte diabolica, e se fusse donna in grazia di Nostro Signore mi
immagino non direbbe tali cose, et la lascio com'è, però alla Messa non gliela
vedo troppo spesso, et in cambio d'andar alla Messa, alle feste va a coglier herbe
per li suoi animali e fa altri esercizii manuali in campagna; del resto non so
dir altro”.
Interrogata
se sa ch'essa Bianchina habbi commesso altro disordine, respondit: “Io non so
dir altro a V.S., solo quello (che) ho deposto”, et cum nil aliud ab
ea haberi potuit, fuit interrogata super generalibus, super quibus recte, et
etatis annorum 30 circiter, habet in bonis dotalibus scuta centum, uxor Petri
Matii, et fecit sequens signum + ; et his habitis dimissa etc.
[Doc.14]
[Ioanninus] Bacinus testis in processu nominatus, citatus, etc., cui delato
iuramento etc. interrogatus di chi è aradore, in compagnia di chi, respondit: “Di
messer Francesco Fornarino, in compagnia d'Antonio Bracho, Giacobo Pcrletto, figlio
di Bartolomeo, detto Caramello "·
Interrogato
se nell'arar con gli suddetti et altre persone gli è mai occorso di cosa alcuna
di stregheria, respondit: “Signor sì che abbiamo discorso di streghcrie con
detti miei compagni in occasione che si trovava di queste streghe dapertutto
intorno” .
Interrogatus
che cosa ha discorso, che lo dichi chiaramente, di che persona o d'homo o di
donna, respondit: "Io ho discorso con detti miei compagni come
Margarita Bracha e Bianchina moglie di Gioanni Suliano o sii Sentina siano
streghe perché quando io sono stato amalato quatro mesi che non mi potevo
arregere sopra le gambe, io dò la colpa e sospetto sopra questa Margarita, che
dormiva e praticava in casa mia: per la mal nominata che ha, stimai sempre
fosse essa (che) mi perseguitasse; e doppo che più non praticò in casa
mia sono risanato, com'anche Dio Benedetto m'aiutò, ché V.S. venne a benedir la
mia casa e mi confessò, subdit ([118]) ex
se che “questa Margarita ha sempre in
bocca: “che il Diavolo l'acompagni” ,., perché siamo vicini et tutti d'una
contrada, et restoli suo nipote per mia moglie, figlia d'un fratello di suo
marito; et di Bianchina ho sempre [ ... ] vicini che sia una masca [...] “
.
Interrogatus
da che segno ha lui saputo sii una strega [ ... ], sa c'abbi comesso alcun
delitto, respondit: “Io l'ho sentito dire tre o quattro volte, del resto la
lascio così, et questo però l'ho sentito dire da Batina moglie di Pietro
Mazza et Giò Antonio Poggio, suo fratello, che questa Bianchina sia una masca e
strega”.
Interrogatus
se sa lui teste che sii essa Bianchina disobediente alli ordini di S. Chiesa, respondit:
“Questo non lo so, solo che alla Messa ci viene di rado”.
. Interrogatus
se mai ocorse a lui teste dire d'haver visto a balare alcuno sotto alcun
arbore, respondit: "Io ho sentito dire da Antonio Bracbo con il quale
sono in ara delli Fornarini, disse ch'una volta sentì un gran fracasso sotto
quei alberi verso la contrada di Casale, dove si dice “an Moncroce”, dalla
cassina dell 'Argento, di notte circa due bore, da che n'ebbe gran paura, et
questo che dico lo posso haver discorso con molte persone et in molti luoghi,ma
ch'io habbi visto non lo posso dire" subdicens ex se: " questo
è ocorso questo mese d'aprile mentre si ligavano le viti ".
Interrogatus
de causis scientiae, respondit: “ Le cose da me dette sono vere et ocorse nel
modo e forma da me deposte".
Super generali bus recte, et est etatis
annorum 60, habet in bonis valorem scutorum centum, et fecit sequens signum + ;
quibus habitis etc.
[Doc.
15] [ ... ] Michael de Burmida, huius loci, testis productus, citatus cui
delato iuramento veritatis dicendae etc., interrogatus super contentas in
expositione fiscali eidem lecta, respondit: “Io dirò a V.S., tre anni sono
sendo Maria, mia moglie a salire li fagioli in Geneggio, ivi vi venne, contro
ogni solito, Margarita Bracha e cominciò a pigliar amicitia con detta mia
donna, et un'altra volta puoi da lì a poco tempo venne qui a Spigno, portando o
toma (=formaggetta) o ricota non so, e vedendo che un figliolo ch'havea
in bra:zzo detta mia moglie, chiamato per nome Bernardino, che piangeva, disse
essa Margarita: "lasciatemi un poco questo figliolo a me, e voi andate a
far il fatto vostro” e così in confidenza, non pensando sopra altro male, glielo
lasciò in brazzo a detta Margarita, al quale subito venne una tosse che pareva
infredato, et da lì a quel tempo mai più parlò, né per due anni continui non
puotè andar da liberamente, sendo delle gionte disgionte in modo tale che stava
dove li ponea, et alla fine morse sgionto della vita tutta; dal lì a puochi
giorni, non ricordandomi il giorno preciso, mi trovo sopra la cassina di messer
Tomaso Germano e da sé mi dice: “È vero, o Michele, che mi dai la causa a me
ch' io ti habbi guastato vostro figlio?”. Le risposi che non m'ero mai
immaginato tal cosa, <ma da> quel tempo in qua ho sempre immaginato e
stimato che questa Margarita Bracha sii stata quella (che) m'ha guastato
esso figlio, né sospettai mai più sopra altra persona che sopra questa
Margarita, e questo è quanto”.
lnterrogatus
se fonda lui questo suo sospetto sopra altro che sopra quello (che) ha detto, respondit:
"Signor no, perché mi mise il sospetto con le parole da me deposte eh'
essa mi disse, e questo è quanto “.
Super generalibus recte, et etatis annorum
50, habet in bonis valorem scutorum centum, pater familias et se subscripsit:
Michel Bormida; quibus habitis etc.
[Doc.
16] Succesive coram ut supra in loco predicto etc. Nobilis Inocentius
Gavotus, testis in processu nominatus citatus, cui delato iuramento veritatis
dicendae, et interrogatus an numquam alicui dixit vidisse mulieres suspectas
nocturno tempore per locum huius, respondit: “Io non ho mai visto, per
quanto mj ricordo, donna di notte sospettosa di strega, e quando lo fussi,
perché in quel tempo non se ne tratava, non feci caso sopra"· Subdixit
quod ha sentito dire a Michel B. “che ritrovò una volta Margarita Bracha dal
guado d'Anselmo e che la minaciava d'un [ ... ] suo figliolo che n'era stato
offeso, et ch'essa vi rispose (che) non bavrebbe mai trovato quelle
cose, et esso Bormida la lasciò puoi andare, et questo è quanto sappi”“.
Super gcneralibus recte, et etatis annorum
40, habet in bonis valorem scutorum 500 et se subscripsit: Vincenzo Gavotto;
quibus habitis etc.
Et cum hora esset admodum tarda, omissum
fuit examen, animo tamen etc.
[Doc. 17] Anno premisso et die 15
mensis iulii.
In
iure etc. et coram domino Vicario etc. comparuit predictus Vincentius
Borchiellus, Fiscalis Curie, qui acceptavit et acceptat dicta et depositiones
testium in parte et in partibus fisco [ ... ] favorabilibus tamen et petit ad
ulteriora in causa procedi contra predictas Margaritam et Blanchinam, nec non
et alios si etc., et ius et iustitiam fieri et ministrari omni meliori modo
etc., sicut protestat de expensis etc., et instat interim deveniri ad formalem
descriptionem bonorum predictarum Margaritae et Blanchinae, et in tutum reponi
ad salvandum ius, si secus denuo protestando etc., officio etc., salvo iure
etc.
Et prefatus Illustris et admodum
reverendus Vicarius sedens etc., premissis visis et auditis et admissis si et
quatenus etc., ordinavit in causa esse procedendum etc. et ad descriptionem
bonorum predictorum deveniendum esse, et ita etc., nontio etc.
[Doc.
18] Anno Domini millesimo sexcentesimo trigesimo primo [die 16 iulii],
insuper finibus Spigni in contrata Casalis et ad [ ...] sive de Colombis, in
quo loco se transtulit predictus dominus [Vicarius cum] me notario, biruario
etc., causa perficiendi prout in ordinazione decreti sui sub die herina, inventarium bonorum tam
predicte Blanchinae quam Margarite, et in primis et ante omnia vocatis Io. Baptista
Columbo ac Ioanne Dura, quondam Serveci, testibus, vocavit Isabellam, sororem
Blanchine predicte, ibi in domo predicte Blanchine existens et illae delato
iuramento veritatis dicendae et consignando distinte bona omnia tam mobilia quam
immobilia predictae Blanchinae sororis, sub pena etiam scutorum vigintiquinque camerae
episcopali aplicandae et excomunicationis in iuris subsidium.
Ibidem
presens, quibus supra presentibus, dixit: “Signor, io sono pronta ad obedir
alli comandi di V.S. e djco che qui in casa nostra sono una troia con porchetti
sei, più una vacha e due manzoti, vi sono di vino stara due circa, borie cinque
di messe di grano, fabbe (=fave) uno staro circa, una bronza, quatro
caratelli, uno staro fagioli, un zebro, due carie tali quali, castagne uno
staro, una cadena da fuoco, una bronzina, un ferro da segare ([119])
una !etera, due case come si trovano più una casina con suoi sedimi, tutte le
proprietà dove si trovano sotto suoi notori
confini, come v'è nel loro registro” indivise con detta sua sorella, salvandosi sempre
ad aggiungere (che) quello (che) si troverà esser in comunione et indiviso et
non altrimenti etc.
Quibus omnibus sic stantibus, presentibus
quibus predictus Dominus Vicarius sedens etc., ordinavit bona predicta in tutum
et penes tertium reponi ad salvum ius, donec etc. et ita etc. et de premissis
testibus etc. Presente dicta Isabella et dicente: “Signor Vicario, io
terrò appresso di me le cose suddette e
prometto non consegnarle ad alcuno sotto obbligazione dei miei beni senza
particolar ordine di V.S. et farò tutto quello sarà di ragione e mi sarà
comandato'"
Et
predictus Dominus Vicarius ut supra, etc., premissis auditis, ordinavit dicta
bona preconsignata penes dictam Isabellam reponi cum precepto de ea nemini
consignare, sub pena solvendi de proprio ac de scutis quinquaginta et excomunicationis
in iure[ ... ] cum me notario, fiscali predicto ac Georgio Prato birruario ad
domum habitationis Margarite predicte, vocatis tum in testibus Ioanne Antonio
Santino et Io. Baptista Colombo, et ibi, silicet ad domos de Brachis, proventi,
fuit vocata per nuntium predictum, de ordine prefati Domini Vicarii, Caterina
Braca, filia diete Margarite, et ipse delato iuramento per predictum Dominum Vicarium
veritatis dicendae ac distincte consignandi bona matris sue Margarite sub pena etiam
scutorum viginti quinque ac excomunicationis in iuris subsidium etc. ac etc.
Que
presens dixit: “Io consegno molto volentieri V.S. esser in casa nostra un porchetto, due
pecore, un borloto di lentichie, una borlotta di messe et una bronzina, con la
presente casa et tutte queste puoche terre che si ritrovano, come al registro
nostro, al quale etc.; prego però V.S. Sig. Vicario a lasciarmi appresso di me
le suddette cose, sendo che ne terrò buona cura, e quelle consegnerò quando
sarà dimandata sotto obbligo dei miei beni, et esser anche pronta star in
ragione né contradir alli ordini di V.S. "·
Quibus
omnibus auditis a predicto Domino Vicario et admissis etc., ordinavit penes dictam
Caterinam bona predicta in tutum reponi ad salvum ius, cum precepto quod nemini
tradat sub pena solvendi de proprio et sub pena scutorum quinquaginta et excomunicationis
in iuris subsidium, presentibus quibus supra mandavit Procuratori Fiscali, et
ipsa caosa rogarunt testes que etc., et ita etc. Bernardus scribanus notarius et cancellarius.
[Doc. 19] Sucessive coram ut supra [
... ] Io. Baptista Columbus testis in processum nominatus, citatus, [delato
eidem] iuramento veritatis dicendae et interrogatus super contentas in querella
et epositione fiscali, respondit: “Io non so altro, solo che Bianchina
moglie di Gioanni Sentino ossia Suliano, mia nepote, va puoche volte l'anno
alla S. Messa, né credo haverle mai visto una volta la corona (del
Rosario), né so dir altro di quanto V.S. m'ha letto”.
Interrogatus
se ha lui teste mai havuto altro sospetto sopra la suddetta donna, e vistole a
far altro mancamento di quello (che) ha detto, per il quale possi lui medemo congetturare
sii puoco timorata di Dio Benedetto, respondit: “Io le dirò, molte volte mi
sono stupito a sentire e vedere questa Bianchina a parlar da sé, e nel suo
parlare pare parli con un altra persona e pure si vede sola, et stando che mai
vidi né sentii altro Cristiano parlar in quel modo, immaginomi e giudico più
tosto male che bene"·
Interrogatus
che dichiari distintamente questo da lui teste deposto, cioè “giudico più tosto
male che bene”, respondit: “Io giudico parlando nella forma suddetta che
parli più tosto con spiriti diabolici che altro, e per questo dico che giudico
più tosto male che bene”. Interrogatus quante volte ha lui teste sentito e
visto parlare la suddetta Bianchina da sé come depone, e che parole dicea e in
che luoco, respondit: “lo l'ho sentita e vista più volte, ma in particolare
una volta pasando sola dalla presente contrada in quella moglia ([120])
et una volta nell'horto, et in altri luochi che non mi sovviene, e diceva assai
parole che non intendevo, ma ben mia figlia Margarita sentì, ché parlava nel
detto horto dicendo “guardate quanti pomi ha questo mio arbore" e pure non
si vedea se non essa sola”.
Interrogatus
se tutte queste cose da lui deposte stando, tiene questa Bianchina in sospetto di
mala Christiana e sospetta di strega, respondit: “Signor sì, che stando le
cose suddette fatte dalla suddetta Bianchina, la tengo in sospetto per masca,
né so dir altro a V.S. di quanto sopra”.
Super generalibus recte, et est etatis
annorum 80, habet in bonis valorem scutorum 700, pater familias et fecit
sequens signum + ; quibus habitis fuit dimissus.
[Doc.
20] Sucessive Margarita, filia d. Baptiste Colombi, testis in processum
nominata, citata eidemque delato iuramento veritatis dicendae, et interrogata
se è tempo assai che fu nell'horto, et quando vi fu gl'accorse mai sentire
alcuno a parlar da sé medesimo, respondit: “È poco tempo che vi fui, et,
giorni sono, sentii e vidi Bianchina moglie di Giovanni Semino, che così sola
diceva “guarda quanti frutti ha fatto il mio arbore ch'ho qui nell'orto".
Interrogata verso chi diceva queste tali
parole, respondit: “Non v'era alcuno nell'horto, e non so con chi lei
parlasse”.
Interrogata
se mai altra volta vide a parlare altra volta questa donna, o ha sentito dire ad
altri che parlasse così sola col vento, respondit: " Signor no, se non
questa volta, ch'andò essa Bianchina a coglier del' herbe per gli animali
'"
Interrogata
che donna sii questa Bianchina da lei nominata, et in che considerazione sii tenuta
sia da lei teste che da altri, respondit: “Non so dir altro, solo che
parlando così da sé non la tengho faci atto da Cristiana come le altre, del
resto non so altro'".
Interrogata
se questa Bianchina fa altri mancamenti in non vivere christianamcnte, conforme
gli ordini di S.ta Chiesa comandano, respondit: “Alla Messa non ci va troppo
spesso, et in giorni di festa va cogliendo qualche erbazza, né so altro”.
Supra generalibus recte, et est etatis
annorum 20 filia dicti Baptìstc, nubilis et fecit sequens signum + ; quibus
habìtis etc.
[Doc.21]
Ea die coram nos [ ... ] in aula domus [ ... ] Nobilis Franciscus Fomarinus,
testis in processum nominatus, citatus, ( ... ) iuramento veritatis dicendae et
interrogatus se mai gli occorse a lamentarsi di streghe e masche, e a che
proposito, respondit: “Signor sì che mi sono lamentato più volte di
Margarita Bracha, che due o tre anni sono, havendo mia moglie Maria partorito
un figlio per nome Giò Alberto d'ettà di giorni undeci circa, vene qui in casa
mia detta Margarita Bracca e portò non so che ove, e non fu mai remedio si
volesse partre di casa che non vedesse questo mio figliolo, e non tanto tosto
si partì, che questo figlio incominciò ad haver male, et prese volta cativa in
maniera che non campò più di tre giorni”.
Interrogatus
se lui teste tiene (che) fosse stato nociuto da questa Margarita, respondit: “Qui
in casa mia non vene alcuna altra sospetta et tutti il sospetto l'abbiamo sopra
essa Margarita, sendo massime che costei ha sempre havuto cativa nominata, e
perché non si volse mai partire di casa che non vedesse il medesimo
figliolo"·
Interrogatus
se lui teste ha altra causa per la quale venghi a sospettare e giudicare sopra questa
Margarita, fuori di quella ha detto, respondit: “Signor non, e non che
questa ha sempre havuco cativa nominata, et è publica voce e fama, né saper
altro”. Subdit tum haver lui teste sentito dire da Franceschino, figlio
d'Antonio Bracho, e da Giovanni Del Piazzo che Bartolomeo Perletto detto
Caramello si faceva condure per certe roche da un becco ch'havea per la barba, “né
so dir d'avantaggio”“.
Supra generalibus recte, et est etatis
annorum 28, habet in bonis valorem scutorum bis mille et se subscripsit: Io
Francesco Fornarino.
[Doc.
22] [Anno] Domini eodem, dic 16 mensis iulii, in casetta predicta et coram
prefato domino Vicario etc., Seguranus Sulianus, testis in processu nominatus,
citatus et eidem delato iuramento veritatis dicendae et interrogatus se mai gli
accade discorrere con alcuno di streghe respondit: “Signor non, che mi
ricordi”.
Interrogato
domenica che cosa fece, dove andò e dichi distintamente dove consumò quella
giornata, respondit: “Alla mattina andai alla Messa alla Rochetta, indi veni
a casa di Fornarino, ivi steti un pezzo, indi mi fermai a casa de Perletti, e
puoi me ne andai a casa”.
Interrogatus che cosa fece a casa di
Fornarino, con chi parlò e di che cosa parlò, respondit: Io ci andai a farmi
dare colatione per la cena (che) non mi detero il giorno antecendentc che
ero andato ad aiutare a segare, e discorsi con madama Maria moglie di messer Francesco
Fornarino, con la quale discorsi di questa Margarita Bracha che s'era fatta
prigione ch'era una masca, et indi discorsimo che Bartolomeo Perletto detto
Caramello era un masco: io le dissi non haver sentito dire altro se non quando
prendeva per la barba quel becco e che diceva che era suo padrone e che era di
Domevede e ch'haveva una cantina in una rocha di Manera e che era meglio che
quella di Sebastiano del Piano, et questo io l'ho sentito dire da Sebastiano
del Piano e suo socero, et Antonio Bracho lo saprà"·
Interrogatus
come crede lui teste, a che fine ( ...) le cose da lui deposte con questo becco
[ ... ], respondit: “Io penso perché dicevano esser sta<ta> acusata
per [... ] e che il Signor Vicario Foraneo, ch'era il Signor P(rete?)
Pietro Rochetto (che) lo fece venir a Spigno; del resto non o dir
altro di questo particolare, perché già ho detto quello (che) so”.
Supra generalibus recte, et etatis annorum
60, habet in bonis valorem scutorum 300 et fccit sequens signum ***'; quibus
habitis fuit dimissus animo tamen etc.
[Doc.23]
Anno Domini millesimo sexcentesimo trigesimo primo, die 17 mensis iulii, in
iure etc. et coram predicto illustri et multo reverendo Domino Vicario et
delligato etc., Lucia, uxor Bartolomei Rodani, testis in processum nominata, citata,
cui delato iuramento veritatis dicendae etc. interrogata se mai gli accade
tratar o parlar con alcuno di streghe e che le fosse stato guastato un
figliolo, respondit: “Dirò a V.S. (che) domenica a sera, che
cominciava esser scuro, ero in cima la Contrata Rodersa, dove si dice " al
Chiaperolo "• con mio marito Bartolomeo Rodano quondam G., dove erano
molte persone, ma non saprei bora dire tutti perché erano assai; Pietro Mazza,
ch'era ivi, cominciò a trattare di queste streghe, et massime di questa Margarita
Bracha che V.S. ha in prigione, qual disse che sempre havea sentito dire che
havca cativa nominata. All'hora detto mio marito dice che le fu una volta
guastato un figliolo; del resto non so dir altro né posso dir altro”.
Interrogata
se suo marito gli disse fosse questa da lei teste nominata Margarita, respondit:
“Signor, io non lo posso dire perché non lo so ".
Interrogata
se questo figlio che fu guastato era nato da lei constituita, respondit: “Signor
non, nacque dalla prima moglie per nome Margarita, et questo figliolo che le fu
guastato havea nome Carlo, e detto mio marito meglio saprà dir quello occorre
che me, che non posso dir altro”.
Supra generalibus recte, et etatis annorum
30, habet im bonis dotalibus scuta quinquaginta, et fecit sequens signum *;
quibus habitis fuit dimissa animo tamen etc.
Et cum hora esset admodum tarda omissum
fuit examen.
[Doc.
24] Anno Domini millesimo sexcentesimo trigesimo primo [ ... ), die [18]
mensis iulii, in aula domus habitationis Archipresbiteri Vicarii Foraneii et
dcllegati et coram eo, [in dicto] loco fuit vocata et a carceribus levata Margarita
Bracha, principalis in facto proprio et testis in alieno, cui delato
iuramento veritati dicendae etc., et interrogata se sa la causa perché sii detenuta
in prigione respondit: “Io non so la causa solo perché mi ritrovi così
detenuta, quando non sii per quel che m'immagino, che da tutti sii tenuta per
una masca “ .
Interrogata
qua die fuit capta, et qua hora diei, in quo loco, respondit: "Io ero
alla Rochetta, finita la Messa, domenica passata dopo la Messa”.
Interrogata
quot dixerant quando (?lettura incerta?) ipsa constituta non fuit ibi,
rcspondit: “L'altra domenica passata io v'ero pure”“.
Interrogata
cum quibus [Missa ... ] frequentius, respondit: “Con Alesina, moglie di Giorgio
Bracho, et Bianchina moglie di Zanino Bacino et quei suoi figlioli di mia
contrada”.
Interrogata
quod in utero gerat et a quo tempore se pregnans existimat, respondit: “Sono venti
anni ch'io non partorisco più figlioli, et hora son pregna di pane e di vino” .
Interrogata
an unquam fuit Mediolani, Genova, Neapoli, respondit: “Signor, io non ho mai
passato Gorrino e Serole”.
Interrogata,
quando fuit capta, si habebat vestes quas de presenti habet, respondit: “Sono
queste quelle stesse che havevo”.
[Interrogata ... ] quo[d re]medium pro dolore
dentium, oculorum et similium et ad removendum glaciem, respondit: “Io non
so curare altre infermità che il male della Giazza e mal de' vermi.
E per curare la giace dico le infrascritte
parole, cioè:
“Cento
e sapient senza gatta mat ment b,
mi
per una via san son andà,
entr
ra Madona son scontrà,
andà voreivi,
andè cent sapient,
a
vorioma andè in ca' di N.N. e' ha la Giacia,
Tornè andrè cent sapient ch'ha fa voto
di stè un ann e un dì senza mangè
d'aij e lentigie”
E
puoi li faccio il segno di S. Croce, così faccio inanzi che dirle, e poi dico
cinque Pater Noster e cinque Ave Marie e puoi li faccio dire a quello ch'ha
male e lo condano in una livra d'oglio in riverenza della lampa; et il rimedio
delli vermi dico le seguenti parole:
Ch'
ha fà li vermi è sta Giob,
se n'ha fatti nove n'ha fatti tropp,
da nove an ott,
d'an otto an sett,
d'an sett an sei,
d'an sei an cinqu,
d'an cinqu an quautr,
d'an quatr an trei,
d'an
trei an doi,
d'an
doi an un “.
E
puoi dico cinque Pater Noster e cinque Ave Maria in riverenza di Dio e S. Maria
che quel male se ne vada via"·
Interrogata
a quo didicerit talia remedia, respondit: “Da una donna che si chiamava Santina
Barella, una figliola di Pietro Poggio "·
Subdicens
ex se: “Io mi scordavo, che so segnare anche il male del masclun, dicendo le
infrascritte parole, cioè:
(a
questo punto il documento si interrompe).
La parrocchiale dei Spigno ( da http://web.mclink.it/MH0688/Fuoriclasse/mappa.htm) |
APPENDICE II
LE LETTERE
Savona,
Archivio vescovile, Vicariato di Spigno, Streghe.
Gli
atti di seguito pubblicati costituiscono tutta la corrispondenza rinvenuta
nell'archivio savonese fra d. Verruta, parroco di Spigno, il Vescovo e gli
organi del Santo Offizio, sia regionali (Genova) sia centrali (Roma).
Gioverà
ricordare che le lettere del Verruta rappresentano innanzitutto le informazioni che il vicario
foraneo ha voluto trasmettere al suo Vescovo: elemento da non dimenticare.
Molte
delle lettere dell'arciprete di Spigno trattano altri argomenti oltre a quello
del processo: si è comunque preferito presentarle ugualmente in modo integrale al
fine di ottenere un più fedele spaccato di vita sia per meglio delineare la
personalità di don Verruta, sia. perché esse permettono di collocare il processo
in un più preciso contesto storico, economico, sociale e psicologico, utile per
meglio capirlo, contesto che altrimenti sarebbe rimasto ignoto.
La numerazione
attribuita ai documenti è nostra.
Lett.
1. 17 luglio 1631
Lettera
dell'arciprete di Spigno al Vescovo di Savona.
lll.
mo ec Rev.mo Sig. mio padron colendissimo,
Già
ho seritto a V.S. Ill.ma quanto occorre circa le donne incarcerate, aspetterò
ordine nè troppo m'alargarò. Qui inchiusi sono li testimoni essaminaci per la
dispensa del Nano ([121]). V.S. Ill.ma avvisi quanto vi vuole con l'espedizioni
nella Cancelleria, acciò le possa far rimborsar al signor maestro di casa.
A
Turpino s'è fatto tagliare (il grano) et si farà anche battere, uve non vi
sono, il fieno è iacassinato. A Piana s'anderà per l'affitto col Sgorlino ([122]) er di
già si è avvisato il Massaro della Chiesa per il lume al SS.mo Sacramento. Alla
Comunità vorria e sarà bene che il Sig. Marchese D. Alfonso parlasse. Perciò
V.S. Ill.ma sarà servita scriverne a d. M(archese) una riga perché s'accerterà
meglio il fatto. Non mancherò in toto posse far l'ufficio con questi uomini che
devo.
Per
li conti ho già scritto che sono prontissimo et si faranno ogni volta che il
maestro di casa vorrà, che è quanto mi occorre, mentre con humiltà a V.S. Ill.mafaccio
riverenza.
Di
Spigno li 17 di luglio 1631.
Di
V.S. Ill.ma et Rev.ma Servitor humilissimo
Giò.
Verruta Arc.te
(A
tergo: All 'Ill.mo et R.mo Sig.r mio padron Colendissimo Mons.r Spinola, Vescovo
di
Savona).
Lett.
2. 21 luglio 1631.
Lettera
dell'arciprete di Spigno al Vescovo di Savona.
Ill.mo
et Rev.mo Signor mio padron colendissimo, da messer prete Giò. Giorgio fui
richiesto a trattar con quei huomini della Villa della Rocchetta, perché
volessero compir il Decreto di Mons.r Vescovo di felice memoria per il suo
salario di 8 scuti d'oro et quantunque m'habbino risposto volerlo fare, adesso però parmi così
consigliati non vogliano, intendendo solo darli scuti 15 in moneta, dicendo che V.S. Ill.ma resta obligata
a mantenerci il Rettore per la servitù loro. Poiché esso Rettore non può lì
venire, m'ha pregato voglia darne partecipazione a V.S. Ili.ma, acciò ordini
quello dovrà fare per tal loro rinitenza, sendo prontissimo nondimeno ad
ubbidir a quanto li commanderà. Qui alla mia chiesa vi è una cappella della
comunità d'obbligo di 3 messe la settimana, qual non è servita per mancamento
di sacerdoti.
Esso
messer prete Giò. Giorgio vorria servirla, se fosse in gusto et si contentasse
V.S. Ill.ma, con attender anche alla cura, supplica a concederli grazia.
Si
sono già interrogate una volta le donne incarcerate et il Dottore dice converrà
torquerle ([123])
sendo gravate a tal segno, con tutto ciò essequirò l'ordine dattomi di
interrogarle la 2a volta et mandar costì le scritture.
Le
vettovaglie sono tutte, cioè le messi, marzaschi, ritirate in sicuro
all'Abbazia.
Dimani
vado a Piana ([124]) per
veder che quel prete di Dego vi volesse andare, et a questo effetto hanno
chiesto vogli benedir una cappella in campagna.
In
chiesa ci sta il lume, ma per li corpi insepolti niuno vi ardisce andarci;
parlerò con Sgorlino che ancora sta in Cerretto.
E
con questa a V.S. Ill.ma faccio riverenza.
Spigno
li 21 luglio 1631.
Di
V.S. Ill.ma et Rev.ma Humilissimo Servitore
Giò.
Verruta
(A
tergo: All'Ill.mo et R.mo Sig.r mio padron mio Colendissimo Monsignor Spinola, Vescovo
di Savona).
Lett.
3. 22 luglio 1631.
Il
cancelliere della Curia vescovile di Savona manda a d. Verruta, vicario foraneo
a Spigno, istruzioni circa il processo alle presunte streghe (Minuta).
Littera
scritta al Signor Arciprette Vicario Foraneo di Spigno.
Da
Mons. Ill.mo m'è stata rimessa una Vs. lettera nella quale si tratta del
particolare delle streghe, e poichè da essa Voi richiedete il modo che dovete
tenere, et anco si vede quel che fa il magnifico Podestà di costì, per la
presente vi manda l' inclusa instruttione della quale vi servirete a suo luogo
e tempo, et essaminando i testimoni prima di innovar altro contro le pretese
streghe ci darete avviso con mandar copia delle scritture secreta e sigillata,
non potendo dar rimedio se prima non si vedono le scritture e informazioni.
Circa il resto, vedendo che il magnifico Podestà per quanto dite cammina a buon
fine per est estirpare simili radici, con bel modo l'anderete trattenendo
allegandoli che simil materia si deve cognoscere dal Giudice ecclesiastico per
esser di Santo Ufficio; è però vero che bisognando d'aggiuto ricorrerete da lui
che, in tal caso, si doverà compiacere di darlo essendo così di raggione, ma
sopra tutto haverete riguardo a camminar destramente, perché il magnifico
Podestà non prendesse poi pretesto di non darvi aggiuto, che è quanto per ora
occorre dirvi intorno detto particolare, e da N .S. vi prego salute.
Savona,
il dì 22 luglio 1631.
Lett.
4. [ ... ] settembre 1631.
Lettera
dell'arciprete di Spigno al vicario generale di Savona.
Data
illeggibile, probabilmente l'inizio (1°) di settembre.
Ill.mo
et Rev.mo Signor mio padron sempre Colendissimo,
Il
maestro di casa ([125]) mi
dice che V.S. Ill.ma esser cent'anni (che) non ha mie lettere; restando mesto
per averle scritto quattro volte, né mai visto risposta alcuna, com' esso
maestro di casa pur sa, né è mio mancamento, ma si bene deriva da codesti
rastrelli ([126]).
Scrissi quanto occorreva circa queste streghe, come vedrà anche dall'alligata,
cbe contiene la sostanza del processo, ma, di grazia, risposta subito perchè
siamo minacciati noi giudici di nuova contagionc, come pur segue a Roccaverano,
Acqui et altri luoghi circonvicini. Mons. d' Acqui è morto di contagio, e le
cose passano malissimo. Qui, (per) gratia del Signore, vanno assai bene, se ben
succede qualche caso nelli figlioli maleficiati dalle streghe che restano ancor
di fuori dalle carceri.
A
Piana le cose non ponno andar di peggio, né in modo alcuno, stantibus etc.,
trovo prete né religiosi vi voglino attendere.
Già
con altra mia scrissi a V.S. Ill.ma come il famiglio di Antonio Boffa doppo
(haver) gridato col detto maestro di casa per certi bovi (che) davano danno
nelli beni dell' Abbazia, hebbe ardire di percuoterlo con pietre, et ferirlo con animo
cattivo, come nella querella, aspettando ordine se lo doveva far denunciare per
scomunicato e come havessi a governarmi, massime hora che tra luoro parmi sia
seguita remissione e perdono. Sin qui detto famiglio sta ritirato et separato
et Ill. Marchese vor ria castigarlo.
V.S. Ill.ma resterà servita ordinarme quello (che) dovrò fare.
A
Turpino, dico per li beni, ho fatto prattica di trovar attendenti nuovi tanto
nel finaggio di Spigno ehe di Montechiaro, né sin qui ho potuto accertare, per
esser in queste bande morti quasi tutti di peste. Sono però appresso ad un
huomo hora seco di questo negotiando, et ne sento pena e travaglio.
In
Menasco quei parrochi vorriano renunziarc, et intendono esser liberi
dall'affitto, e circa far estimar i danni non si può venir in chiaro, poichè
sono più di 30 anni (che) l'hanno ad affitto, nè consta d'alcuna visita allora
fatta. Quest 'anno vi sarà pochissime castagne, et le poche terre sono gerbide,
et un poco di fieno ancor da segare, che però io mai ho voluto accettar la
rinunzia, et specialmente havendo con V.S. Ill.ma fatta la scrittura.
Ogni
volta sarò avvisato di venir al rastrello di Ferrè per parte di V.S. Ill.ma
sarò pronto per ricever li commandi, se ben resto occupatissimo per il negozio
di queste streghe.
Si
manda a prender la S.ra Marchesa a Milano la settimana venente per farla sposa
con il Sig. (Marchese) di Cairo.
Il
Sig. Horatio, fratello del S. Marchese nostro, è stato ferito da un suo
servitore a S. Marzano, et rubbato (di) 600 scuti d'oro, et in questo punto il
Sig. Cavaliere ([127])
ritorna a casa, havendo inteso, per strada, esser morto di quella ferita. Il
prete di Turpino saria già venuto a rastrelli per l'investitura, ma per esser
serrato per la peste sin qui non ha potuto: adesso che Turpino è libero verrà
all'approbatione e mi dice compirà al tutto.
Queste
streghe tutto il giorno dimandano confessore: V.S. Ill.ma mi farà grazia di dar
autorità a p. Buffa di poterle consolare.
In
questa comagione sono stati fatti due legati alla mia chiesa di valore di 3
doppie l'uno e col consenso e gusto di V.S. Ill.ma vorrei alienarli e
rimetterli in compra d'una cassina e sedime attaccata alle possessioni della
chiesa, conoscendo (che) sarà utilità maggiore et beneficio evidentissimo della chiesa, che però la
supplico a consentirli sendo legati fatti di fresco.
Il
signor Marchese e Comunità hanno avuto le lettere di V.S.Ill.ma toccanti le
danni et interessi patiti dall'Abbazia nella passata guerra, et propostisi et
letta in Consiglio, il prossimo altro (che) si congregherà, credo risolveranno:
vi sono però assai contrapesi, né mancherò di solicitare.
Mando
il conto del manegiato, cioè (ri)scosso e speso, del 1629 et '30, acciò V.S. Ill.ma
veda quello vi è, già che il maestro di casa mi dice lo mandi avanti che far li
conti insieme.
Risupplico
V.S. Ill.ma a risponder per queste masche, poiché il s. Marchese m'accelera
nelle condanne, non perderà (? o prenderà? Lettura incerta) la Corte
nostra, così mi ha promesso, et intende di fare.
Il
grano qui vale (croso)ni 17 e più, le doppie a ragione di 55-56, scuto
d'argento 25 la pezza, e sul mercato ve ne viene ogni giorno più di 100 mine.
S'attenderà
a scoder li fitti hora sbrigati da. queste maledette bestie.
Faccio
per fine a V.S.Ill.ma riverenza, et me lo ricordo in bona gratia.
Spigno
li [ ... ] settembre 1631.
Di
V.S. Ill.ma et R.ma humilissimo Servitore
Gioanni
Verruta Are.te
Lett.
5. Tra il 1° e il 9 settembre 1631.
Minuta
di lettera scritta dal Vescovo di Savona all'Inquisitore di Genova.
Senza
data, ma anteriore al 9 settembre 1631, data della risposta dell'inquisitore.
Molto
Rev.do Padre,
Dal
mio Vicario foraneo di Spigno, a cui dellegai la causa delle streghe essistenti
nella mia Diocesi dì là dai monti, ricevei hieri ([128]) il
sommario del processo del quale ne mando inclusa copia. Sono instato alla
gagliarda, stante il danno comune, il tempo del contaggio, l'assistenza del
giudice secolare e volontà sua di voler venir a risoluzione rigorosa per
interesse publico, di dar all'istesso Vicario Foraneo autorità assoluta
accioché la Giurisdizione Ecclesiastica non restasse indietro dalla sub(itane)a
resoluzione che facesse la Secolare, ma, per esser punto nel quale conviene che
camminiamo nelle sentenze d'accordo, oltre la gravità della causa, non mi son
risoluto dargli altra autorità che prima non resti questo negotio partecipato
con V.S. Ill .ma Molto Rev.nda e con suo consenso inscritto, se li prenda
oportuna provi(gione?). Se il processo è così ben formato come il sommario,
dubito che sia necessario a terrore et ad essempio e per compimento di
giustizia provedervi rigorosamente. Il farlo copiare per vederlo, il che saria
più accertato, daria dilazione di mesi oltre le spese e resteria di grave
pregiudizio al publico. Perciò sarei di parere di ordinare che ad uno de
rastrelli si trasferisse il Vicario Foraneo con le scritture autentiche in
compagnia del Podestà che ancor ha fatto la causa, et ivi trasferirmi ancor io
in compagnia di V.S. Ill.ma, quando si risolvi farvi un passo, oppure in
compagnia del suo Padre Vicario che è qui in suo luogo, mentre però a questo li
dia autorità sufficiente per far sentenza, e letto il processo maturatamcnte,
segregate le cose certe dalle incerte, provedervi secondo importerà la
importanza del negotio.
Mi
son parso debitore d'avisarlo di tutto, con pregarla ad haverli presta
consideratione, acciochè la giustizia habbi il suo luogo e la giurisdizione non
ne sia tolta, et il tutto segua con quiete e soddisfazione comune, e mentre ne attendo la
risposta le prego da Dio ogni contento.
Lett.
6. 9 settembre 1631.
Lettera
di risposta del padre inquisitore di Genova al Vescovo di Savona.
Ill.mo
et Rev. mo Signore padrone mio colendissimo, ho visto anc'io il sommario
fabbricato dal suo Vicario foraneo contro di quelle streghe di Spigno et attese
le loro confessioni, è negotio molto grave, del quale stimo necessario darne
pronto avviso aUa Sacra Congregatione per aspettar avviso di tutto quello si
dovrà fare circa la loro espeditione, e tanto farò per questo primo ordinario
come stimerei bene facesse anche V.S. Ili.ma, avvisando intanto con sue lettere
quel Signor Marchese che s'astenghi di tentar cos'alcuna contro di dette
streghe, dovendo prima esser conosciuta la loro causa dal Sant'Officio dal
quale saranno arbitrate, sententiate et assolute dalla scomunica, e che però avverti (il Marchese) di non incorrere nelle
censure etc., tanto più che, come appare dal sommario, il Vicario Foraneo di
V.S. Ill.ma ha havuto la preventione in tutto e per tutto, e quando anche
altrimenti lascerà che il Sant'Officio facia prima la parte sua, che puoi
all'hora farà anch'esso la sua.
Questo
mi è parso di dover rispondere a V.S. Ill.ma per camminare più cautelatamente in
negotio di tanta importanza come è questo.
Bacio
affettuosamente le mani a V.S. Ill.ma e Rev.ma e prego di ogni vero bene.
Genova
li 9 settembre 163 l.
Dcv.mo
et Hum.mo servitore
f.
Pietro Ricciareli Inquisitore
Lett.
7. 11 settembre 1631.
Minuta
di lettera del Vescovo di Savona alla Congregazione del Santo Uffizio, Roma.
Eminentissimi
et Reverendissimi Signori,
Per
li casi che vanno seguendo alla giornata in parte di mia Diocesi, invio alle
Eminenze Vostre il sommario della causa contro alcune persone ([129])
esistenti nella mia Diocesi di là dai monti, havendo fatto tutto il processo il
mio Vicario Foraneo, a cui per la difficultà dcl contaggio delegai la causa. Sono
instato alla gagliarda, stante il danno commune, il tempo del contaggio, l'assistenza
del Giudice Secolare e volontà sua di voler venire a risolutione rigorosa per
interesse dei suoi luoghi, di dare al detto Vicario Foraneo autorità assoluta
in detta causa, ma io non ho voluto acconsentir a cosa alcuna che prima non
riceverò dalle SS.rie Vostre Eminentissime espresso ordine di quello (che)
doverò fare in causa si grossa, qual anca ho partecipato al Padre Inquisitore
di Genova per camminare di comune consenso. Per tanto supplico l'Em.ze Vostre
di restar servite farmi avvisato del lor senso affinchè io possi, come è mio
debito, essequir li suoi comandi, quali mentre attendo, quanto presumi il
pericolo di qualche novità del (Giudice) Secolare, al quale procuratore ho
potuto sii ripartita (?).
All'Emin.ze
Vostre riverentemente riverisco et prego dal cielo ogni maggior grandezza.
Savona,
li 11 settembre 1631.
Delle
SS.rie VV. Em.ne et Ili.me.
Lett.
8. 15 settembre 1631.
Lettera
dell'arciprete di Spigno al Vescovo di Savona.
Sono
giunto qui al rastrello per la condotta del grano al Sig. Vicario, havendo
voluto a provare per le difficoltà (che) si diceva esser per le strade, né vi è
sospetto alcuno grazie di Dio, anzi il Signor Marchese vuole et intende che i
suoi suditi passino liberamente per Montenotte ([130]) e per
ogni strada con sue bollette. Mi meraviglio del maestro di casa facci tanta
difficoltà, e se vuol far fare la condotta de suoi grani conviene la facci
questi otto giorni, altrimenti V.S. Ill.ma. per le sementi e vendemmie che
soprastanno dovrà aver patientar ancor qualche tempo.
Non
ho trovato chi vogli attender al partito che V.S. aveva di far condur partita
di grani per le Monache a L. 22 la mina, stante che vale già a Spigno scuti 19
e più per stara et L. 2 per la condotta, né posso far d'avantagione à manco
condotto al rastrello di L. 26 circa. Al Signor Marchese ho consegnato la di
V.S. Ill.ma, che mostra voler tener bona mano per l'interessi con la Comunità,
et m'ha hieri ricordato che replichi a V.S. Ill.ma il negotio delle streghe.
Non
ho potuto haver et trovar le prove sufficienti contro il famiglio del Boffa che
percosse legiermente il maestro di casa procedendo, secondo messer Enrigo
riferisce, che si trovò presente, manda l'inclusa supplica aciò V.S. Ill.ma le
provedi et grazii quando sii incorso.
Non
starò allargarmi più avanti stante che non ho causa. Per Turpino sin qui non ho
potuto trovar cosa di certo, sendovi pochi huomini et molte possessioni
gerbide.
Rastrello
di Ferrè, li 15 settembre 1631.
Di V.S.
Ill.ma et Rev.ma Serv. Humilissirno G. Verruta.
Lett.
9. 27 settembre 1631.
Lettera
dcl procuratore del Sant'Uffizio di Roma al Vescovo di Savona.
Ill.mo
et Rev.mo Sig. e padron. mio. osservantissimo
Ricevo
il favore della lettera di V.S. Ill.ma de 11 settembre con la ligata per la
Congregatione del Santo Ufficio, che feci recapitare subito et ò parlato al
Secretario del Cardinale Santo Onofrio per la risposta, (il) quale mi ha detto
che ne haverà pensiero particolare. Ringratio V.S. Ill.ma della occasione m'à
dato di servirla e la prego à darmene continue e maggiori, assicurandola che la
servirò sempre con la prontezza e deligenza che devo. In tanto per fine ricordo
a V.S. Ill.ma l'obligatione mia e li faccio riverenza.
Di
Roma alli 27 settembre 1631.
Di
Vs. S.Ill.ma e rev.ma Obbl.mo Servitore Stefano Senarega
Lett.
10. 29 settembre 1631.
L'arciprete
di Spigno manda al Vescovo di Savona un'informazione sommaria sul processo alle
streghe di Spigno.
Ill.mo et Rev.mo Signore
Acciò
V.S.Ill.ma resti informata di quello (che) va succedendo attorno la causa delle
streghe portatrici della contagione, per non fastidirla in soverchie parole
dirò brevemente quanto risulta dagli atti, la cui copia, quando si volesse
estrahere, v'andrebbero mesi.
Saprà
dunque V.S. Ill.ma come all'instanza del Procuratore Fiscale della Mensa
s'essaminarono sei testimoni, quali per pubblica voce e fama han deposto
unanimi che Margarita Bracha sii masca, et che Bianchina Suliana
pure, per non andare due volte l'anno alla messa.
Si
fecero captivare.
Indi
essaminati messer Francesco e madama Maria giugali De Fornarini, nominati nel processo,
concludono che questa Margarita l’habbi guastato un figliolo per nome Giò.
Alberto. Indi essaminato Zanino Bacino, teste nominato in processo, depone
esser stato amalato circa 4 mesi, né sospettar che sopra questa Margarita, per
praticar in casa, in segno che risanò quando più non volse l'amalato haver tal
pratica.
Michel
Bormida spontanemente depone che questa Margherita gli ha nociuto un figliolo, che
per due anni restò senza poter andare, il qual morto, un giorno incontrandosi
con essa Margarita le disse verba formalia: “O Michel, mi datte la causa
v'habbi morto uno figlio”, dal che venne a scoprire e dubitare che questa fosse
strega.
Essaminati
poi Bartolomeo e Lucia giugali De Rodani, separatim depongono e concludono d'haver
sospetto che questa Margarita l'habbi guastato un figlio per nome Carlo, perché
andò in casa d'essi e subito vi venne male, dove in breve morì.
Giacomo
Ferraro dice haver visto Bartolomeo Perletto detto Caramillo subire
hircum et dire “questo è mio padrone, che mi dà danari e quello (che)
voglio”, et haver sempre sentito nominare Caterina Marencha di Merana,
detta la Giacheta, esser masca, qual captivata dal giudice secolare et posta in
carceribus, da esso essaminata nega, sostenendo due hore di corda et altri
tormenti nella negativa; alla fine venne nanti il vicario et Delegato e
confessa liberamente esser masca, et che a diventar masca l'accade esser in
necessità d'inverno senza pane et alimenti per li figlioli e chiamò o che Dio o
il Diavolo l'aiutasse, quindi le comparve il Diavolo vestito di verde, in forma
di un bel giovine, che le disse non dubitasse perchè s'havesse fatto a suo modo
l'havria dato e prevista di tutto quello havuto bisogno, e così dicendogli di sì
essa donna, gli fece far la Santa Croce in terra e puoi gliela fece conculcare
et con la mano le fece atto di levar la Cresima sulla fronte e poi le fece
renegar Dio, la Beata Vergine, Passion di Cristo et il Battesimo, e puoi si
fece adorar con farsi baciar il cullo sodomitice carnalmente essa
constituta et gli dette frustum subucul(ae?) et si partì con promessa
d'esserle in tutto obediente et in ciò l'havesse commandata, et andandosi a
confessare avertisse di dir mai la verità et s'havesse potuto pigliar il SS.mo
Sacramento dall'altare per calpistare, l'havrebbe preso et non ingoiato, quod
Deo non placuit, prout dixit.
Confessa
di più eser andata in compagnia di due che nomina in processo, di Cagna, a guastar
un manzo, doppo haver ballato col Diavolo et da lui conosciute sodomitice,
nell'esser andata colà con il bastoneto, et dice il modo d'usarlo, et un'altra
volta esser ivi, al modo usato, con le suddette a guastar un bove, et mostra il modo, un'altra volta
esser andata al Castelletto Val d'Erro di compagnia della signora Giustina
Carreta a guastar un'agnata di porchetti, un'altra volta in compagnia di
Margarita Braca, Bianchina Suliana al detto luogo di Cagna a guastar un figlio
in casa di Simon Gatto, et dopo havcr ballato col Diavolo da esso furono tutte
conosciute carnalmente sodomitice; intrate in casa et preso il figliolo,
havendo il Diavolo aperta la porta, fece un grido, là dove il padre si svegliò
et tutte fu girono per tema della morte, et così rimessa.
S'essaminò
detta Bianchina, la quale confessa il modo d'esser stata fatta et diventata strega, et esser da anni 16 circa, et essersi
datta al diavolo per libidine, et osservato il modo nel far della Santa Croce
con la conculcazione e modo suddetto, nel restante dice non haver fatto alcun
male et persiste in negativa.
Margherita
Bracha essaminata si fa donna santa, ad ogni modo nell'esame cascò due volte o
tre in terra tramortita, mentre se vi esaminò Fran.co Fornarino et Michel
Bormida et persistendo in negativa s'ordinò fossero rasate come stillate
circumcirca.
Mentre
del tutto con sommario ero per darne avviso a V.S. Ill.ma, venne il Rev.do
Curato della Rocheta con altro testimonio e deponnero haver sentito Domenica
passata che Lucia Rodana è una masca da lei medesima et deponero d'
alcuni malefici da lei nominati e nomina d'alcune.
Ad
un'hora di notte col Cancelliere fiscale e messo della corte andai ad
incarcerarla, et essaminata a mezza notte, depone esser strega dalla guerra in
qua, et a diventar masca fu indutta da Margarina sua ava, ch'era capitana della
masche, usato il modo e forma suddetta, et esserle stato posto nome dal Diavolo
Martina, e dice liberamente esser masca et esser andata di compagnia di Lucia
Peirana, Zanina Suliana, Margarita e Margarina Bracha, Bianchina
Suliana, Marieta Colomba, la suddetta Caterina Marenca et
Bianchina sua figlia con Banolomeo Perletto, detto Caramello, a
commetter molti malefici et in specie in casa di messer Francesco Fornarino a
guastargli un figlio, e dice che prima ballarono sotto una noce, suonando detto
Caramello con un tamborino circa mezza notte, indi furono conosciute dal
Diavolo sodomitice.
Questo
fatto, andarono a guastar esso figliolo, e depone il modo; più esser andata in compagnia
delle suddette et di Maria Scaiola di Turpino con molte altre (che) non conosce
a far altri malefici a Cagna, a Serole, et un'altra volta a nocere al fratello
del Reverendo Curato della Rocheta, facendo arrancar un fico, come in fatto è
seguito e si trova; più esser statta presente a portar la contagione a Spigno
del mese d'ottobre in compagnia delle suddette, et mostra le case state onte di
contaggio; più esser andata a concitar la tempesta due volte in compagnia come
sopra et insegna il modo.
Il
Podestà fa incarcerare le suddette tutte nominate, quali di compagnia et
comunemente sono essaminate come dappertutto in questi contorni.
Si
stilla Margarina, figlia della Margarita, e dice di due malefici commessi con
sua madre, et il modo d'esser diventata strega per haver invocato il Diavolo,
et osservata la forma suddetta essaminata col sig. Giudice secolare col quale
resta il processo comune.
Lucia
Peirana depone esser strega da 3 anni circa, et che havendo chiamato il
Diavolo come desperata, le comparve vestito di verde in forma d'un bel giovane,
come sopra, e fatte le renuntie alla S.ma Trinità e Passion di Cristo in forma
etc., dice in compagnia di tutte le suddette nominate et di Marieta Barbera et
di Giacomo Aurame esser intervenuta alli malefici suddetti et a portar la
contagione a Spigno, alle case che nomina in processo; più confessa una pignata
di untagio, quale ritrovata è stata abbruggiata nella piazza del castello.
Essaminata
Zanina Barbera figlia di Marieta che va con le crozze ([131]) dice
esser donna da ben, ma nella repetizione confessa esser strega et esserlo
diventata per carnalità, confessa due malefici.
Giacomo
Aurame, liberamente costituito nelle nostre forze, depone esser mascho, et esserlo
da un anno in qua, et intervenuto ad alcuni malefici con tutte le suddette et
altre nominate nel processo, di Merana, Serole et altri luoghi com'anche a
portar la contagione a Spigno tre volte, item fuisse ad concitandas grandines in compagnia
d'alcune detenute due volte, et dice il modo: che essendo chiamato dal Diavolo andò sopra un monte,
dov'erano tute le suddette, e fatto un fosseno, ivi tutte orinarono, com'anche
il Diavolo, indi mescolando quell'orina il Diavolo vi mise un poco di polvere,
et levandosi in alto fumo si fanno nuvole, da dove dicono al Diavolo: " metti
giù, metti giù " Marieta Barbera
essaminata depone esser strega liberamente da quattr'anni in qua, et essersi
data al diavolo per libidine nel modo come sopra, et confessa molti malefici in
compagnia delle medesime, et di Bartolomeo Perletto detto Caramello, et esser
venuta a Spigno a portar la contagione, et mostra le case ch'banno omo, chi
tiene l'onto sì per il bastoneto come di contaggio, concludendo con le
suddette.
Zanina
Suliana si fa santa, fi nalmente sostenendola le altre in faccia con li malefici
fatti, confessa esser strega da due ani in qua, datta al Diavolo per libidine,
et dice haver osservato la forma dell'altre, in compagnia delle quali e del
Diavolo haver fatto alcuni balli notturni, et trovatasi ad alcuni malefici.
Bianchina
Suliana per la carne confessa essersi data al Diavolo, et esser strega da
16 anni in qua, nel resto pare sii santa, si dispone poi e confessa cose
esecrande, sì circa malefici che circa contagium.
Margarita
Bracha si fa casta, alla fin confessa esser strega da 11 anni in qua, et haver commesso
alcuni malefici, resta però, così vien convitta, et dicono tutte haver un
pignatino di contaggio consignatoli dal Diavolo in loro presenza.
Maria
Scaiola, donna di rilevo, protesta dell'infamia, e poi confessa da due anni in
qua esser masca, e confessa due o tre malefici con alcune nominate, et
forestieri, nel resto non se le può parlare, non accorgendosi ingannata Diavolo
che fu origine della contagione di Spigno et fu quella (che) invitò le altre a
tanto fare, come le vien sostenuto in faccia dall'altre.
Bartolomeo
Perletto detto Caramello si sostiene per un poco huomo da bene, finalmente da
tutte le altre le vien sostenuto faccia esser masco, et esser andato con loro a
sonare di notte, onde in seguito si risolve e confessa esser un stregone da 20
anni in qua, per certo formaggio che li mancò, et racconta il modo d'esser
venuto masco nella forma suddetta, et il nome Caramello esserli stato posto dal
Demonio: confessa diversi malefici con le suddette, indi dice et insegna il modo
et luoco dove s'è fatto il contaggio nelle fini di Cagna, dov'erano al numero
di 300 persone, composta di serpi velenosi, come biscie, babbi, scelestri,
laioli et simili animali con herbe dentro posteci dal Diavolo, distribuita una
pignata a Maria Scaiola, una a Bianchina Suliana, a Margarita Bracha, a
Catherina Marencha, et ad altre, con ordine del Demonio di servirsene per unger
le porte et persone. Nomina di più una signora Delia, moglie di messer
Guglielmo Beltrame, vista a ballare di notte pochi dì sono col Diavolo, una Beatrice
Ghilia di Spigno, quali cose tutte hanno sostenuto ogni di loro nella
ripetizione et in tortura ordinata dal Sig. Podestà et doppo la tortura, e
tutto ciò s'è fatto queste due settimane, volendo l'Ill.mo S. Marchese, per sua
parte, farle dar fine per incominciar indi altro processo contro le captivande,
attorno che havrà a charo il parere di V.S. Ill.ma, la quale supplico intanto,
atteso che assisto tamquam Delligato, a darme ordine et Authorità ampia
acciò il tutto si faccia con buon fondamento et riputatione, sendo che il tutto
cammina con buona intelligenza con detto Sig. Marchese, il quale per sradicar
simili bestie intende far presto, et tardandosi più siamo minaciati di nova
contagione da loro, havendonc composta novamente alla Roch'ovrano.
Che
però V.S. Ill.ma sarà servita subito partecipare il suo prudentissimo parere,
et mandarme ordine (di) quello (che) havrò a fare.
Tutte
l'incarcerate, che sono 14, han confessato, fuor d'una convita da complici ne'
delitti, che per opera del Diavolo nega tuttavia.
Resto
con farle humillissima riverentia.
Spigno
li 29 settembre 1631.
di
V.S. Ill.ma et Rev.ma Humillissimo Servitore
Giò.
Verruta Vicario
(A
tergo: Lettera a Mons. Ill.mo di Savona che contiene la sostanza del processo
fatto nella causa delle streghe)
Lett.
11. 3 ottobre 1631.
Minuta
di lettera del cancelliere del Vescovo di Savona all'arciprete di Spigno.
Molto
rev.do Signore
Havendo
inteso Mons. Ill.mo per lettera di V.S. scritta a mons. Vicario Generale che costì
si affretta in dover innovare et asseguire contro le incolpate per streghe, e
ciò massimamente dal Tribunale Secolare, mi ha comandato scrivi a V.S. che in
conformità del già scritto in questo particolare non innovi né permetta che
s'innovi cosa alcuna in far essecutione contro dette incolpate sino all'ordine
et avìso della Sacra Congregatione alla quale s'è scritto e quale resta del
tutto informata, avvertendo V.S. a invigilar molto in questi particolari e
puntualmente ad esseguirc la mente di S. Signoria lll.ma per esser cose gravi e
già introdotte inanti al S. Tribunale della S. Congregatione, né per altro.
Nostro
Signore la feliciti.
Savona,
lì 3 ottobre 1631.
Lett.
12. 20 ottobre 1631.
Lettera
di don Verruta al cancelliere episcopale di Savona.
Illustre
Signor mio
Veddo
quanto per parte di Mons. Ill.mo mi avvisa circa queste streghe, che il
Tribunale Secolare vorria da canto suo sbrigare; così, sendomi giornalmente il
Sig. Marchese alla vita ho però in conformità detto(gli) non innovi cosa alcuna
senza aviso di Sua Sig.ria Ill.ma, così anche al Giudice Secolare, et andando
il negocio alla longa, io non potrò resistere, se ben da canto mio mai si
troverà fallo alla Giurisdizione. Nelli luoghi circonvicini si è venuto all'essecutione
contro simili bestie, il che fa stupir (che) qui s'usi tanta difficultà, né vi
è altro, tanto più che minacciano per la vita li primati del logo et se ne
vedde l'effetto. Io però non permetterò, per mia parte et per quanto potrò,
(che) si innovi altro, ma temo, andando più alla longa, si faranno dal Secolare
altre resolutioni, né ci posso competere, perché mi trovo qui solo abbandonato.
Che
servi a V.S. per risposta e le bacio le mani
Spigno
li 20 ottobre 1631.
Giò.
Verruta Vic. Foraneo
(A
tergo: All' Ill.stre Signor mio Osservantissimo il Signor Bartolomeo Conrado Cancelliere
Episcopale di Savona).
Lett.
13. 21 ottobre 1631
Lettera
del parroco di Spigno al Vescovo di Savona.
Ill.mo
et Rev.mo Signor mio e Padrone Colendissimo,
Ricevei
la (lettera) di V.S. Ill.ma con le lettere Pastorali, et gli ordini in questi
tempi sì calamitosi, et s'è esseguito il tutto, et si manderà per tutto il
quartero. Ho avuto anche una dozena e mezza d'Agnus Benedetti, ch'apena
han potuto bastare per li Sig.ri marchesi, che però al Popolo non ho potuto far
parte.
La
Sig.ra Marchesa è gionta con la sposa sua figlia sana et allegramente, et bacia
per mille volte le mani a V.S. lll.ma, dovendosi fermar in queste bande tutto
il presente inverno, supplirà ella.
Il
contaggio pare habbi cessato, sendo più di 8 giorni che non s'è ammalato né
morto alcuno.
Dio
per sua misericordia ci aggiuti e diffendi da queste streghe, quali di continuo
vanno minacciando chi le cerca et vole male.
Mostrai
al Signor Marchese et Podestà la lettera del sig. Cancelliere, perché non si innovasse
cosa alcuna circa le essecutioni, né sì qui hanno havuto la sentenza, se ben
s'aspetta di giorno in giorno, et il sig. Marchese vorria levarsi di briga,
tuttavia si starà. Attendo dalla S. Congregatione li ordini et aviso, così m'ha
promesso. Il Podestà è quello che va solicitando, et informa male il
Procuratore secolare.
S'hanno
nuove di guerra e si teme contro Genoesi.
S'è
fatto la nomina dalli Disciplinanti del suo Capellano, et è nominato Prete Giò.
Giuseppe Boffa, cugino del morto, che sin qui ha servito un Cavaliere milanese,
giovine virtuoso che verrà per l'investitura.
Faccio
a V.S. Ill.ma riverenza
Di
Spigno li 21 ottobre 1631
Di
V.S. Ill.ma et Rev.ma Hum.mo Serv.re
Giò.
Verruta
Lett.
14. 31 gennaio 1632.
Lettera
della S. Congregazione del Santo Offizio al Vescovo di Savona.
Ill.stre
e Rev.do come fratello
L'informatione
mandata a V.S. dal suo Vicario foraneo di Spigno circa le pretese streghe colà
carcerate è molto difettosa ed dinota che il processo contenghi una moltitudine
di nullità non solo perché sono state esaminate, per quanto si raccoglie,
confusamente, ma ancora perché non consta del corpo di delitto alcuno, e non di
meno alcune di loro sono state tormentate eccessivamente per due hore e più di
horologio, et essendo però questa materia molto fallace et grave, questi eminentissimi miei superiori non vogliono per
hora venire a risoluzione alcuna, ma hanno ordinato che io scriva a V.S. che
procuri di far venire le carcerate o costì o in qualche luogo vicino a lei,
dove occorrendo possa per se stesso o per mezzo del P. Inquisitore ridurre il
processo in stato di speditione, sendo necessario che, fuor del luogo dove sono
state gravate, di nuovo ex integro si sentano senza suggerirle cosa alcuna, ma solo
interrogarle se sappiano la causa della loro carcerazione, e si devono lasciar
dire da sé, perché apparischino le contrarietà e variationi de gli esami.
Dunque procurerà V.S. che quanto prima si trasportino o costì o in luogo
vicino, et fra tanto ordini colà che non si proceda a carcerare altre in questa
causa, che in fine di essa ella vedrà che non vi sarà fondamento, come si può
credere da quello che si vede dal deminuto et informativo sommario. Quando
siano giunte costà, ne dia ella avviso qui et al P. Inquisitore per ricevere
direttione del modo di proseguire la causa, che è quanto mi occorre.
Et
il Signor Iddio la prosperi sempre e conservi.
Di
Roma l'ultimo di gennaro 1632
Come
fratello il Card. di S. Onofrio
(A
tergo: All'Ill.stre e R.mo come fratello Mons. il Vescovo di Savona).
Lett.
15. 3 febbraio 1631.
Lettera
dell'arciprete di Spigno al vicario generale di Savona.([132])
Molto
Ill.stre e molto Rev.do Signor mio sig. osservantissimo.
Dal
Procuratore Fiscale Secolare è stata portata l'inclusa espositione concernente
il negotio delle streghe, la copia della quale mando a V.S. acciò resti servita
darne parte a Mons. Ill.mo (il Vescovo dì Savona?) per il rimedio, et havrei
scrittone a Mons.re quando havessi havuto nuova del suo ritorno da Genoa.
Supplico pertanto V.S. a favorirme d'una riga come avrò a governarmi.
Circa
l'altro particolare, per le monache, a compimento ho scritto con altra mia et aspetterò
risposta.
Intanto
a V.S. faccio riverenza.
Di
Spigno li 3 febbraio 1632
Di
V.S. molto Ill .stre et molto R.o Devotissimo servitore
Giò.
Verruta Arcipr.te
Lett.
16. 12 febbraio 1632.
Lettera
del padre inquisitore di Genova al Vescovo di Savona.
Ill.mo
et Rev.mo Sig.re Padrone mio colendissimo,
Per
questo ordinario ricevo risposta dalla Sacra Congregatione in materia di quelle
streghe di Spigno, che consiste in questo: che V.S. Ill.ma et Rev.ma procuri
che le dette donne siano condotte o in codesta città, o in altro luogo sicuro,
per doverle nuovamente essaminare, per supplire a molti mancamenti che si sono
commessi nella fabbricazione del processo. Io so che per questo medesimo
ordinario V.S. Ill.ma et Rev.ma avrà parimenti ricevuto aviso di questo dalla
S. Congregatìone per quello che sono avvisato, però volendo adempire la mente
della Sacra Congregatione quando le dette donne saranno ridotte in luogo ove possino
essere riesaminare si compiacerà avvisarmi, che procurerò assistervi in persona
o che manderò il mio Vicario.
Intanto
sarà bene che V.S. Ill.ma e Rev. ma avvisi questo Marchese che non eseguisca cosa
alcuna se prima il S. Ufficio non ha fatto la parte sua, acciò non incorresse
nelle censure, come fece già un commissario di Triora.
Intanto
bacio le mani a V.S. Ill.ma e Rev.ma offerendomi prontissimo ad ogni suo cenno.
Genova,
li 12 febbraio 1632
Di
V.S. Ill.ma e Rev.ma aff.mo ser.re
f.
Pietro Martire Ricciareli Inquisitore
Lett.
17. 17 febbraio 1632.
Minuta
di lettera del cancelliere del Vescovo di Savona all'arciprete di Spigno.
Lettera
scritta al signor arciprete di Spigno Vicario Foraneo.
Molto
Reverendo Signore,
di
ordine di Mon.r Ill.mo sarà contento di intimare al S. Podestà e altri a qualli
spetta, che in modo alcuno non faccino sentenza né essecutione contra quelle
donne o huomini imputati o vero processati costì, li quali pretendevano esser
incorsi in materia di sortilegi o streghe, e de' quali deste già avizo a Sua
Signoria Ill.ma; e ciò sotto le pene e censure de' Sacri Canoni et altre ad
arbitrio di Sua Sig.ria Illustrissima, avizando a farlo subito, stante
sollevatione, che per tal conto si aspetta avizo dalla Sacra Congregatione,
alla quale si è scritto.
Di
più, di ordine di Sua Signoria Ill.ma, faccia (ri)scodere dalli legati fatti
dal r. Albera scuti 125, nelli quali è stato condenato, come dalli atti, cioè cento
di condanna e 25 scutti di spese, delle quali spese li riserva alla mensa
episcopale ecc. Si voliono, di più, informationi della fuga del rev. p. Montalto
([133]), e le
trasmetterà convenientemente etc. Farà, di più, diligenza per ritrovare un
prete per la chiesa di Turpino e più se lo avizerà.
Dovrà
colligere li fructi della Capella o Capelle vacanti per le mani del rev.do
Ricco e del rev.do Bexa.
Savona,
il dì 17 febbraio 1632
Bartolomeo
Conrado Cancelliere
Lett.
18. 21 febbraio 1632.
Il
vicario foraneo di Spigno, a nome del Vescovo intima al procuratore fiscale di
Spigno e a quanti altri in causa di sospendere la sentenza, e il processo
contro gli imputati. Segue, in data 22 febbraio,
la relazione di notifica.
Ioannes
Verruta, Archipresbiter ecclesiae parrochialis S. Ambrosii Spigni et Vicarius Foraneus
citra iugum pro Ill.mo et rev.mo D.D. Episcopo Saonensi.
lnsequendo
ordinem dicti Ill.mi et Rev.mi Domini Episcopi nobis transmissum, ut ex familiaribus
d. Cancellarii Bartholomaei Conradi, Curiae Episcopalis Saonensi, datis sub die
17 februarii currentis anni 1632, intitulatis: “M.R. Signor”, incipientibus: “d'ordine
di Mons. Ill.mo” subscriptis: “ Bartholomeus Conradus Cancellarius”, a tergo: “Al
M.R. Signor Giò. Verruta, Vicario Foraneo et Arciprette in Spigno”, tenore praesentium
nottificamus et intimamus Magnifico D.o Procuratori et aliis quibuscumque
spectat, ne quoquo modo sententiam faciant nec exequant in materia sortilegii
aut maleficiorum, de quibus in actis, ad quae etc., sub poenis et censuris
Sacrorum Canonum et aliis arbitrariis dicti Ill. et Rev. D. Episcopi. In quarum
etc.
Datum Spigni, die 21 februarii 1632
1632, die 22 februarii
Georgius dc Serrato, nuncius Curiae etc.,
retulit se hodie praedicta omnia notificasse et inthimasse M. Magnifico D.
Hieronimo Bocciello, Procuratori Spigni, personaliter reperto, et per copiam
ostensam et demissam in manibus dicti D. Procuratoris et fecisse in omnibus
etc. Et ita etc., ordinatione
supradicti lllustris et admodum rev.di Domini Vicarii Foranei.
(S.T.) Henricus Boffa, Notarius et
Cancellarius etc.
Lett.
19. 29 febbraio 1632.
Lettera
del marchese di Spigno al Vescovo di Savona.
V.S.
Ill.ma può esser certa che con particolar gusto ricevo li suoi comandi, così
nel particolare delli Padri di S. Domenico subito feci alla presenza del
maestro di casa di V.S. Ill.ma chiamar li sindici di questo loco acciò dessero
pronta soddisfazione, il che non seguendo bonamente, le ho offerto ogni altro
miglior mezzo che si deve per la giustizia, il simile contro li altri
particolari che devono, il che havrà effetto sempre che detto maestro di casa o
altro lor procuratore lo richiedessero come più ampiamente mi dice il nostro
signor Arciprete havcr scritto a V.S.; in questo particolare non ho altro che
agiungere.
In
quello delle streghe che si trovavano detenute in queste carceri, mi spiace che
per esempio et per timore all'avenire non sii potuto seguire qualche rigore
aparente, già che per la longhezza et dilatatione sono tutte morte, et con
haver finito avanti hieri di passar la barca di Caronte ci hanno levato a tutti
questo impaccio come detto Signor Arciprete le havrà avisato.
Mi
viene fata instanza di contentarmi che sii rimesso qua il rev.do Curto: io le
ho risposto che V.S. è il padrone de religiosi et che perciò prima seco hanno
da compire et riconoscerlo superiore con quella sottomissione dovuta et che
poi, per quello (che) tocca a mio padre et a me, sempre che passino con la
dovuta riverenza verso V.S. Ill.ma, non vi sarà che dire, come ho significato a
detto signor Arciprete per meglio negotiare il servizio di V.S. Ill.ma, che poi
voglio suplicare di aquietarsi come bon partire mediante che compisci al suo debito
et si colochi a servire una di queste chiese, il che sarà scarico di V.S. et
salute delle amme.
V.S.
scusi la libertà con che le scrivo tutto a buon fine, et inanimito dalla
servitù che le professo, mentre per fine me le raccordo in gratia et da Dio le
supplico ogni maggior grandezza, baciandole mille volte le mani, così fa mia
madre.
Da
Spigno 29 febbraio 1632
Di
V.S. Ill.ma servitore aff.mo
d.
Alfonso Asinari Carretto
Lett.
20. 2 marzo 1632.
Minuta
di lettera del Vescovo di Savona al padre inquisitore di Genova.
M.to
Rev. Padre,
Ho
differito la risposta alla sua de' 12 passato per dargli risposta compiuta
della diligenza nuovamente fatta, qual è che havendo scritto et al Signor
Marchese che non procedesse contro le streghe et al mio Vicario Foraneo che
inhibisse al Podestà, l'inibizione fu fatta in tempo che due erano ancor vive,
ma con la lettera del Signor Marchese de 29 passato ricevo avviso come tutte
sono morte, che tronca a noi l'occasione di cercar più oltre, eccetto se a V. P.
Molto Reverenda occorrerà nuovo pensiero, che mi sarà caro l'aviso. Da Roma io
non hebbi altrimenti lettera alcuna e perciò io non ho occasione di replicar altro,
mentre la morte il tutto scioglie,
et a
V.P. bacio le mani e prego ogni felicità.
Savona
il dì 2 marzo 1632.
di
V.P.M.R.
come
servitore aff.mo
Francesco
Maria, Vescovo di Savona
Lett.
21. 11 marzo 1632.
Lettera
dell'arciprete di Spigno al Vescovo di Savona.
Ill.mo
et Rev.mo sig. mio e padron sempre colendissimo,
La
settimana passata venni alli rastrelli di Casa di Ferrero per trattar col sig.
Commissario Delfino per l'errore di una mina e mezza di grano tra quello delle
monache et quello che p. Nicolò mandò a V.S. Ill.ma, come per altri negozi, il
che all'avenire mi servirà per norma.
Al
Rev. Curto ho detto il tutto.
Mando
li testimoni per la fuga del curato di Montaldo, non havendo potuto più 'presto
per colpa di messer Enrico Cancelliere, giovandomi poco il sollecitarlo altre volte.
Non mi sono scordato altrimenti delli ordini lasciati al rastrello come V.S. Ill.ma
mi scrive, stante che parmi haver esseguito fuori la causa del Curto, e capelle
vacanti, nelle quali non si può hora recuperar cos'alcuna, et in quella del
Rossario il Signor Marchese mi risponde far servire, né voler ch'io me ne
ingerisca in modo alcuno, et quella de Disciplinanti li redditi sono pendenti.
Per
il stupro ([134])
il padre del giovine mi darà due doppie hora, et per l'altre due s'obligherà all'agosto
pagar tanto grano se così V.S. Ill.ma ordinerà, e veramente è povero, né si può
far essecutione solo che in campi.
Per
li pretti di Piana e Turpino qui non è possibile trovarne fuori di quel frate
per Piana che si chiama fra Silverio dalla Colla di S. Remo. Li padri di S.
Domenico saranno pagati et il maestro di casa ha li denari né per hora occorre
di tornar al rastrello per portarli io. Circa gli interessi di V.S. Ill.ma et
in particolare per conto del Vallei, egli vuol sodisfare, ma dice che il
maestro di casa gli leva un'annata, et si lamenta assai, tuttavia il Podestà ha
concesso un capiatur ([135]), et
venendo su li fini seguirà.
Per
Piana detto maestro di casa tratta lui, et per parlar chiaro, dice
pubblicamente voler mentre sta di qua
lui, far li fatti né ha charo m'ingerischi in cos'alcuna, che però come dissi in
voce a V.S. IIl.ma non ho bisogno far duelli tutto il giorno; Turpino sta così,
né si trova chi vi voglia attendere, per non esserci gente in quelle parti, et
dicono non voler quei pochi rimasti haver a far com me scritture per non
intrarvi come con li Baroti, a quali haveno affinato detti beni con l'istessi
patti (che) havevano li Brignoni, che non fu poco in questi tempi si penuriosi
di agricoltori et calamitosi, sicuro ch'era a utile della Mensa, con tutto ciò
il maestro di casa volse romper l'instrumento et far a suo capriccio, mai
pratico del paese.
Menasco
similmente resta così, né si trova affittar quei beni a quel prezzo o sia
reddito, per esser seccati gli alberi di castagna, così ancor seguito in li
castagneti del Signor Marchese: quando è tempo di augmentare è tempo, e quando perdere,
bisogna haver patienza, ma il maestro di casa non si fida di me, pensando e
credendo differentemente, e quello non dovria mai, e già dissi che messer
Enrigo non puoi accomodarsi al suo humore, e novamente mi ha detto (che) lo
recordi a V.S. Ill .ma, alla quale viverò per sempre fedelissimo servitore e suddito
in tutte le cose, ma dove non posso et mi è opposto, la supplico ad iscusarme.
Ho
baciato le mani alla Signora Marchesa et Signor Marchese, che m'hanno ordinato li
rendi li duplicati baciamani.
Non
manco d'avisar come il sig. Podestà piglia denari dalli beni delle streghe morte
([136]), et una
incolpata eh' era in carcer l'hanno lasciata andar a far i fatti suoi.
Se
m'ordinerà (che) pigli quelle 2 doppie per il stupro, le farò risponder costì
dal Sig. Vicario di V.S. Ill.ma, alla quale per fine faccio humilmente
riverenza.
Di
Spigno li 11 marzo 1632.
Di
V.S. Ill.ma et Rev.ma Servit.re e suddito Humilissimo
Giò.
Verruta Arcìp.te
Lett.
22. 5 aprile1632.
Lettera
dell'arciprete di Spigno al Vescovo di Savona.
Ill.mo
et Rev.mo signor mio padron colendissimo
Ho
ricevuto il plico con la dellegazione di
V.S. Ill.ma in me fatta attorno alla causa di Lovesio ([137]): In
conformità ho fatto subito chiamar quei huomini per seco trattar et informarmi del
tutto, ma (per) le grandi aque et il cattivo tempo seguito sin qui non sono
comparsi; ho replicato hoggi e verranno et sentirli si provederà in la miglior
forma (che) si converrà, et di tutto darò parte a V.S. Ill.ma.
Circa
le streghe qui morte, già ho scritto a V.S. quanto è seguito, et di nuovo
informatomi replico che il Podestà si è acordato con tutte, con chi in 40
scuti, con chi in 50, con chi in 60 e più e meno: così acordati tra le parti e
lui, senza mai haver detto cosa alcuna, havendo noi solo perduto il tempo di
tutta l'estate. Vogliono così, et durum est contra stimulum calcitrare.
Una donna incolpata et statta in prigione 3 mesi l'hanno lasciata andar a far i
fatti suoi: quando mi sono opposto, li messi della chiesa sono andati in
prigione sotto pretesti indiretti et io malissimamente visto e perseguitato.
Conviene, dopo aperti li passi ([138]), se
li prenda rimedio, poichè non trovo quasi più chi voglia servirmi da Cancelliere
o Messo. Il processo fabricato nella causa delle streghe è in mano d'un notaio,
che darà prontamente se sarà richiesto ([139]).
Vallei
un giorno darà nelle mani et si farà arrestare, havendo licentia del Podestà.
Per
Menasco converrà moderare, ma il maestro di casa non compare, qual mi ha detto non
facci cosa senza sua presenza.
A
Turpino non trovo chi v'attenda, et sono alla vita a una persona di
Mal(vicino?) poiché a Turpino non v'è più gente per la contagione.
Pensavo
che il Curto attendesse alla capella de' Disciplinanti, ma inclina a quella
(che) vuol fondare il Signor Cavaliere, che sporgerà memoriale a V.S. Ill.ma,
alla quale la Signora Marchesa bacia le mani con l'istesso signor Cavaliere, et
io per me li faccio humilissima riverenza.
Di
Spigno lì 5 aprile 1632
Di
V.S. Ill.ma et Rev.ma devotissimo servitore
Giò.
Verruta
Lett.
23. 23 aprile 1632.
Lettera
dell'arciprete di Spigno al Vescovo di Savona.
Ill.mo
et Rev.mo Signor mio Colendissimo,
Aspettiamo
dimani quei di Loesio con la rellatione della seconda inibitione (fatta) al Sicco
et seguiteremo appresso prout iuris etc.; circa li Signori di Brovia et
Ponti farò l'inibizione in bona forma come anche alli particolari in non
doversi rispondere cosa alcuna. Mi spiace solo che il Sicho non possiede né in
Piana né in Loesio, et conforme V.S. Ill.ma avisa, faremo noi la causa contro
quelle streghe ([140]).
Habbiamo
misurato le robbe dell' Abbatia in stara 72 in tutto e procurerò far il tutto in
farne fuori, se ben memoria mia mai vidi statto così poca richiesta in queste
bande. Al sig. Podestà ho risposto quanto V.S. Ill.ma scrive circa suo figlio,
et tuttavia vorrà esser favorito per gli interstizi (?) stante la notoria
necessità della Chiesa et far la spesa necessaria senza haver causa di
esprimerla nella nomina di una di
quelle capelle, stante lo fa, acciò questi huomini non li rinfaccino
questo benef(icio?), et farà la spesa
prontamente.
Per
la benedittione da Roma hanno a charo saper quanto vi vorrà.
Alla
signora Marchesa ho fatto a compimento tutto (ciò che) V.S. Ill.ma m'ha
ordinato, et nuovamente se le ricorda serva et in gratia.
Il
signor Cavaliere m'ha detto che in nome suo mandi il qui inchiuso memoriale per
la sua Capella, con supplicarla vogli favorirlo del Decreto.
Non
si tratta per queste bande cosa di rilievo per conto della guerra, solo che da
Milano s'ha nuova per quella gente va verso Casale[ .. .]. Li puochi francesi
ch'erano in Acqui e Ponzone si sono partiti.
Ho
fatto chiamar per dimani li sindici di Piana ed il frate ch'anderà alla casa.
Supplico
V.S. Ill.ma per quanto posso a darmi nuovo avviso come havrò a governarmi con
questo podestà per le streghe morte, temendo assai che i Signori mi faranno
qualche burla, et sono sicuro sarò perseguitato, io o mia casa, conoscendo
l'humor loro: che però la risupplico se sii possibile trovar strada per la
quale io puossi caminar con sodisfazionc di tutti.
Non
ho voluto per ora al Podestà dir altro per questo rispetto, quia cognosco nomine.
Resto
e con ogni humiltà a V.S. Ill.ma faccio riverenza
Di
Spigno lì 23 aprile 1632.
Di
V.S. III.ma et Rev.ma Humilissimo servitore e suddito
Giò.
Verruta arcip.te
Lett.
24. 3 maggio 1632
Lettera
del padre inquisitore di Genova al Vescovo di Savona.
Ill.mo
et Rev.mo signore Padron mio Colendissimo,
La
sacra Congregatione del Santo Officio di Roma con sua lettera mi scrive che
debba intendermi con V.S. Ill.ma nel particolare di quelle streghe che sono
state fatte morire a Spigno da gli officiali del Signor Marchese di detto luogo
e mi impone che mi informi a pieno da V.S. Ill.ma di questo fatto, et che
procuri havere la copia del processo, ordinandomi di doverla mandare subito a
Roma.
Pertanto la prego avvisarmi minutamente se dette streghe sono morte da se
stesse naturalmente o vero di morte violenta per ordine de sudetti officiali, e
se tutte o parte di esse sono state fatte morire innanzi o dopo l'inhibitione
fatta al Podestà a nome di V.S. Ill.ma et Rev.ma, et insomma tutto quello (che)
è successo nella fabbricazione, prosecutione et terminatione del processo, del
quale mi farà gratia mandarmene qua una copia per extensum, conforme all'ordine
della Sacra Congregatione, per mandarla a Roma come mi viene comandato.
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Lettera del 3 maggio 1632 |
E
intanto me le ricordo servitore di cuore e e bacio affettuosamente le mani.
Genova,
lì 3 maggio 1632
fra'
Pietro Martire, Inquisitore
Lett.
25. 10 maggio 1632.
Minuta
di lettera del cancelliere del Vescovo di Savona all'arciprete di Spigno.
Al
molto Rev.do Arc.te foraneo in Spigno
Molto
Rev.do Sig.
Compie
in ogni modo aver copia autentica dcl processo di quelle streghe che sono state
fatte morire a Spigno dagli officiali del Signor marchese, et insieme aviso se
dette streghe sono morte da se stesse naturalmente o vero di morte violenta et
per ordine di chi, e se sono state fatte morire inanti l'inhibitione che fu
fatta sotto li 22 febraro passato, et insomma di tutto quanto è successo nella
fabricatione, prosecutione e terminatione del processo, del quale, come del
seguitto, ne manderete copia quanto prima e con più prestezza sarà possibile,
acciò noi possiamo fare quel tanto che ci spetta intorno detta causa, conforme
alli ordini si staranno dunque aspettando in ogni modo.
Savona
il dì 10 maggio 1632
copia
Bartolomeo Conrado Cancelliere etc.
Lett.
26. 20 giugno 1632.
Lettera
dell'arciprete di Spigno al Vescovo di Savona.
Ill.mo
et Rev.mo Signor mio Padron sempre colendissimo.
Ho,
con altre mie, già datto raguaglio a V.S. Ill.ma di quanto segue attorno la
causa di Loesio, si ben adesso il Sico ([141])
alliga molte cose et si serve del signor Rizzo come Auditore del Signor Marchese
di Garresio, supponendo haver potuto menare quei prigioni a Cagna per maggior
sicurezza, et come V.S. Ill.ma vedrà dalle oppositioni che il Cancelliere
manderà, dico messer Enrigo, col processo fabbricato in questa causa.
Il
Cavaliere nuovamente prega V.S. Ill.ma restar servita far decreto alla supplica
sporta a dì passati per conto della Capella (che) desidera eriger nella mia
chiesa in honor o sii sotto il titolo della Madonna Santissima dcl Carmine,
acciò da Roma anche puossi ottener dal Generale dei Carmelitani licenza di
instituir la Compagnia, sendo così disposto di fare.
Al
Sig. Cancelliere a rastrelli di Ferrero dissi che per conto delle streghe morte
si saria mandato un sommario amplissimo per esser il processo looghissimo et di
copiarlo il Notaro ricusa pretendendo la mercede prima: et non sarà poco haver
simile sommario stante che ogni giorno li sono alla vita e pure né messer
Enrico né suo fratello mi sente, sendo disgustati per li gravi affari (che)
hanno nell'abbazia.
Io
no trovo chi voglia attendere a Turpino, et è notoria la diligenza (che) ho
fatto et vado facendo, e veramente in quei contorni non vi sono più genti, et
vano gerbide altre possessioni di rilievo per questo difetto.
Il
maestro di casa dovea far a mio modo quando obbligai li Barosi secondo li patti
delli Brignoni ([142]),
perché sapevo quello (che) vi poteva essere, ma a dirla a V.S. Ill.ma vorria
esso esser l'honorato et ch'io facessi le fatiche: può egli scrivere quello
(che) vuole di me, ma V.S. Ill.ma non gli creda, ch'io sempre procurai e
procurerò il servitio et utile della Mensa (vescovile).
Già
scrissi che il maestro di casa non volea ch'io in cosa alcuna dell'Abbazia mi
ingerissi mentre lui stava in queste bande, havendomi già fatto dire e
significare da molti, al che acquetandomi, supponendo esser tale la mente di
V.S. Ill.ma, non ho questi due anni (ri)scosso i fitti, né impeditomi d'altro,
havendo lui così voluto et comandato.
Messer
Enrico non vuole più andar avanti nell'Abbazia, havendomi detto che n'avvisi V.S.
Ill.ma, dicendo haverli danno più di 500 scudi, che non può essere: conviene
anticipare il tempo per la nuova locazione, V.S. Ill.ma comandi quello (che) si
deve fare.
A
Piana il frate va, però sta sospeso mentre sta ad havere la patente da V.S. Ill.ma
di poter essercitare la cura, con ordine di darli qualche denaro a conto dcl
salario.
Valici
padre e figlio m'hanno promesso voler dare soddisfazione l'agosto prossimo di quanto
saranno legittimamente obbligati, e tuttavia capitando il figlio nella giurisdizione
del signor Marchese si farà detenere per sospetto.
La
raccolta dimostra assai bene, ma li grani saranno brutti per l'acque venute la
primavera, li marzaschi particolarmente, li lemeti (?)in quantità con fave.
Resto
et a V.S. lll.ma faccio humilmente riverenza. Il Signor Marchese et sig. Cavaliere li baciano le mani.
Di
Spigno lì 20 giugno 1632
Di
V.S. Ill.ma humilissimo servitore
Giò.
Verruta
Li
sindici manderanno li 4 scudi d'oro per la Benedizione papale questa settimana.
Lett.
27. 21 aprile 1632.
Minuta
della pratica di dispensa per il matrimonio di Bartolomeo Rodano di Rocchetta di
Spigno e Agostina Traversa.
Essendoci,
da Sua Santità Nostro Signore, statta commessa l'essecutione d'una dispensa matrimoniale
tra Bartolomeo Rodano ([143]) et
Agostina Traversa della Rocchetta di Spigno, habbiamo risoluto, stante
l'impedimento del contaggio, commettere a V.S., come in vigor delli presenti li
commettiamo, l'essame de' testimoni, quali per verità doveranno deponere sopra la
parentela in quarto grado di affinità che si dice essere tra loro, distinguendo
grado per grado; di più, che detta Agostina non può trovare marito di sua pari
conditione con chi possa maritarsi in detto loco per l'angustia d'esso; item
che detta Agostina non è stata rapita: quali cose tutte prego V.S. far
ricevere, con esatta diligenza, per mano di pubblico notaro e mandarcele, acciò
possiamo proceder alla speditione di detta matrimoniale, et a V.S. preghiamo felicità.
Savona,
li 21 aprile 1632.
Lett.
28. 14 febbraio 1633.
Minuta
di lettera del Vescovo di Savona all'arciprete di Spigno.
Ad
aures (nostras pervenit) qualmente il rev.do Prete Benedetto Bocchiello scrive
in li atti della Corte Secolare, tanto nelle cause criminali come nelle civili,
e, principalmente, si dice haver scritto nella Causa delle Streghe et anco in
atto di tortura. Qui prefatus Rev.rmus Dominus, eisumodi producta ut notoria et
vera, mandavit per multum reverendum dominum Ioannem Verrutam, Vicarium Foraneum,
sumi secretas et reales informationes, sub interminatione Divini Iudicii, et
illas ad nos trasmitti, pro quibus, ad cautellam etc., dantes opportunas
facultatcs etc.
Lett.
29. 16 febbraio 1633.
Minuta
di lettera del Vescovo di Savona all'arciprete di Spigno.
1633,
die 16 februarii.
Ad
aures (nostras pervenit) etc. come qualmente, in tempo che l'arciprete Nicolò
Spinola fu, di ordine del Podestà di Spigno, incarcerato ([144]) per
Giò. Bonifacino, ministro secolare, Giorgio Del Prato, ministro della Corte
ecclesiastica, et trattenutovi tre giorni; et di più detto Signor Podestà li
fece spogliare la casa di grano e di bronzi; come anche, per ordine
dell'istesso Podestà, ha fatto incarcerare
e tenere carcerato un giorno, per Luisio Crotia, Vincenzo Boehiello, fiscarolo
della Chiesa, etc.
Qui
prefatus Rev.mus Dominus, eiusmodi producta ut notoria et vera, mandavit per multum
Reverendum Dominum d. Ioannem Verrutam, Vicarium Foraneum, sumi secretas et reales
informationes sub interminatione Divini Iudicii et illas ad nos trasmitti. Pro
quibus, ad cautellam, datur opportunas facultates etc.
Leonello Oliveri
Propr.
lett. riserv.
Riprod. vietat.
Riprod. vietat.
Ruderi del castello di Spigno ( da http://web.mclink.it/MH0688/Fuoriclasse/mappa.htm) |
[1] ) Spigno Monferrato, in provincia di Alessandria.
[2] ) E’ doveroso in questa sede un particolare
ringraziamento all'archivista don Leonardo Botta che con squisita cortesia ci
ha messo a disposizione tutto il materiale, facilitandocene in ogni modo la
ricerca e lo studio e offrendo un esempio di collaborazione e di disponibilità
veramente encomiabile.
[6] ) Nei processi per stregoneria di norma non è facile
riscontrare nelle dichiarazioni dei testi, anche in quelli appartenenti allo
stesso ambiente sociale, una solidarietà verso gli imputati: né ciò deve
stupire, visto che spesso simili processi erano originati proprio dai sospetti
e dalle accuse della gente contro le “streghe” in una sorta di ottuso - quanto
spiegabile -istinto di autoconservazione, tenuto conto che esse erano
individuate come causa di carestie o epidemie, e traevano talora origine o
alimento da vecchi asti e litigi di cortile e di borgata, particolarmente
frequenti e pertinaci nei piccoli centri di campagna. K. THOMAS, Religion and tbe
declin of magic, London 1971, trad. it. Problemi sociali, conflitti individuali e stregoneria, in M. ROMANELLO, La stregoneria in Europa,
Bologna 1978, p. 230, sottolinea come le tensioni che diedero origine alla
caccia alle streghe a livello popolare difficilmente nascevano tra molto ricchi
e molto poveri, bensì “tra gente abbastanza povera e gente poverissima”.
[7] ) In realtà il colloquio in casa Fornarini cui allude
Segurano era avvenuto precedentemente all'arresto di Margherita: infatti ad
esso fa cenno la testimonianza di Maria Fornarino, rilasciata prima
dell'incarcerazione della donna. Segurano Suliano doveva aver chiacchierato,
insieme agli altri, circa le voci che circolavano su Margherita, e non sul suo
arresto: accortamente, però, forse nel generoso quanto inutile tentativo di
aiutarla, forse per paura di essere coinvolto, non vuol far sapere ai giudici,
che per altro ne erano già ampiamente al corrente, che la gente del posto
considerava già da tempo Margherita una « masca », e quindi riferisce
solo di commenti circa il suo arresto, commenti che sarebbero stati ovvi in
qualsiasi posto e che non avrebbero potuto essere visti come una ammissione che
chiacchiere su Margherita circolassero comunemente. Comunque i nostri avveduti
giudici non si accorsero dell'errore cui era caduto Seguriano.
[8] ) V. per es. EYMERICH - PEGNA, Directorium
inquisitorum, Romae 1587,pars tertia, Modus interogandi reum accusatum.
[9] ) “L'inquisitore non deve mai dire che cosa vuole
sapere e per quale motivo ]'imputato è stato invitato a presentarsi o perché è
stato accusato o di che cosa è imputato. ( ... ) L'inquisito deve indovinarlo
da solo, deducendolo dall'esame della propria vita precedente, dalle proprie
idee, dall'analisi dei propri atti pregressi e confessarlo" (1. MEREU,
Storia dell'intolleranza in Europa, Milano 1988, p. 206): in poche parole
si tratta di far sentire in colpa l'imputato. Il tutto ricorda molto
l'atmosfera di certe pagine di Kafka.
[10] ) Informarsi sulle abitudini morali delle imputate
era la prassi degli inquisitori dell'epoca: “Se poi l'imputata è in stato di
concubinato o di adulterio, sebbene tali circostanze non siano pertinenti agli
scopi dell'indagine, se ne tragga tuttavia un sospetto più fondato che nelle
denunzie prestate contro persone probe e oneste”: così almeno suggeriva il
“testo sacro” per ogni cacciatore di streghe, il Malleus Maleficarum di
Spranger e lnstitor (pars III, questio I ).
[11] ) Uno dei testi canonici utilizzati dagli inquisitori
nei processi per stregoneria, la De magorum daemonomania di J. Bodin,
stampato nel 1587, illustrando la tecnica degli interrogatori ricordava che (p.
371) l'inquirente doveva venire a conoscere “da quale paese veniva la strega
e se ha cambiato domicilio, poiché si riscontra d'ordinario che le streghe si
spostano di posto a posto” {v. anche F. TRONCARELLI, Le streghe,
Milano 1983, p. 111).
[13] ) “Non si dimentichi (il giudice) di rilevare, nel
processo, tutto quanto riguarda il modo di vestire: se si constata che le
streghe non fanno nessuna confessione bisogna farle cambiare abiti"
(I. Bodin, De
la demonomanie des sorciers, Parigi 1587, p. 375).
[14] ) R. MANDROU, Magistrati e streghe nella Francia del
'600, Bari 1971, pp. 625 sgg.
[15]) Si tratta di una malattia che colpisce i bovini, una
sorta di artrite reumatoide determinata dalla cattiva condizione delle stalle,
umide, fredde e malsane. Oggi è praticamente scomparsa, ma è ancora nota con
questo stesso nome ai vecchi contadini.
[16] ) Si deve tener presente che essa fu pronunziata da
Margherita in dialetto e fu quindi trascritta dal notaio in modo molto
approssimativo ma identificabile col dialetto ancor oggi parlato. Ecco il
testo:
”Cento e sapient senza gatta mat ment
Mi per una via san son andà,
entr ra Madona son scontrà,
andà voreivi.
Andè cent sapient,
a vorioma andè in cà di N.N. c'ha la giacia.
Tornè andrè, cent sapient, ch'la fa voto
di stè un ann e un dì senza mangè
d'aij e lentigie ».
La traduzione - altrettanto approssimativa! - potrebbe
essere così: « Cento sapienti (??). lo sono andata per una via, mi sono
imbattuta nella Madonna. Volevo andare. Andate, cento sapienti, dobbiamo andare
a casa di N.N. che ha il mal del ghiaccio (?).Tornate indietro, cento sapienti,
che ha fatto voto di stare un anno e un giorno senza mangiare aglio e lenticchie”
[17] ) Frase poco chiara. Forse vuol dire che prescriveva
al malato di offrire una libbra di olio alla lampada dcl SS. Sacramento della
Chiesa?
[18] ) Ecco il testo:
« Ch'ha fà li vermi è stà Giob,
se
n'ha fatti nove n'ba fatti trop,
nove an ott,
d 'an otto an sett,
d'an sett an sci,
d'an sei an cinq,
d'an cinq an quautr,
d'an quatr an trei,
d'an trei an doi,
d'an doi an un
»,
Traduzione: " Chi ha
provocato i vermi è stato Giob. Se ne ha fa tti nove ne ha fatti troppi. Da
nove a otto, da otto a sette, da sette a sei etc. etc.», A riprova del
collocarsi di queste formule “ magiche” in un filone le cui origini affondano
veramente nei secoli, riportiamo la formula recitata in francia (agli inizi del
IX secolo!) per curare l'analoga malattia (i vermi), riportata dal Polyptyque
de l'Abbaye de Saint-Germain-des-Prés (811-826) pubblicata da A. LONGNON, Le
Polyptyque etc., t. II, Soc. de l'Histoire de Paris, 1886-95, ripresentata poi
da E. Power, Vita nel medioevo, Torino 1966, p. 23: «Vieni fuori verme con nove
vermiciattoli, vieni dal midollo nell'osso, dall'osso nella carne, dalla carne
nella pelle, dalla pelle nella freccia. Così sia, Signore"· Come si vede
la struttura ripetitiva e scalare della formula parigina del IX sec. e di
quella langarola del XVII sono analoghe, come pure analogo è, alla fine della
formula, il richiamo alta religione cristiana tramite l'invocazione divina,
tipico esempio di sincretismo magico-religioso. Analogamente a riprova della
ostinata vitalità di simili formule possiamo notare che le filastrocche
ricordate dalla strega sono ancor oggi vitali, specie la seconda, in Val Bormida,
dove si trovano ancora persone anziane che le ricordano (e talora le usano
nelle stesse circostanze e con gli stessi scopi, anche se - almeno ora - senza
correre i rischi delle loro colleghe di una volta). Come ultima considerazione
pensiamo un attimo a cosa deve aver significato per questi guaritori
tramandarsi a memoria, dì generazione in generazione, in quei secoli non sempre
facili per loro, queste formule il cui uso poteva comportare processi e morte:
eppure sono arrivate sino a noi, affidate solo alla trasmissione orale!
[19] ) Francesco Maria Spinola (1593-1644), fu vescovo di
Savona dal 1624 all'anno della sua morte
[20] ) In realtà, come si è ricordato, le date di inizio e
di fine di ciascuna delle quattro fasi in cui abbiamo articolato gli anni della
prima metà del XVII sec. hanno più un valore indicativo che di rigorosa
delimitazione cronologica.
[21] ) Esattamente dal 1393, quando i feudatari
appartenenti alla famiglia Del Carretto avevano prestato giuramento di fedeltà
al Marchese monferrino per molte località della valle.
[22] ) Ciò era possibile tramite l' “opzione” che il
Monferrato aveva sui centri di Spigno (in mano agli Asinari/Del Carretto),
Cairo (in mano agli Scarampi), Carcare e l'alta Val Bormida (in mano ai Del
Carretto) in seguita al ricordato giuramento dei 1393. Occorre ricordare che
all'epoca la principale via di comunicazione verso il mare scendeva non su
Savona ma sul finalese tramite i valichi alle spalle di Altare, Bormida e
Calizzano
[23] ) Anche questa volta in verità il punto di partenza
fu solo un pretesto, il conflitto fra le due superpotenze dell'epoca (Francia e
Spagna) era divampato già da tempo ed esso coinvolse fatalmente, in uno o
nell'altro schieramento, tutti gli Stati europei.
[24] ) L'origine di questa complicata situazione è da
ricercarsi nel fatto che tutte queste località erano soggette a feudatari che
si trasmettevano il feudo suddividendolo fra i diversi aventi diritto, ognuno
dei quali diventava quindi “condomino”, cioè cosignore, di una quota del paese
proporzionata alla sua fetta di eredità. Ogni condomino poteva poi prestare
giuramento di fedeltà, per la sua parte di feudo, a Potenze diverse a seconda
delle diverse contingenze politiche. Il risultato era spesso un complicato
intreccio di infeudazioni e subinfeudazioni.
[25] ) G.B. Pio, Cronistoria
dei Comuni dell'antico Mandamento di Bozzolasco con cenni sulle Langhe,
Alba 1920, p. 124.
[26] ) Nel 1619 il vescovo di Acqui Camilla Beccio, alla
cui diocesi apparteneva parte del territorio valbormidese (Cagna, Lodisio, Brovida,
S. Giulia), così scrive: “empi militari rubarono in chiesa pissidi, calici
ed indumenti per celebrare. Ruppero tabernacoli, sconciarono immagini sacre
semine umano pollutionc, monti di pietà derubati, sacerdoti percossi, fonti
battesimali dissacrati. I soldati spogliavano e poi vendevano e venivano a loro
volta spogliati dai civili derubati" (V. SCAGLIONE, Contributo allo
studio della vita socio-religiosa della Langa Acquese dopo il concilio di
Trento, Cairo Montenotte 1985, p. 16).
[27] ) Fra i tanti esempi potremmo ricordare quello
testimoniato da una lettera, conservata nell'Archivio vescovile di Savona
(Vicariato di Spigno, 22/8/1622) indirizzata proprio da Spigno al vescovo di
Savona nell'agosto del 1622 che ricorda le scorrerie effettuate da una banda di
60 briganti nel territorio di Piana.
[28] ) E. ZUNINO, Cairo e le sue vicende nei secoli,
Cairo 1929.
[29] ) A. DELLA CHIESA, Descrizione del Piemonte,
Ms. Bibl. Real. p. 11 0.
30] ) Savona, arch. vescovile, pacco Spigno, lettera del
30/3/1628.
[31] ) Degli episodi relativi ad Altare e Roccavignale
abbiamo particolareggiati e gustosi resoconti lasciati da P. GIOFFREDO, Storia
delle Alpi Marittime, VI, Torino 1889, pp. 433 e sgg.
[32] ) Su questo episodio resta una drammatica descrizione
di A. F. DELLA CHIESA, Descrizione del Piemonte, Ms., Bibl. Reale, Torino che
ricorda come Bartomelino in giorno di festa avendo occupato l'oratorio dei
disciplinanti mentre si celebravano i Divini Uffizi, con l'aiuto de' suoi bravi
fece di quei meschini (gli osigliesi, non i bravi!) crudel macello"·
Su Bartomelino Pozzoverasco v. anche G.B. VERZELLINO, Delle Memorie
particolari e specialmente degli uomini illustri della città dì Savona ,
II, Savona, p. 248 e G. CASANOVA, La Liguria centro occidentale e
l'invasione franco-piemontese nel 1625, Genova 1963, pp. 30-38. Particolare
curioso, anche il nostro Bartomelino, come il più famoso «Conte del Sagrato”
sarebbe poi morto a Genova in fama di santità.
[33] ) Archivio vescovile di Savona, Vicariato di Spigno,
lettere del 3 e 24 gennaio 1631.
[34] ) ZUNINO, op. cit., p. 146. E il fatto che le
autorità spagnole si sentissero in dovere di assicurare che gli abitanti di
Cairo non avrebbero avuto nulla da temere dalla presenza di soldati inviati ”per
la difesa del loco” la dice lunga sul tipo di rapporto esistente fra
soldati e popolazione.
[35] ) Archivo Parrocchiale Carcare, Libro dei
battesimi 1625/1641.
[36] ) GHILINI, op. cit., p. 141.
[37] ) GHILlNl, op.
cit., pp. 252 sgg.
[38] ) Ancora nel 1637 i Sindaci di Rocchetta, Cairo,
Carretto e Brovida inviano collegialmente una supplica al commissario spagnolo di Alessandria, che
aveva chiesto proviggioni di cibo, in cui fanno presente la loro “intollerabile
povertà”. Nello stesso periodo a Giusvalla gli «Agenti della Comunità»
fanno un voto alla Vergine per “essere
liberati da una a lor dannosissima et fastidiosissima molestia che gli era
infesta da soldatesca francese et savoiarda accampata a Dego”. Per altri
particolari sulle conseguenze della guerra in Val Bormida v. ZUNINO, Cairo e
le sue vicende, cit., p. 139; V. S. DERAPALINO, Un collegio nelle Langhe,
Savona,1972, p. 98.
[39] ) I contadini di Brovida, Rocchena e Carretto devono,
per es., andare una volta alla settimana a Cairo durante tutta l'estate del
1623 per trasportare i bagagli delle truppe (Pio, op. cit., 127).
[40] ) Nel luglio del 1625 Spigno deve, per riportare un
esempio, fornire alle truppe spagnole “120 denari e 50 robiole al dì”
(Pio, op. cit., p. 128).
[41] ) Nel 1645 gli abitanti di Altare, Cairo e Millesimo
devono andare a svuotare il fossato del castello di Acqui e la paga (una
razione di pane e un boccale di vino al giorno) non era certo delle più
invitanti, senza pensare che nel frattempo i lavori della campagna dovevano
essere trascurati.
[42] ) F. ISOLA, Carcare e le Scuole Pie, Savona
1897, p. 80.
[43] ) 43 ZUNINO, op. cit., p. 149. A quegli anni
risale appunto l'istituzione, in molti paesi della Val Bormida, tra cui Carcare
e Cairo, dei "monti di pieta” gestiti dalla Chiesa, che distribuivano ai
contadini ridotti in miseria il grano necessario per le semine.
[44] ) Dal punto di vista prettamente medico l'epidemia di
peste che serpeggiò per tutto il mondo occidentale (ma anche in Africa e Asia)
dal VI sec. a.C. fino praticamente ai nostri giorni (morti di peste si ebbero a
Parigi ancora nei 1920!) era, ed è, una malattia degli animali,
specificatamente dei topi e delle pulci (nel caso specifico la xenopsylla
cheopis) loro parassite: da quest'ultime viene poi trasmessa all'uomo. I
traffici commerciali, soprattutto marittimi, furono il principale veicolo di
trasporto da un porto ad un altro, e spesso da un continente ad un altro, di
questa malattia di per sé tipica, come si è detto, degli animali. Essa però
trovava un catalizzatore in periodi di carestia e di indebolimento della
popolazione, che scatenava il divampare di esplosioni epidemiche con una
regolarità quasi ciclica.
[45] ) Arch. Parrocchiale, Liber defunctorum, ad
annum.
[46] ) Altare, Archivio Parrocchiale, Liber mortuorum
ab anno 1616 ad annum 1703.
[47] ) Nel 1604 Altare aveva 754 ab. divisi in 208
famiglie (cfr. G. G!ORCELLI, Le città, le terre ed i castelli del Monferrato
descritti nel 1604 da Evandro Baronino cancelliere del Senato di Casale, in
“Rivista di storia, arte, archeologia della provincia di Alessandria”, XIII,
1904, fasc. l5 pp. 61- 130, fase. 16 pp. 43-82, XIV, 1905, fase. 17 pp.
219-313.
[48] ) Altare, Archivio Parrocchiale, Liber
matrimoniorum 1616, Liber baptizatorum 1616-1703: per quanto
riguarda le nascite, in particolare, le conseguenze delle peste si trascinarono
per diversi anni e ancora nel 1633 furono 43, una decina in meno della media.
Il “Registro dei battesimi “ ricorda diversi casi di battesimi d'urgenza, nel
1631, a causa del pericolo "della contagione”.
[49] ) Archivio Parrocchiale, Liber mortuorum
1616-1703: 14 aprile “admodum reverendus dominus Albertus Olivetus Merli
occisus fuit”, 12 giugno ,”Iohannes Ambrosius occisus fuit”, 26
luglio “ Beneminus Curottus occisus fuit”.
[50] ) 52 decessi nel 1622, 74 nel '24, 65 nel 1678 (dati
dell'Archivio Parrocchiale).
[51] ) Arch. Parr., liber defunctorum: “nota
defunctorum presentis curiae anno contagi 1631 de quibus non potuit haberi
certa diei et mensis decessus et ideo huic separatim descripsi “.
[52] ) Pacco Battezzati, (dal vol. I al XI, 1556- 802), “Libro
battezzati 1625-1646”»,
[53] ) Tutte le testimonianze in nostro possesso
concordano nel rilevare il periodo estivo come quello in cui maggiori furono i decessi.
[54] )Arch. Parr., " Incipit liber matrimoniorum
infrascripto me sac. Barberi cessata lue” .
[55] ) La
relazione, opera di un Ufficiale dell' Armata napoleonica, è stata pubblicata
dall' A. in “Alta Val Bormida” (periodico della Comunità Montana Alta
val Bormida), XXV, 1984, n. 11, p. 3. Ma il dato appare dubbio.
[56] ) A Calizzano casi di peste si ebbero anche nell'
estate del 1628 allorché, tra luglio e agosto, morirono " di condizione
pestifera» Luigi Gorreto e i due figli di A. Vivaldo, mentre altri abitanti
vivono " accabanati”., cioè accampati, fuori del paese in quanto
"suspecti et confinati propter mortem eorum filiorum” (F. CICILIOT,
Val Bormida tra medioevo ed età moderna. Frammenti di storia economica,
sociale e culturale, in “Atti del I Convegno storico Valbormida e Riviera”,
Comunità Montana Alta Val Bormida, Millesimo 1985, p. 75.
[57] ) G. A. SILLA, Storia del Finale, II, Savona
1965, n. 218.
[58] ) “17 augusti: tempore pestis baptizata fuit Maria
filia d. Philipi et Angela iugalium de
Cremis (..) " die 24 augusti, tempore pestis, baptizatus fuit Bartholomeus
et Franciscus" (Annotazioni del parroco G. Panelli).
[59] ) “Liber baptizatorum 1621-1660 ". Nel
1604 Dego contava 717 ab. divisi in 166 famiglie (GIORCELLI, op. cit.,
222).
[60] ) Non è irrilevante questa precisazione secondo la
quale contro la peste a Spigno si prendevano le misure che si erano prese a
Milano: sappiamo infatti dalle lettere di d. Verruta che il Marchese di Spigno
era a Milano o ne era appena tornato. Là probabilmente aveva potuto assistere a
tutte quelle vicende legate alla peste e agli untori che il Manzoni descrisse
poi nelle sue opere. È possibile che il Marchese sia rimasto influenzato sia
dalla certezza che si aveva a Milano circa la propagazione della peste tramite
untori sia dai metodi lassù utilizzati per stroncare tale diffusione: e se non
si avevano incertezze ad usare i roghi in una grande città, perché stupirci se
qualcuno voleva accenderli anche in un piccolo villaggio di campagna?
[61] ) La mancanza di una guida spirituale che fosse di
conforto ai parrocchiani di Piana nell'infuriare in base alla quale nessun
sacerdote aveva il coraggio di recarsi nel paese desolato dalla peste preoccupa il Vescovo di Savona che pur
comprendendo l’umana debolezza in base alla quale nessun sacerdote aveva il
coraggio di recarsi nel paese desolato dalla peste, richiama il parroco di
Spigno alle proprie responsabilità: " Intendamo con nostro grave dolore
(scrive il Vescovo a d. Verruta il 25 giugno 1631) che la chiesa di Piana è
derelitta di Prete, che niuno vi ardisce entrare né usare di quclli paramenti
et che ancora vi sta il Santissimo senza lume. Compatimo assai alli tempi
presenti quali in parte scusano la nostra debolezza; è però vero che siamo
obligati far ogni nostro per riparare tanti inconvenienti, con gran danno delle
anime; e siamo restati assai che da lei, come nostro Vicario Foraneo a cui
spetta invigilare in casi massimamente importanti, non ne habbiamo ricevuto
aviso alcuno. Per tanto procurerete subito informarvi del fatto e rimediare
alla meglio che alla sua prudenza e conscieza stimerà opportuno( .. ) con
procurare qualche religioso che vagli assumersi quello carico di agiutare
quelle anime( .. ) e perché so che tutte quelle cose non si ponno fare senza
spese, mi contento che spendi del mio, tutto facendo sempre acciò si possa,
quanto umanamente si può, <aiutare> quelle povere anime a noi
affidate"· Nel 1604 Piana contava 450 ab. divisi in 98 famiglie
(GIORCELLI, op. cit., 222).
[62] ) È tradizione che anche per la morte del vescovo di
Acqui fossero state chiamate in causa streghe e untori. In realtà nell'Archivio
vescovile di quella città, uno fra i meglio ordinati fra quelli visitati per
realizzare questo lavoro, non c'è a
alcuna traccia di inchieste, e tanto meno di processi, che sarebbero state avviate dopo la morte del
prelato.
[63] ) Spigno, archivio parrocchiale, Liber
baptizatorum ab anno 1631 usque ad annum 1694, “Nota delli morti di
contaggio nella parrocchia di me arciprete Giò Verruta “: in realtà la nota
non esiste, i morti devono essere cercati qua e là sui registri, che danno
l'impressione, per quei giorni, di un grandissimo disordine e confusione, con
pagine saltate, annotazioni interrotte, mancanza di congruità (morti segnati
nel libro dei battesimi, anni saltati o interposti).
È evidente che gravi avvenimenti stavano turbando il
paese e l'arciprete: sono i giorni del processo!
[64] ) Savona, Archivio vescovile, Vicaria di Spigno,
lettera del 1633 senza data.
[65] ) Ibidem, lettera del 26/6/ 1631. Nel 1604 Giusvalla
contava 135 ab. divisi in 43 famiglie ( GIORCELLI, op. cit., 223).
[66] ) La comunità di Spigno aveva fatto voto di andare
processionalmente al santuario della Madonna di Cassine nell'alessandrino,
quella di Cairo alla Madonna del Santuario di Savona. A Merana la popolazione
aveva invece promesso di fare festa "in perpetuo tutti i sabati in
onore della Beata Vergine,. (Savona, Arch. vescovile, Vicariato di Spigno,
lettera dcl 8/10/1631 ). “Vedendo ora però esser impossibile l'osservanza
per esser poveri”, la Comunità si rivolge al Vescovo per essere sciolta
dall’ obbligo: la richiesta viene accolta “attenta notoria paupertate
hominum et considerantes simplicitatem predictorum ».
[67] ) “Habbiamo inteso che costì (a Spigno) è
stata fatta la Nizzarda (un tipo di ballo evidentemente proibito all'autorità ecclesiastica): recordandoli
la gravezza del delitto - è ìl vescovo che scrive al parroco dì Spigno - Vostra
Paternità li p otrà assolvere, imponendo ai penitenti quella penitenza che
stimerà convenirsi “ (Arch. vescovile di Savona, Vicariato di Spigno,
lettera del 12 marzo 1633).
[68] ) V. SCAGLIONE, op. cit., p. 20.
[69] ) Il dato è estrapolato dal numero di abitanti (500)
“apti ad comunionem”" cioè in età di ricevere i Sacramenti,
ricordato nella relazione della Visita pastorale di Mons. Pandasio del 1612.
Gli abitanti in età di ricevere i Sacramenti erano approssimativamente, nella
zona e nell'epoca, i due terzi del totale: quando è stato possibile sottoporre
a confronto i dati ottenuti per estrapolazione con quelli fornitici da altre
fonti si sono ottenuti valori coerenti con tale proporzione (es. a Carcare per
il 1687 gli abitanti ricordati da uno “Stato delle anime” sono 592, quelli
“atti alla Comunione” 435: estrapolando questo dato con il parametro
precedentemente ricordato si sarebbe avuto un totale di 652 ab., con uno
scarto, tutto sommato accettabile, del 9,2%. Per questi dati v., dell'A.,
Carcare nel 1800, GRIFL, Cairo 1986.
[70] ) Arch. Parr.,
Stato delle anime.
[71] ) A parte ogni considerazione su possibili
cambiamenti determinati da contingenze di tipo socio-economico, non possiamo
tralasciare, per es., il gravissimo impatto che ebbero su queste popolazioni
anche gli anni dell'invasione napoleonica ( 1794-1800).
[72] ) V. SCAGLIONE, Contributo cit., p. 18. La
diocesi di Alba, cui appartenevano quasi tutti i paesi dell'alta Val Bormida da
Cairo fino a Murialdo, Bormida, Bardineto, nel 1649 contava 68.000 abitanti
divisi in 104-107 parrocchie, nel 1658 era salita (o risalita?) a 100.000 (P.
BRITIO, Acta et costitutiones secundae, tertiae et quartae sinodi
diocesanae, Carmagnoliae 1649- 1658, pp. 57 e 13.
[73] ) B. BOSIO, la « charta » di fondazione e
donazione dell'abbazia di San Quintino in Spigno. 4 maggio 991, Visone
1972, p. 21. Da quest'opera sono stati tratti, con qualche integrazione, i dati
riguardanti la storia medioevale di Spigno.
[74] ) A.M. DE MONTl, Compendio di memorie istoriche
della città di Savona, Savona 1681, p. 342.
[75] ) Non dimentichiamo che il marchese di Spigno nel suo
soggiorno a Milano, di cui siamo a conoscenza, aveva certo potuto rendersi
conto, di persona o per sentito dire, dei tumulti ricordati nei «Promessi sposi
» e dei pericoli per le «istituzioni» che potevano nascondersi in una folla in
preda alla disperazione: e a Spigno non c'erano né Ferrer né soldati spagnoli
che potessero aiutarlo.
[76] ) Probabilmente la frase deve intendersi nel senso
che il marchese non avrebbe aspettato, per il giudizio sulle imputate, le
decisioni degli inquisitori ecclesiastici.
[77] ) Da C. BRIZZOLARI, L'inquisizione a Genova e in
Liguria, Genova 1974, p. 72, apprendiamo che dal 1629 al 1632 ricoprì
l'ufficio di Inquisitore fr. Petrus Martyr Ricciardis de Aqua Nigra. I
nostri documenti presentano però, abbastanza chiaramente, Ricciareli anziché
Ricciardi. Questo inquisitore aveva preso il posto, a Genova, di Vincenzo
Maculano de Florentiola, che poi figurerà nel processo a Galilei.In precedenza inquisitore a Genova era stato il Masini,
autore del famoso Sacro arsenale, ovvero pratica dell'Uffizio della Santa Inquisizione. A Genova (e altrove) l'Inquisizione restò attiva fino al 1798, quando fu abolita da Napoleone.
autore del famoso Sacro arsenale, ovvero pratica dell'Uffizio della Santa Inquisizione. A Genova (e altrove) l'Inquisizione restò attiva fino al 1798, quando fu abolita da Napoleone.
[78] ) Quando si trattava di una "causa grave"
bisognava darne notizia al supremo tribunale della S. Inquisizione e di là
attendere la “risoluzione” prima di iniziare il procedimento (E. MASINI, Arsenale
ovvero prattica della Santa Inquisizione, Genova 1621, pars decima).
[79] ) La Congregazione del Santo Uffizio (oggi Sacra
Congregazione per la Dottrina della Fede) interpellata dall'A. in data
28/10/1988, ha comunicato il 7/ 12/88 che in archivio in relazione a “un
processo svoltosi a Spigno Monferrato tra il 1631 -1632, avente come oggetto la
stregoneria” non è stata trovata indicazione alcuna.
[80] ) Il 27 settembre il Santo Uffizio accusa ricevuta
della lettera del Vescovo tramite una comunicazione (doc. 9) di Stefano
Senarega, Procuratore del S. Officio, che comunica di “aver parlato al
Segretario del Cardinale di Santo Onofrio per la risposta, il quale mi ha detto
che ne haverà pensiero particolare”. Il Vescovo aveva scritto 1'11, la
risposta è del 27: in 16 giorni una lettera era andata a Roma, era stata
esaminata e aveva avuto risposta. Tutto ciò mentre infuriavano peste e guerra!
[81] ) La tortura
della “corda” era uno dei metodi più semplici ed efficaci utilizzati per far
parlare gli imputati: ad essi venivano legate la braccia dietro la schiena, poi
venivano sollevati tramite una corda legata ai polsi e lasciati sospesi “
per un notabile spazio di tempo”, spesso con una pietra di 25/50 libbre
legata ai piedi. A volte alla sospensione si aggiungevano improvvisi strattoni.
Da tale trattamento gli imputati uscivano regolarmente con le articolazioni delle
braccia slogate. Strattoni e pesi ai piedi erano proibiti nei tribunali
ecclesiastici (v. MASINI, Arsenale cit., Parte VI, Modo di dare la
corda al reo che ricusa di rispondere o non vuol precisamente rispondere in
giudizio: «E qui per anco bassi a notare che non deve mai nel sacro Offizio
darsi ad alcuno la corda con isquassi o con qualsivoglia peso o bastone ai
piedi, ma deversi alzar semplicemente nella corda»: I. MEREU, Storia
dell'intolleranza in Europa, Milano 1988, p. 219 definisce ciò “legalismo
da camere a gas”: ma siamo nel '600, quando la tortura era pacificamente
ammessa in tutti i tribunali. Del resto anche oggi ogni tanto si sente parlare
di ..tecniche di interrogatorio avanzate..
[82] ) L'aver sottoposto le imputate alla tortura senza la
presenza dell'inquisitore ecclesiastico (ché tale non poteva essere certo
considerato d. Vcrruta, semplice vicario dcl Vescovo) andava infatti contro le
precise disposizioni dei testi allora usati dai giudici ecclesiastici, in
primis il già citato Arsenale di Masini (fra l'altro stampato solo 10
anni prima e proprio a Genova), il quale (pars X, CCXXVIII, precisa che
“non può l'Inquisitore dar la tortura al reo senza il Vescovo, nè il Vescovo
senza l' Inquisitore, e se altrimenti avviene, la confessione a cotal tortura
seguita è nulla ipso iure, etiamdiu ch'ella fosse stata dal reo più volte
ratificata, essendogli stata senza giustificazione alcuna e perciò
indebitamente applicata”. Ma difficilmente le povere donne di Spigno
potevano essere al corrente di tali disposizioni!
[83] ) Altra
violazione delle norme procedurali (se non apparisse un'ironia si potrebbe
dire: dei diritti dell' imputato!): nei processi soggetti all' Inquisizione la
tortura non poteva "ordinariamente passare la mezzora di horologio et
nel darsi i tormenti al reo il giudice deve proceder con essi moderatamente,
secondo la loro qualità e condizione, e haver sempre l'horologio da polvere per
saper quanto tempo vi scorre” (MASINI. op. cit.). Qui invece le
imputate sono state torturate per due ore.
[84] ) Caterina confessa che il diavolo le era apparso “in
forma di un bel giovane vestito di verde”: è una frase che ritroviamo, con
poche varianti relative al colore, in tanti altri processi simili: a Modena il
diavolo appare a Orsolina la Rossa “in forma di un bel giovane vestito di
rosso"· (M. ROMANELLO, Un processo dell'Inquisizione a Modena nel
1539, in Id . (a cura di), Stregoneria in Europa, Bologna 1979, p.
120; in Normandia è “un grande uomo nero, vestito di nero”, (ibidem,
165), in Svizzera sembra invece preferire il verde, stando almeno ai «
quindici (!) giovani vestiti di verde” che fanno visita a una
giovane strega di Basilea (ibidem, 340).
[85] ) Anche questa era una formula tipica: anche la già
ricordata Orsolina la Rossa, processata a Modena nel 1539 dice “io renego
Christo et la Vergine Maria" (ibidem, 120).
[86] ) La dichiarazione resa (o fatta rendere) dalla
“strega” ricalca quasi esattamente i comportamenti che venivano attribuiti alle
streghe. J.
HANSEN, Quellen und Untersuchungen zur Geschichte des Hexenwahns und der
Hexenverfolgung im Mittelalter, Bonn, 1901, trad. it. F. TRONCARELLI, Le streghe, Milano 1983, p.
188, ricorda infatti che le streghe "rinnegano la fede cristiana ed
ogni cosa che a lei si riferisce, soprattutto il battesimo, i sacramenti della
Chiesa e gli oggetti ad essa connessi, come la santissima Croce, l'acqua
benedetta, l'ostia consacrata ( ... )come pure Cristo Redentore, la Beatissima
Vergine Maria e tutti i Santi ( ... }. Promettono al demonio che calpesteranno
offensivamente la croce con i piedi ( ... } e poi non prenderanno l'ostia ma la
conserveranno presso di sé», L'uso dell'ostia sacra per fini magici viene
visto da A. RUNENBERG, Witches, Demons and Fertiliy Magic, Helsingfors
1947, in ROMANELLO, op. cit., p. 149, come una delle caratteristiche “che
distinguono la stregoneria dell'Europa occidentale dalle altre forme di magia
primitiva”.
[87] ) “I riti demoniaci capovolgono la liturgia
cristiana, Satana è il rovescio di Dio” (R. BARTHES, Saggi critici,
Torino 1972, p. 70).
[88] ) Anch'esso adeguatamente codificato: " Il
demonio si fa adorare con culto idolatra da quei perversi ( ... }. Essi si
prosternano in atti supplichevoli ( ... ) e lo baciano da qualche parte,
generalmente nelle parti posteriori ( ... ) li demonio prende quelli che vuole
e nell 'atto carnale li conosce bestialmente “(HANSEN, Quellen, cit., p.
193)".
[89] ) E come tale consigliata dai manuali agli inquisitori:
“Se si constata che le streghe non fanno alcuna confessione ( ... ) bisogna
farle rasare di tutti i peli” (J. BODIN, La démonomanie des sorcières,
Parigi 1580, p. 375).
[90] ) Nelle loro riunioni le streghe “incominciano a
danzare al suono cupo di una buccina ( .. :). Finita la danza ( ... ) uomini e
donne giacciono assieme e si congiungono bestialmente e alla maniera dei
sodomiti. Ed anche il demonio prende quelli che vuole e nell'atto carnale li
conosce bestialmente”. (HANSEN, Quellen cit., p. 193). Certo che, nel nostro caso, considerata l'età (e la condizione) delle imputate il diavolo doveva essere ..di bocca buona.
[91] ) Non sono riuscito a ricostruire con precisione il
significato di questo termine, fra l'altro di incerta lettura: è forse sinonimo
di “torturare” o di “depilare” (già abbiamo visto come la depilazione integrale
fosse procedura usuale nei processi di stregoneria)?
[92] ) Quindi in un certo modo “diversa” dagli altri, e
come tale più facile ad essere raggiunta dai sospetti della gente che vedeva,
nella ”deformità” fisica, una traccia esterna della differenza, della devianza
- cioè dcl male – morale.
[93]) C'è però da notare che espressioni come “liberamente
costituito nelle nostre mani” e “depone di essere strega liberamente”
non debbono necessariamente sottincendere confessioni spontanee: il gesuita F.
von Spee proprio in quell'anno scriveva infatti (citato da TRONCARELl., op.
cit., p. 154) che " la prima tortura, dolorosissima, è più lieve in
confronto al resto. Se la donna confessa, gli inquisitori affermano addirittura
che la confessione è stata ottenuta senza ricorso alla tortura”.
[94] ) Ancor oggi nel dialetto langarolo una piccola
pentola unta e sporca viene talvolta chiamata “il pignattin della strega”.
[95] ) Piccolo paese, ora quasi disabitato, posto a monte
di Spigno, sulle colline alla sinistra della Bormida. Ora si chiama S.Massimo
[96] ) Sul rospo come tipico ingrediente per filtri magici
v. C. FAGGIN, Diabolicità del Rospo, Venezia 1973.
[97] ) La
confessione fatta sotto tortura doveva essere ratificata dopo 24 ore: “se il
reo (reo, non imputato: erano già condannati in partenza!) avrà
confessato nei tormenti, dovrà appresso ratificare fuori di essi e sciolto da
ogni legame” (MASINI, op. cit., parte VI: Del modo di ricevere
dal reo la ratificazione delle cose da lui confessate nei tormenti).
[98] ) Come si è già notato siamo qui di fronte ad un
errore di procedura o ad un'usurpazione di competenze: trattandosi di
stregoneria, cioè di reati di competenza ecclesiastica, la tortura poteva
essere autorizzata solo dal magistrato ecclesiastico, il quale oltrettutto, in
caso di materia “grave e difficoltosa”, quale appunto era questa, prima
di autorizzarla doveva informare il Santo Uffizio e aspettarne le decisioni (v.
MEREU, op. cit., p. 209 sgg.). Queste scorrettezze procedurali verranno
rilevate nella corrispondenza intercorsa fra le varie Autorità Ecclesiastiche,
in specie nelle lettere del Padre Inquisitore.
[99] ) Circa il numero totale delle streghe incarcerate
non c'è corrispondenza tra quelle ricordate all 'inizio delle carte processuali
e quelle citate in questa lettera del Verruta: le carte del processo hanno 11
nomi (Margherita Bracha e la figlia Margarina, Bianchina Santina seu Sulianam, Bartolomeo
Perletto, Lucia Peirana, Ioannina Suliano, Lucia Rodana, Marietta de
Columbis con la figlia Ioannina, Giacomo Avramo e Maria Scaiola), d.
Verruta ne ricorda invece 14, cioè tutte le precedenti con l'esclusione di Ioannina
de Columbis, cd in più Marietta e Ioannina Barbero (costei potrebbe forse
essere la Ioannina de Columbis citata negli atti), madre e figlia,
Caterina Marenco di Merana, detta Giacheta e la figlia Bianchina.
[100] ) Allude al già ricordato rogo di Roccaverano, la cui
storia è ancora tutta da scoprire. Resta invece poco probabile, come si è
notato in precedenza, l'effettiva condanna ed esecuzione delle «”streghe” di
Cairo Montenotte.
[101]) La situazione di d. Verruta era tanto più difficile
in quanto sappiamo da altri documenti che i rapporti tra popolazione (e/o
Autorità?) di Spigno e parroci inviati da Savona (ricordiamo che i due paesi
appartenevano a Stati diversi) erano stati, in precedenza, tutt'altro che
buoni: sappiamo per esempio che il predecessore di d. Verruta, Nicolò Spinola, nominato
nel 1629, aveva rinunziato due anni dopo proprio per le continue difficoltà di
questo tipo mentre il parroco che lo aveva preceduto, dopo essere stato
aggredito da uomini armati che avevano invaso la canonica, aveva abbandonato la
parrocchia tornando a Savona. Don Verruta era stato nominato arciprete di
Spigno solo dal febbraio di quello stesso 1631.
[102] ) La confessione di una strega non bastava per
irrorare neppure una minima pena se essa non era sorretta da prove: “aliter
nulla sequi posse condemnatio vel poena, cx sola confessione, vel omnino levis”:
è questo il giudizio che Serafino Petrozzi, a uditore e consultore inviato
dalla Repubblica di Genova ad esprimere il proprio parere circa il processo
alle streghe di Triora (v. nota 104), aveva espresso nella sua relazione dopo
aver esaminato gli atti relativi (v. F. FERRAIONI, Le streghe e
l'inquisizione. Superstizioni e realtà, Roma 1955, p. 74).
[103]) Interrogare gli imputati «senza suggerire cosa
alcuna» era quanto prevedeva la legge, anche se di solito così non si faceva,
come non si era fatto nel corso del sopra ricordato processo di Triora: e
proprio in quell'occasione il Senato di Genova aveva scritto al suo Commissario
Civile che stava gestendo il processo, Giulio Scribani, invitandolo “ad esaminare
le incolpate senza suggerirgli cosa alcuna” (Lettera del Doge e dei
Governatori di Genova a Giulio Scribani del 1 agosto 1588, Arch. di Stato,
Genova, Lettere del 1588, n. 538, in FERRAIONI, op.cit., p. 75)
[104] ) Il 3 febbraio d. Verruta trasmette a Savona ( lett.
15) copia del “esposizione concernente il negotio delle streghe”
ricevuta dal Procuratore fiscale secolare, che però non è stata rinvenuta in
archivio.
[105] ) A Triora
(Imperia) si svolse fra la fine dell'estate del 1587 e l'agosto dell '89 un famoso
processo alle streghe che non ci pare inutile ricordare brevemente. Ebbe
origine da una lunga carestia, che spinse la parte più disperata ed ignorante
della popolazione a segnalare alla «Giustizia» alcune presunte streghe.
Nell'ottobre del 1587 giungono nel piccolo centro imperiese due inquisitori
ecclesiastici che incominciano gli interrogatori delle sospette. Sotto tortura esse coinvolgono nel procedimento altre donne,
che a loro volta tirano in ballo un numero di persone sempre più grande: alla
fine oltre 200 abitanti saranno interrogati. Nel gennaio dell'88 parte della
popolazione (le famiglie più elevate) temendo cli venire anch'essa coinvolta in
quella che era diventata un'autentica caccia alle streghe, si lamenta con
Genova (sede del potere politico) dell'indirizzo che stava prendendo il
procedimento. Giunge allora a Triora l'Inquisitore capo (ecclesiastico) e, 1'8
di giugno, anche un giudice-commissario secolare. Quest'ultimo dà un colpo di
acceleratore al processo, condannando a morte 5 « streghe », mentre altre 13
vengono inviate a Genova per ulteriori indagini. Interviene allora
l'Inquisitore capo, ecclesiastico, che impedisce l'esecuzione della sentenza di
morte in quanto la gestione - e conseguente sentenza - spetta, visto
l'argomento, all'Autorità ecclesiastica e quindi alla Congregazione del Santo
Uffizio. Le S condannate salvate in extremis vengono inviate a Genova, gli atti
processuali sono trasmessi a Roma, al S. Uffizio. Quest'ultimo prende tempo.
Frattanto, a Genova, languono in prigione 18 donne: in quali condizioni è
facile da immaginarsi, visto che verso l'agosto del 1589 ne sono rimaste vive
solo 13. Intorno a quella data le superstiti vengono - probabilmente -
rilasciate e il Commissario secolare genovese che aveva istruito il processo di
condanna viene scomunicato dal Sant'Uffizio per essersi ingerito in cose
spettanti ali' Autorità ecclesiastica. In seguito la scomunica verrà ritirata
su intercessione delle Autorità genovesi (su questo processo v. FERRAIONI, op.
cit., dalla cui opera sono state tratte le informazioni relative).
[106] ) Si tratta
del figlio del marchese signore di Spigno, Marco Antonio Asinari dcl Carretto,
il quale nei documenti in nostro possesso non appare mai esplicitamente: ad un
primo esame sembrerebbe strano che l'unica comunicazione diretta marchese -
vescovo sia affidata al figlio del marchese, ma a ben riflettere è invece
perfettamente logico. Agli atti non sarebbe risultato nessun contatto, nessun
dialogo tra i due poteri, nessuna dichiarazione. E soprattutto in questa
lettera era inopportuna la presenza del marchese padre, legale padrone del
luogo di Spigno.
[107] ) In
realtà non è stata riscontrata nessuna lettera con la quale Verruta informi il
vescovo della morte delle incarcerate. Né invierà comunicazione al riguardo
dopo la lettera del Marchesino, se non un cenno nella lettera dell’ 11 marzo.
[108] ) Non sappiamo come e quando il vescovo abbia avuto
questa informazione. Da una lettera di d. Verruta risalente la 3 febbraio (doc.
15) veniamo a sapere che in quella data era stata trasmessa al vescovo ”l'inclusa
espositione concernente il negotio delle streghe'" esposizione che non
è stata rintracciata in archivio. Forse l' informazione circa le streghe morte
in carcere era stata desunta da quel documento. La constatazione che ben 12
imputate erano già morte in carcere è comunque indicativa su quanto quelle
sventurate abbiano sofferto, sia come torture sia come condizioni di
carcerazione: a meno che non siano morte di peste, ma ci crediamo poco.
[109] ) Si
tratta forse di quella imputata che d. Verruta nel doc. IO ricorda come l'unica
che non avesse ancora confessato e che “per opera del diavolo nega tuttavia"?
[110] ) Non si
riesce a capire con esattezza il senso di queste frasi: significano che il
Podestà riceveva dcl denaro, forse per non confiscare i beni delle persone
decedute in carcere, o che pagava ai superstiti una sorta di risarcimento per i
decessi? La lettera dell' 11 marzo farebbe propendere per la prima ipotesi.
[111] ) Vedi, oltre alla già citata opera di MEREU, anche
E.W. MONTER, Riti, mitologia e magia in Europa all'inizio dell'età moderna,
Bologna 1987.
[112] ) BOSIO, La charta, cit., p. 206.
[113] ) Così scrivevo nel 1996. Oggi, a 21 anni di
distanza, ben poco è cambiato e la vicenda risulta, in loco, poco conosciuta. Però una recente tesi di laurea (M. Marenco, La strega nell’immaginario dell’età
moderna: i processi a Savona e in Val
Bormida (Quiliano, 1608, Spigno
Monferrato, 1631-32) dedica alla vicenda un capitolo. Forse un certo
interesse sta nascendo.
[114] ) I documenti relativi al processo alle streghe di
Spigno hanno fornito la base documentaria all'opera di A. FRANCIA,
Storia Minima. Streghe, inquisitori, peste e guerra in un episodio di
violenza collettiva del XVII secolo, Genova 1990.
[115] ) Sono state adottate le parentesi quadre per
indicare integrazioni a vere e proprie cadute di testo per danni allo scritto;
le parentesi uncinate per integrare quelle che appaiono come autentiche
dimenticanze dello scriba; le parentesi tonde per l'inserzione di piccoli
elementi del discorso utili all'immediata comprensione del testo. La
denominazione Doc. 1, 2, etc. è nostra: in realtà le varie deposizioni
si succedono senza interruzioni.
[116] ) La parte seguente del testo è stata aggiunta in
fine, in forma di postilla.
[117] ) cioè
levatrice
[118] ) Locuzione usata quando il teste aggiungeva
informazioni di propria iniziativa, senza essere stato esplicitamente
interrogato su ciò dagli inquisitori (MEREU, op. cit., p. 218).
[119] )=
falce da fieno
[120]
)moglia= zona quasi paludosa, ricca d’acqua
[121] ) Non ha nulla a che vedere col processo: si tratta
di una dispensa di matrimonio richiesta a maggio da Francesco Nano per sposare
Gioachina Perochia, sua parente in quarto grado.
[122] ) Turpino e Piana erano luoghi dove la Mensa
vescovile di Savona aveva ampi possessi. Lo Sgorlino era l'affittuario di una
di tali cascine. Morirà di peste di lì a poco.
[123] ) sottoporle a tortura.
[124] ) A Piana la peste infuriava in modo particolarmente
grave. Morto il parroco la comunità era rimasta priva di sacerdoti.
[125]) Il “maestro (o mastro) di casa”. era il
sacerdote Pietro Antonio Bertuzzo: si occupava normalmente dell'amministrazione
dei beni della Mensa vescovile nel territorio di Spigno. All'epoca reggeva la
vicina parrocchia di Montaldo, il cui parroco era scappato per paura della
peste. Dalle lettere pare possibile intuire l'esistenza di una latente rivalità
fra il maestro di casa e d. Verruta.
[126] ) I rastrelli erano le barriere (oggi diremmo i
caselli) poste lungo le strade all'ingresso dei paesi o al confine con gli
Stati confinanti per controllare o impedire il transito in tempi di contagio.
Quello lungo la strada Spigno-Savona era posto alla Cà di Ferrè (Casa del
fabbro), nei pressi di Montenotte, alle spalle di Cairo.
[127]) Il cavaliere è il fratello del marchese di Spigno,
Gabriele Asinari Del Carretto.
[128] ) Si tratta probabilmente di un sommario a noi non
pervenuto e che il vescovo trasmise all'inquisitore di Genova che ne accusò
ricevuta il 9 settembre (doc. 6): ci è invece arrivato un secondo sommario
trasmesso dall'arciprete di Spigno al vescovo di Savona il 29 settembre 1631
(doc. 10).
[129] ) Prima aveva scritto “streghe”, poi "donne”,
infine “persone”.
[130] ) Località attraverso la quale passava la strada
Spigno-Cairo-Savona.
[132] ) Il
destinatario in realtà non è chiaro: pare trattarsi del sostituto del vescovo
in quel momento a Genova.
[133] ) Era un sacerdote che aveva abbandonato la sua sede
per paura della peste.
[134] ) La lettera contiene riferimenti a episodi
altrimenti sconosciuti e non pertinenti al processo alle streghe: come già
ricordato la pubblichiamo comunque integralmente per offrire un più minuzioso
spaccato dell'attività burocratico-amministrativa, oltreché ecclesiastica, di d
.Verruta.
[135]) "Capiatur”: mandato di cattura che
sarebbe stato eseguito qualora il ricercato fosse arrivato (“venendo sulli
fini”,) nel territorio di Spigno. Chi fosse il Vallei e quale colpa avesse
commesso non ci è noto: probabilmente era un affittavolo di beni della mensa
vescovile
[136] )
Questa è l’informazione che Verruta manda al vescovo circa la conclusione del
processo ( O almeno è quella ritrovata dalla documentazione riscontrata).
[137] ) Ci
si riferisce ad un’altra vicenda di stregoneria che si stava svolgendo in quei
giorni nel vicino paesino di Lodisio: (http://storiadellavalbormida.blogspot.it/2016/12/processialle-streghe-in-val-bormida-nel.html#more)
[138] ) I valichi, chiusi per la peste.
[138] ) I valichi, chiusi per la peste.
[139] ) “Se
sarà richiesto”: non sappiamo se questa documentazione “ in mano di un
notaio” è quella mutila trovata nell’Archivio e qui pubblicata o un’altra
non trovata (sempre che sia stata realmente fatta e inviata..)
[140] ) “faremo noi la causa contro quelle streghe”:
d. Verruta non molla. Finito un processo vorrebbe aprirne un altro!
[141] ) Era il Podestà che stava conducendo il processo di
Lodisio ( « Loesio » ).
[142] ) Si tratta di due famiglie affittuarie di alcuni
beni di pertinenza della Mensa vescovile di Savona. Della rivalità fra d.
Verruta e il "maestro di casa" abbiamo già detto.
[143] ) Potrebbe essere l'ex marito della “strega"
Lucia Rodana.
[144] ) Si allude ad un episodio inserito in quel clima di
intimidazioni e "persecuzioni” esistente a Spigno, prima dell'arrivo di d.
Verruta, fra autorità locali e sacerdoti provenienti da Savona
LE STREGHE DI SPIGNO IN TEATRO E NELL'ARTE
Le streghe di Spigno sono entrate anche nell'arte:eccole in un'acquaforte di C.Fusillo del 2008 (dal web) |
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