venerdì 3 marzo 2017


Un processo per stregoneria in Val Bormida nel 1631: le streghe di Spigno

LEONELLO OLIVERI

Nel 1631 si svolse in Val Bormida, a Spigno Monferrato (Al.)  una terribile vicenda che  ebbe come vittime 14 donne accusate di stregoneria. Siamo  nel pieno di una guerra (quella dei 30 anni,  che percorse anche questa valle con le armate di tre Stati) e nella fase più acuta di quella terribile epidemia di peste, così drammaticamente fatta rivivere dal Manzoni  nei Promessi Sposi.



Questa fu la cornice, e in parte anche la motivazione,  in cui si snodò questa terribile vicenda, culminata in un drammatico processo.
Il presente lavoro ripresenta, con alcune modifiche, il lavoro con lo stesso titolo pubblicato dal sottoscritto nel 1995 nel vol. XCIII ( primo e secondo semestre) del Bollettino Storico Bibliografico Subalpino (Deputazione Subalpina di Storia Patria, Torino, Palazzo Carignano, 1996). Viene ora proposto in questo blog per offrirgli una visibilità più ampia.
Il “processo alle streghe di Spigno” presenta una caratteristica che lo rende quasi unico. Esso infatti è stato ricostruito non solo sulla base degli atti (ritrovati in parte)  ma anche di una ricca corrispondenza fra tutte le autorità interessate (Vescovo, Santo Uffizio di Roma, Inquisitore di Genova, Parroco vicario del Vescovo in sede, Marchese del luogo), corrispondenza che permette di ricostruire gli interessanti e complessi retroscena ( ovviamente quelli messi per scritto e giunti fino a noi) che lo caratterizzarono.
Tutta la documentazione è presentata in calce


1. il processo.
 2.la guerra.
2.1 La guerra di successione del Monferrato.
2.2 La guerra di successione di Mantova.
2.3 La guerra in Val Bormida.

 3. la peste.
3.1 La peste nella valle.
3.2 La peste a Spigno.

4. I retroscena.
4.1. Il feudo di Spigno.
4.2 L'abbazia di S. Quintino
4.3. Dietro alle quinte.
4.4. La fine



APPENDICE
I. gli atti del processo.
II le lettere

 Il processo.
Una calda mattina dell'estate del 1631 Vincenzo Bachiello, Procuratore Fiscale della Curia foranea di Spigno ([1]), si presentava davanti a d. Giovanni Verruta, arciprete della locale chiesa di S. Ambrogio nonché vicario foraneo all'uopo delegato dal Vescovo di Savona, denunziando che “alla villa della Rocchetta di Spigno siano christiani e christiane poco timorate di Dio Benedetto che comettono molti disordini come inhobedienti a S.ta Chiesa, massime di streghe, comettendo molti assassinamenti et stregherie” : era il 9 luglio 1631 e nel piccolo centro della Val Bormida iniziava
quello che fu probabilmente il più drammatico processo per stregoneria celebratosi nel XVII sec. in Liguria e nel basso Piemonte.
Un fortunato rinvenimento di due gruppi di documenti esistenti presso l'archivio vescovile di Savona, alla cui diocesi Spigno all'epoca apparteneva ([2]), ci permette di far luce su questo avvenimento: si tratta di una parte degli atti del processo e di tutta la corrispondenza intercorsa fra l'arciprete di Spigno e il Vescovo, nonché fra il Vescovo il Tribunale dell'Inquisizione di Genova e il S. Offizio di Roma.
In questo lavoro tali documenti, non sempre di facilissima lettura, saranno pubblicati integralmente.

La denunzia del Procuratore Fiscale determinò l'apertura di un procedimento inquisitorio: il 12 luglio, con l'interrogatorio dei primi testi, iniziarono così le indagini.
La prima udienza si tenne a poca distanza dal capoluogo, nel vicino paese di Rocchetta di Spigno, da dove provengono molti dei testimoni (e quindi degli accusatori) e dove si trasferirono il Verruta con un notaio, il Procuratore e il “nunzio della Curia”. Per primo fu sentito Marius de Colla, abitante di Rocchetta, di anni 55, il quale afferma di aver “sempre sentito nominare che Margarita Bracha sia masca e strega”. Per informare meglio gli inquisitori sulla personalità di questa donna il teste ricorda che “a Roccaverano (paese poco distante) hanno abbruciata sua sorella e suo fratello per sospetto che siano masche e masconi”: prudentemente conclude dicendo di non saper altro ma che, in ogni caso, “se lo sii, Dio benedetto la faci castigare“. Il secondo teste, Bartolomeus Viatius, di 70 anni, dichiara di aver anche lui sempre “sentito dire  qui alla Rochetta che Margherita Bracha sia una masca e strega”. Anche lui ne ricorda i precedenti famigliari, facendo presente ai giudici la sorte della sorella e del fratello dell'imputata. Consiglia poi gli inquisitori di esaminare “Bartolomeo Ferraro, che saprà dir un non so che di Bartolomeo Perletto detto Caramello”.
Con l'interrogatorio del terzo teste, Petrus Matia, di 31 anni, la vicenda comincia a colorirsi degli ingredienti tipici di ogni storia di streghe: pure lui ha sempre sentito dire che Margherita era una strega, ma conosce anche qualcuno che gli aveva detto di aver visto (!)  “questa Margarita e sua figlia in Spigno, scapelliate (spettinate) di notte due o tre anni (or) sono”; come si vede, la psicosi della strega incomincia a farsi strada, e le indiziate aumentano: alla madre, Margherita, si aggiunge la figlia, colpevole ... di essere andata in giro, di notte, spettinata! Ma le dichiarazioni di Pietro (uno
dei testi più giovani - 31 anni - e più poveri: 200 scudi di beni) non si fermano qui: egli aggiunge infatti che alcuni suoi conoscenti, Francesco Fornarino et altri “danno la causa a questa Margarita che gli abbi mascato ( = fatto morire con un incantesimo) li figlioli che gli sono morti” . Pietro rappresenta, per gli inquisitori, un teste importante: nelle sue dichiarazioni coinvolge infatti anche un'altra donna, “Bianchina Suliana o sii Santino”, che ha la fama di strega “perché non viene mai tre volte l'anno a messa”..
Tocca poi a Bartolomeus Ferrarius, tirato in ballo dalle dichiarazioni di un teste precedente: anche lui ricorda che “ ritrovandomi in casa di Fornarino la moglie di messer Francesco Fornarino disse  che volevano far prigione Bartolomeo Perletto detto Caramello et Margherita Bracha che erano masche e mascone” ; circa il fatto che Margarita fosse masca “ne è pubblica voce e fama". Riguardo il Bartolomeo Perletto “detto Caramello” accusato dai testi precedenti, il nostro Bartolomeo riferisce ai giudici che quattro anni prima (!) il detto Perletto fu visto “ havere per mano la barba di un becco(= caprone) dicendo le seguenti parole ad alta voce: “questo è il mio padrone e quello che mi governa, mi dà denari e tutto quello (che) ho bisogno”, e con esso andava, o sii da esso becco si faceva menare attorno alle rocce” : ecco quindi un altro classico elemento diabolico, il caprone, tradizionalmente presente in ogni racconto di streghe e stregoni.
Le dichiarazioni di Bartolomeo accendono l'interesse degli inquisitori, che cominciano a trovare nelle testimonianze quegli elementi che dovrebbero essere canonicamente presenti.
Le domande incalzano: quante volte aveva il teste visto ciò? Una “quatrina” (!) di volte. Riteneva il teste che tali cose fossero cose “da buon cristiano?”. Certo che no, è la risposta, anzi “tengo e giudico che fossero cose da malissimo cristiano”. Per meglio colorare la personalità del Bartolomeo Perletto, il teste precisa che non solo della di lui qualità di “mascone” (=stregone) era pubblica voce e fama, ma che per di più “non ha neanche la Corona (del rosario) et alle feste invece d'andar a sentir Messa esso va a lavorare nanti (=prima) la Messa, doppo et come fosse un giorno feriale”.
Al termine dell'interrogatorio il nostro venticinquenne Ferrarius coinvolge un'altra donna, Caterina Marencha, anch'essa indicata dalla pubblica voce e fama come vecchia strega.
A confronto col precedente, l'interrogatorio del trentacinquenne Georgius Brachus (parente della Margherita sotto inchiesta?) non offre elementi di novità, limitandosi il teste a ribadire i sospetti su Margarita (al cui proposito Giorgio ricorda quanto gli diceva “la poverina di mia madre”: “dubito che questa Margherita non sii strega"· Circa Bartolomeo Perletto Giorgio afferma invece che “non è mai stato possibile far(gli) acomprar una Corona”, e nei confronti di Bianchina fa presente che “non viene se non una volta l'anno alla messa”.
La Commissione Inquirente si sposta a questo punto in casa di Franciscus de Fornarinis per interrogarne, in qualità di teste, la moglie. Tale gentilezza è certo dovuta al ruolo sociale della famiglia Fornarino, che pare più elevato rispetto agli altri abitanti: il marito, uno dei pochi che sarà in grado di firmare la propria dichiarazione, possiede infatti un patrimonio di 2000 scudi e viene indicato come nobile, la moglie come “domina”. I Fornarino erano coloro cui, secondo le dichiarazioni di un teste precedente, Petrus Matia, Margarita Bracha avrebbe “mascato” un figlio causandone la morte.
Rispondendo a quanto le viene letto ([3]) Maria de Fornarinis, 30 anni, 1000 scudi di patrimonio, ricorda che due o tre anni prima Margherita Bracha venne a trovarla quando aveva un figliolo “di nome Alberto di giorni 11”: vistolo, Margherita ne lodò la bellezza ma “tanto tosto fu partita essa Margarita, cominciò a lamentarsi et haver male e consummò in maniera che in tre giorni morì secho (=secco?) essangue, tortute (=storte) le gambe, e sopra le reni havea un segno che parevali una mano infuocata nella quale si vedevano le proprie dita "· Aggiunge poi Maria di aver parlato del fatto alla levatrice dalla quale era venuta a conoscenza della “cativa nominanza di Margarita”: da allora “giudico che questa Margarita ha stata quella che m'ha morto esso figliolo né ho mai sospettato un'altra persona, ch'io sappi, sospettosa di strega che questa, di che n'è pubblica voce e fama”. Si costruisce così a poco a poco il castello di elementi che porteranno la vicenda ad un esito drammatico.
Nel proseguo dell'interrogatorio Maria riporta le chiacchiere di alcuni suoi braccianti, riferendo come uno di essi, Segurano Suliano (parente della Bianchina?) avesse raccontato di aver visto che il Perletto “havea un becco per la barba e diceva: “è mio padrone, e ha una cantina più ben fornita che la tuaed indi montò a cavallo ad esso becco”, mentre un altro lavoratore, Giacomo Perletto (figlio del Caramello!) aveva detto di essere andato, una volta che aveva mal di schiena, “da Lucia Peirana e mi fece un remmedio che pigliò tre grani di sale con tre fille di filo torto e li mise in una scodella d'acqua e poi seppe dire: “sono tre masche che vi nuociono e una ne può più che l'altre”, Ecco quindi apparire altri elementi tipici di ogni storia di streghe: dopo le scorribande notturne di donne scapigliate è ora la volta di cavalcate su caproni, di guaritrici al lavoro con magici intrugli, di macchie di sangue a forma di mano sul corpo di neonati morti.

Alla fine dell'interrogatorio questo gioco al massacro in cui vecchie chiacchiere di paese diventano capi d'accusa mortali per vicini, parenti ed amici, produce i suoi frutti e sei sono le persone che finiscono nel mirino della Legge con l'accusa di stregoneria: Margarita Bracha con la figlia Margarina, Bartolomeo Perletto detto Caramello, Bianchina Suliana ovvero Santina, Caterina Marenca e Lucia Peirana. Ma sotto lo stillicidio delle testimonianze, e poi delle torture, la lista sarà destinata ad allungarsi ancora.
Terminata questa prima tornata di interrogatori, rebus sic stantibus, stando così le cose, gli inquirenti ritengono di aver raccolto elementi sufficienti contro Margherita Bracha e Bianchina Santina seu Suliana: il Procuratore Fiscale “accettando le cose dette dai testi” ne richiede la cattura e l'incarcerazione, chiedendo che esse “non vengano rilasciate prima che la giustizia sorta il suo effetto”: desiderio, questo, che vedremo realizzarsi appieno.
 E così l'admodum reverendus dominus Vicarius dispone l'arresto delle due donne e la loro reclusione in celle separate: Margherita viene rinchiusa nelle stalle del castello di Spigno, Bianchina in un vano sotto il campanile.
In seguito, temendo che le stalle non offrissero sufficienti garanzie di sicurezza, Margherita viene trasferita in una stanza dell'edificio adibito ad ospedale. La sorveglianza di entrambe viene affidata a Giorgio de Prato, "birruario” di Spigno, cui viene ordinato di provvedere anche al mantenimento delle due donne "affinché non muoiano di fame “.
Il 14 luglio 1631, di mattina, le due donne sono arrestate.
Nello stesso giorno si procede all'interrogatorio di altri testimoni.
Il primo ad essere sentito, Iacobus Sulianus, non offre ai giudici elementi nuovi, limitandosi a riferire di “aver sentito dire che Margarita Bracha e sua figlia Margarina sono streghe” e che Bianchina viene puoco alla Messa”.
Più interessante è la testimonianza di Lucretia Ivalda, “mantilara huius loci”, cioè ostetrica di Spigno, che ricorda quanto già riferito in precedenza dalla domina Maria de Fornarinis circa la morte di un neonato figlio di quest'ultima, morte provocata dalle “stregonerie “ di Margherita.
Riferisce che, a quel tempo, non appena aveva saputo che Margherita era andata a far visita alla puerpera, aveva esclamato “Dio ci aiuti”“, essendo al corrente della fama di strega goduta (si fa per dire) da Margherita. Interrogata se non avesse dubbi circa la responsabilità di Margherita in merito al “mascamento” del figlio di Maria, risponde che non le era possibile dubitare di ciò in quanto “la notte che io dormii colà (nella casa della puerpera) non sentii in vita mia li più brutti urli e gridi di gatti ([4]) che in quella casa”: prova questa irrepugnabile - come ognun sa - dello svolazzare di streghe intorno a una casa!
La nostra Lucrezia, quarantacinquenne, madre di cinque figli, continua la propria deposizione affermando poi che questo bambino “che nacque bello grosso” morì in tre giorni dopo essere diventato “esangue, torzuto, col segno di una mano verso le reni”: anche questi segni inequivocabili di un intervento magico, tanto più che sulla macchia “si vedevano le proprie dita d'essa mano infocata “.
I giudici le chiedono se fosse al corrente di altri malefici attribuibili a Margherita: Lucrezia risponde di aver sentito parlare anche di un altro caso di “mascamento”, quello del figlio di una certa Lucia Rodano; tale informazione le sarebbe stata fornita dalla madre in persona: incidentalmente, possiamo anticipare che questa Lucia nel proseguo del processo da  parte lesa diventerà imputata (ovviamente di stregoneria) e alla fine seguirà la stessa sorte delle sue infelici colleghe.
Il teste successivo Batina Matii, rilascia una deposizione piuttosto confusa e poco chiara anche per il precario stato di conservazione dei documenti.
Nella parte comprensibile leggiamo le solite accuse generiche contro Bianchina Suliana. Di fronte alla domanda rituale “ritiene lei Bianchina donna di mala vita et inhobediente alli ordini e comandi di S. Chiesa”, la teste non si sbilancia, rispondendo prudentemente che “io non posso giudicare né pensare”: aggiunge però che “alla Messa non gliela vedo troppo spesso “ et in cambio di andar alla Messa alle feste va a coglier herbe per  li suoi animali”.
Ioanninus Bacinus, di 60 anni, è il teste successivo. Si tratta di uno dei lavoranti di campagna della famiglia Fornarino,  chiamato in causa come testimone da Maria de Fornarinis. Interrogato se avesse mai avuto occasione di parlare di “cosa alcuna di stregheria”, il teste ricorda che una volta era stato ammalato “quatro mesi che non mi potevo arregere sopra le gambe”. Secondo lui causa di ciò era Margherita “per la mal nominanza che ha”. Ne era convinto: infatti da quando questa donna aveva smesso di venire in casa sua, lui era guarito, beninteso anche grazie a “Dio benedetto che mi aiutò (per)ché V.S. (d. Verruta, presente al processo come rappresentante del Vescovo) venne a benedir la mia casa e mi confessò“. Del resto Margherita doveva avere una certa dimestichezza con Belzebù, visto che lei “ha sempre in bocca (la frase): che il Diavolo l'acompagni”.
Proseguendo la deposizione il teste nomina anche Bianchina di cui Giovannino era “nipote per mia moglie, figlia di un fratello di suo marito”: a suo carico il teste, oltre alla già nota ritrosia nel frequentare la Chiesa, porta altri elementi. Infatti rispondendo ad una precisa domanda ( “ha lui teste sentito dire d'aver visto a balare alcuno sotto alcuno arbore?”) Giovannino dice che un suo amico gli aveva detto (: relata refert, avrebbero detto i giuristi romani!) che una volta “sentì un gran fracasso sotto degli alberi circa a due hore di notte, da che ne ebbe gran paura”.Ma ch'io habbi visto non lo posso dire” è la rigorosa conclusione del teste, povero bracciante agricolo di 60 anni che habet in bonis valorem scutorum centum, uno dei più bassi fra quelli delle persone coinvolte nel processo.
Viene poi interrogato Michael de Burmida, di 50 anni, una delle sole tre persone in grado di firmare la propria deposizione (le altre due saranno i nobili Innocenzo Gavotto e Francesco Fornarini). Michele ricorda che una volta Margherita Bracha aveva preso in braccio “un mio figliolo, di nome Bernardino, al quale subito venne una tosse che pareva infredato e da lì a quel tempo mai più parlò, né per due anni continui non puotè andare liberamente sendo delle gionte disgionto della vita tutto in modo tale che stava dove li ponea, et alla fine morse sgionto della vita tutto “. In un primo momento egli aveva attribuito la malattia del figlio a causa naturale, ma da quando un giorno Margherita, incontrandolo, gli aveva chiesto se era vero che lui le dava la colpa di ciò, Michele aveva incominciato a sospettare di lei “perché mi mise il sospetto con le parole che essa mi disse”.
L'esame del nobile Innocentius Gavotus, l'unico teste che non fornisce alla Giustizia nessun elemento utilizzabile contro le imputate, chiude la lunga giornata di lavoro dei nostri giudici che, cum esset hora admodum tarda, decidono di aggiornare l'escussione dei testimoni al giorno seguente.
L'indomani, 15 luglio, considerato l'avvenuto arresto di Margherita e Bianchina, il Procuratore Fiscale secut protestat de expensis, incomincia a  pensare alle spese del processo, e ad ogni buon conto decide di effettuare l'inventario dei beni delle due donne affinché gli stessi siano messi al sicuro ad salvandum ius .
L'inventario viene effettuato il 16 luglio, alla presenza di testimoni ed iniziando dalla casa di Bianchina. Lì, Isabella, sua sorella, procede al consegnamento dei beni, per la verità non numerosi: “una troia con porchetti sei, una vacha e due manzoti (= manzi, vitelli), stara due di vino, borie cinque di grano, uno staro di fabbe (= forse fave?), uno zebro, una bronza ([5]), quattro caratelli, uno staro di fagioli, uno staro di castagne, una catena da fuoco, una bronzina, un ferro da segare” (falce da fieno) ed altri pochi oggetti, nonché i terreni di loro proprietà. Trattandosi di beni in comune fra le due sorelle, essi vengono al momento affidati alla custodia di Isabella.
Il corteo costituito dal Vicario, Procuratore Fiscale, Notaio e birruario della Curia si sposta poi nella casa di Margarita, dove la figlia Caterina fa l'elenco dei pochi beni esistenti: un porchetto, due pecore, un borlotto di lentichie, una borlotta di grano et una bronzina”, cui si aggiunge la casa e “tute queste poche terre”: anche questi beni vengono lasciati alla custodia di Caterina.
Riprendono poi gli esami dei testi con l'interrogatorio di Iohannis Baptista Colombus, chiamato a deporre contro la nipote, Bianchina.
Il teste ripete le solite chiacchiere, che sua nipote va poche volte all'anno alla Messa, che mai lui l'aveva vista con la corona del rosario in mano.
A una domanda precisa: “se lui teste l'avesse mai vista fare alcunché per cui possi lui medesimo congeturare sii puoco timorata di Dio” Giovanni risponde che molte volte si era stupito sentendo e vedendo Bianchina “parlare tra sé, e nel suo parlare pare parli con un'altra persona e pure si vede sola”: dato che Giovanni mai vide né sentì  “altro cristiano parlar in quel modo”, il teste “immagina e giudica tale comportamento più tosto male che bene”. I giudici non si lasciano scappare l'occasione, e chiedono a Giovanni che cosa significasse quel suo “più male che bene”. La risposta è semplice, e inchioda la nipote: “io giudico che parlando nella forma sudetta parli più tosto con spiriti diabolici che altro, e per questo dico che giudico più tosto male che bene"· Precisa inoltre di averla sentita parlare da sola più volte, ricordando in modo particolare che una volta l'aveva trovata mentre nell'orto diceva “guardate quanti bei pomi ha questo mio arbore". “Eppure - è lo stupito commento del nostro ottantenne testimone - nell'orto non si vedea se non essa sola”.
I giudici gli chiedono quindi se, stando così le cose, il teste  “tiene questa Bianchina in sospetto di mala christiana e sospetta di strega”: “Signor sì, che stando le cose suddette fatte dalla suddetta Bianchina la tengo in sospetto per masca”, è la sicura risposta del teste, non sappiamo se orgoglioso di poter in questo modo aiutare il corso della Giustizia.
Fornita quest'ultima risposta il teste, padre di famiglia con beni del non trascurabile valore di 700 scudi, è congedato.
Tocca quindi alla sua figlia ventenne, Margherita, che conferma le dichiarazioni del padre a riguardo dei soliloqui di Bianchina nell'orto (cosa questa che la teste non ritiene “atto da Cristiana come le altre”) e della di lei scarsa frequenza alla Messa.
È poi la volta del nobile Franciscus Fornarinus, ventottenne marito della Maria già in precedenza interrogata e padre del bimbo morto all'età di 11 giorni a causa, come dicevano, delle stregonerie di Margherita Bracha.
Francesco ricorda che Margherita era venuta a casa sua e che non “si volesse partire di casa (senza) che non vedesse questo mio figliolo, et non tanto tosto si partì, che questo figlio incominciò ad aver male, et prese volta cativa (una cattiva piega) in maniera che non campò più di tre giorni”. E come faceva il teste a ritenere che al bambino “gli fosse stato nociuto da questa Margarita?”: semplice “Questa (donna) ha sempre avuto cativa nominanza e qui in casa mia non venne alcuna altra sospetta”, ergo ...
Francesco, prima di essere congedato, fa anche il nome del già più volte citato Bartolomeo Perletto, detto Caramello, ricordando di aver sentito raccontare da alcune persone la storia di quest'uomo indubbiamente originale che “si faceva condurre per certe roche da un becco ch'avea per la barba”.
Il giorno successivo, 16 luglio, viene interrogata un'altra delle persone ricordate dalla moglie di Francesco, Maria, come qualcuno che sapeva: Seguranus Sulianus, di 60 anni.
Dopo l' Innocentius Gavottus citato in precedenza è questo l'unico altro teste che si mostra almeno un poco recalcitrante a fornire indicazioni agli inquirenti ([6]) : alla solita domanda, infatti, se gli fosse capitato di discorrere con qualcuno di streghe, risponde con un deciso “Signor no, che mi ricordi”. L'interrogatorio diviene allora più incalzante, e l'atteggiamento più marcatamente inquisitorio e autoritario dei giudici, forse seccati che il Suliano non offrisse loro elementi d'accusa, appare anche dalla lettura degli atti processuali: dica “cosa fece domenica, dove andò e distintamente dove consumò quella giornata”. La risposta è altrettanto precisa ma prudente e non compromettente: “alla mattina andai alla Messa, indi venni a casa di Fornarino, ivi stetti un pezzo, indi mi fermai a casa dei Perletti e puoi me ne andai a casa”. I giudici avvertono la mancanza di collaborazione in questo testimone sessantenne, forse anche un leggerissimo sentore di presa in giro in queste risposte così minuziose ma di fatto inutili all'accusa e, forti della testimonianza di Maria Fornarino, insistono: “che cosa fece in casa di Fornarino, con chi parlò e di cosa parlò?”. A questo punto Segurano è costretto a riferire che in quella occasione si era discusso degli ultimi avvenimenti, dell'incarceramento di Margherita Bracha ([7]) e del Perletto che andava in giro tenendo un becco per la barba.
Il 17 luglio i giudici sentono l'ultima teste. Lucia uxor Bartholomei Rodani: questa donna, di 30 anni, poverissima (è la più povera fra tutte le persone ricordate negli atti, con beni per soli 50 scudi) entrata nel processo come teste ne uscirà, anzi, non ne uscirà, come strega.
Lucia ricorda come lei avesse sposato in seconde nozze il suo attuale marito, Bartolomeo. Costui dal precedente matrimonio aveva avuto un figlio di nome Carlo: il marito le aveva raccontato che questo bambino “gli era stato guastato” da una strega. Interrogata se questa strega fosse Margherita Bracha, risponde cautamente “Io non lo posso dire perché non lo so, e detto mio marito meglio saprà dir quello che occorre, che io non posso dir altro”: risposta onesta, che però non la salverà dal passare, di lì a poco, dal banco dei testimoni a quello delle imputate.

Finalmente il 18 luglio, in aula domus habitationis Archipresbiteri Vicarii Foranei fu interrogata, levata dal carcere, Margherita Bracha, la prima delle 14 streghe di Spigno.
Ed eccola, infine, davanti ai suoi giudici la vecchia Margherita Bracha, quella che aveva sempre il diavolo sulla bocca, che aveva fatto ammalare Gioannino, che aveva fatto morire Bernardino, figlio di Michele, e Alberto, figlio di Maria e Francesco, per averli “ mascati” stregati.
Di lei le carte processuali ci dicono quasi nulla: era vedova (il marito si chiamava Bartolomeo), anziana (l'ultimo figlio l'aveva avuto 20 anni prima), grassa, di condizioni modeste senza essere indigente, dalla battuta pronta, talvolta anche ironica e, forse, con una certa propensione per il vino. Il suo interrogatorio, nel quale compare - è bene ricordarlo – immediatamente nella duplice veste di imputato carcerato “in factu proprio” e di teste “in alieno”, si svolge secondo il solito rituale certificato nelle opere di tanti “maestri” dell 'Inquisizione ([8]).
La prima domanda è quindi se l'imputata conoscesse la causa della sua carcerazione ([9]) : “non so perché mi ritrovi così detenuta - risponde Margherita - quando non sii per quel che m'immagino, che da tutti sii tenuta per una masca”. Rispondendo ai giudici Margherita afferma poi di essere stata arrestata all'uscita dalla Messa a cui andava con una certa regolarità (“l'altra domenica passata io v'ero pure”). I giudici notano la sua pinguedine e - fraintendendo - la ritengono incinta: brutto segno, vista la sua vedovanza ([10]). Ma la maliziosa domanda degli inquirenti (”interrogata quod in utero gerat “) ottiene la risposta che si merita: “sono venti anni che io non partorisco più figlioli, et hora sono pregna di pane e di vino”. I giudici le chiedono  “an unquam fuit Mediolani, Genova, Neapoli “, se mai fosse andata in quelle città: si trattava di una domanda di rito ([11]), che ottiene una risposta velatamente ironica: “ non ho mai passato Gorrino e Serole” ([12]). Anche la domanda successiva è rituale, chiedendole i giudici se le vesti che in quel momento indossava fossero le stesse del momento della cattura ([13]). Così era.
I giudici cercano poi di delineare meglio la personalità dell'imputata: le chiedono infatti quali rimedi Margherita utilizzasse “pro dolore dentium, oculorum et similium et ad removendum glaciem”. Il ruolo di Margherita all'interno di quel piccolo paese di campagna che era Spigno acquista così una fisionomia più precisa: si trattava di una di quelle vecchie che nei paesi delle Langhe curavano, e talora ancor oggi curano, alcuni acciacchi con un misto di medicine naturali (erbe) e riti pseudomagici; magia bianca, comunque, e non nera! Giustamente R. Mandrou ([14]) ha sottolineato che “la strega di villaggio prima di essere denunciata e consegnata alla giustizia,( ... ) ha vissuto per un lungo tempo tollerata e accettata dalla propria comunità”: certo che se la situazione cambiava, e un grave pericolo richiedeva un indifeso capro espiatorio, la stessa viene inesorabilmente sacrificata.
Margherita risponde di saper curare solo il “male della giazza “ ([15]) e i vermi. Il primo malanno viene curato con la recita di una filastrocca ([16]), e poi, ricorda Margherita, al malato “faccio il segno di S. Croce e poi dico cinque Pater noster e cinque Ave Marie e puoi li faccio dire a quello ch'ha male e lo condanno in una livra d' oglio in riverenza della lampa “ ([17]). Margherita curava anche i “vermi” sempre con la recita di una filastrocca ([18]) fatta seguire da cinque Pater noster e cinque Ave Maria “in riverenza di Dio e S. Maria che quel male se ne vada via”: come si vede si tratta di un tipico caso di “guaritrice” in cui la religione si mescola con la superstizione e la suggestione.
A questo punto la testimonianza di Margherita si interrompe: il fascicolo che contiene gli atti del processo è infatti mutilo e termina lasciando sospesa la dichiarazione dell'imputata, né è stato possibile trovare, malgrado tutte le ricerche, la parte restante della documentazione.
Se non avessimo altre fonti informative, di questo processo, e della sorte delle 11 donne ricordate nella prima pagina degli atti, non sapremmo altro.
Fortunatamente esiste nell'archivio vescovile di Savona un secondo pacco di documenti: come già ricordato si tratta della corrispondenza intercorsa fra il Parroco di Spigno nonché locale vicario del Vescovo, don Verruta, il Vescovo di Savona, mons. Francesco Maria Spinola ([19]), il padre Inquisitore di Genova, fra. Piero Ricciareli, il Procuratore del S. Officio di Roma, Stefano Senarega, il Segretario del S. Offizio di Roma, Cardinale D'Onofrio e il Marchese di Spigno Alfonso Asinari Del Carretto. In tutto 29 documenti interessantissimi, che ci svelano non solo ]'ambiente in cui è nato e si è svolto iJ processo, ma anche  suoi retroscena (almeno quelli resi noti per scritto) e i suoi sviluppi, fino all'imprevedibile, sorprendente e drammatico esito finale.
Ma prima di passare all'esposizione e all'analisi di tali documenti, integralmente pubblicati in calce al presènte studio, conviene fare un passo indietro per collocare questo processo nell'ambiente locale, storico e cronologico in cui la vicenda si svolse e da cui trasse origine e materia.

2. La guerra.
Per comprendere quanto allora successe a Spigno è indispensabile valutare quei drammatici fatti non con la nostra ottica ma sulla base delle idee e soprattutto della mentalità dell'epoca.
È pertanto opportuno cercare di ricostruire la situazione non solo storica ma anche psicologica e sociale, in una parola l'ambiente di vita in quel piccolo villaggio sperduto fra i monti della Val Bormida, dove una popolazione contadina viveva sulla propria pelle le conseguenze delle vicende che  sconvolsero l'Europa nel periodo drammatico della “Guerra dei Trenta Anni” (1618-1648).
Il processo nacque infatti da una precisa e contingente situazione locale (la paura, la carestia, la peste) a sua volta determinata da avvenimenti storici di origine più lontana, collegati alla guerra che allora sconvolgeva l'Italia settentrionale.
Occorre innanzitutto fare una precisazione di tipo geografico: Spigno, e la Val Bormida, erano attraversati dall'unica strada che dal mare, tramite la rada di Finale, il Monferrato e la Lombardia spagnoli, garantiva collegamenti fra la Spagna e i suoi possedimenti in Italia Settentrionale e, attraverso essi, l'Europa centrale e del nord. Tale fatto si ripercosse drammaticamente sulla valle e sulla sua gente, facendole subire i contraccolpi della tumultuosa politica che allora gravitava intorno alla Spagna.
La collocazione strategica della Val Bormida aveva così fatto sì che dal '500 la Spagna tentasse ripetutamente di impadronirsi della zona, frammentata in diversi feudi imperiali soggetti - con qualche eccezione – a feudatari di un'unica casata, i Del Carretto e contesa, per gli stessi motivi, dal Ducato di Savoia, da quello di Mantova, dall'Impero e dalla Francia.
Dopo aver imposto il proprio protettorato sul Monferrato, tramite il Ducato di Mantova, alla Spagna mancava infatti solo la stretta striscia di terra da Cairo a Finale, attraverso Carcare, Pallare, Bormida e il Melogno, per poter avere una comunicazione diretta (tramite il mare) con l'Europa nord/ centrale passando sempre su territori in suo possesso: l'acquisto del marchesato di Finale (che si estendeva appunto fino a Carcare) nel 1598 permetterà  finalmente alla Spagna di congiungere direttamente i suoi possedimenti, coinvolgendo però la Valle Bormida di Spigno in tutte le vicende che vedranno questa potenza contrapposta al Piemonte e alla Francia. Esaminiamo pertanto la situazione della zona all'epoca del nostro processo, perché proprio dalle drammatiche vicende politiche e sociali di quegli anni si innescheranno a Spigno presupposti che porteranno a questo tragico fatto.
La prima metà del XVII secolo fu un periodo convulso per l'Italia settentrionale, percorsa da troppi eserciti in armi: vaso di coccio tra vasi di ferro, l'essere disarmata la trasformò in un campo di battaglia per le armate di cinque Stati (Impero, Spagna, Francia, Ducato di Savoia, Repubblica di Genova) in lotta fra di loro, e fu così per molti anni devastata da una lunga guerra che per comodità distingueremo in quattro fasi, anche se - in realtà - si trattò di un unico, convulso, periodo di distruzioni e di sangue.

2.1 La guerra di successione del Monferrato.
Tutto cominciò con la cosidetta “guerra di successione del Monferrato”, che imperversò dal 1612 al 1617 ([20]). Tale Marchesato, di cui anche ampi settori della Val  Bormida facevano parte dalla fine del sec XIV ([21]), apparteneva ai Gonzaga di Mantova: quando nel 1612 muore il duca Francesco IV Gonzaga, che aveva sposato la figlia di Carlo Emanuele I di Savoia, resta come unico erede, oltre  al fratello Ferdinando, la figlia Maria: il nonno materno rivendica quindi per la nipote la successione al Monferrato, feudo trasmissibile anche in linea femminile. Possiamo vedere in ciò un tentativo, da parte del Piemonte, per annettersi queste terre che si incuneavano nei possedimenti sabaudi e controllavano lo sbocco sul mare ([22]) da sempre ambito dal Piemonte.
Riuscita vana la diplomazia, Carlo Emanuele tentò la via delle armi, impadronendosi di Alba, Moncalvo, Trino. In aiuto dei Gonzaga si muove però la Spagna e la guerra si allarga. La pace di Madrid (6/9/1617) determinerà una provvisoria cessazione delle ostilità segnando un ridimensionamento delle pretese sabaude, con la restituzione ad ogni belligerante dei territori precedentemente posseduti e la riconferma del Monferrato ai Gonzaga.
Pochi anni più tardi nuovi venti di guerra scuotono quella valle. Ancora una volta a dar inizio alle ostilità è il pugnace Duca sabaudo. La nuova guerra (durata nove anni, dal 1625 al '34) avrà come pretesto la controversa successione al marchesato di Zuccarello, centro non certo di grande rilevanza economica o strategica, e sarà sicuramente sproporzionata nelle dimensioni che assunse alla causa, anzi pretesto, che l'aveva determinata: per il possesso di tale Marchesato, rimasto senza padroni da quando il suo feudatario, Scipione Del Carretto, era stato deposto dall'Impero perché riconosciuto colpevole di omicidio, si mossero infatti il Piemonte, appoggiato dalla Francia, e la Repubblica di Genova, appoggiata dalla Spagna e dall'Impero, tramutando quindi la rivalità fra due Stati confinanti in un autentico conflitto europeo ([23]), inserito nella “ guerra dei trenta anni “ (1618-
1648) che inondò di sangue l'Europa e nel cui ambito anche le vicende oggetto di questo studio devono essere inquadrate e, in un certo senso, spiegate.

2.2 La guerra di successione di Mantova.
Le ultime fasi di questa guerra si intrecciano con un'altra, la “guerra di successione di Mantova” (1627-1631), nata dalla morte del duca Vincenzo II Gonzaga alla fine del 1627. La mancanza di eredi diretti scatenò la bramosia di Francia e Spagna, che sostennero ciascuna uno dei due rami cadetti aspiranti alla successione: i Gonzaga di Nevers, appoggiati dalla Francia, quelli di Guastalla sponsorizzati invece dalla Spagna. A fianco di quest'ultima potenza si schierò anche l'Impero (Mantova era Feudo Imperiale, cioè direttamente dipendente da Vienna), mentre il Duca di Savoia rimase in prudente attesa, pronto ad offrire la propria alleanza a quella parte che fosse disposta a concedere la separazione del Monferrato dal Ducato di Mantova e la sua annessione al Piemonte. La Spagna fu più veloce ad accettare, il Duca sabaudo abbandonò l'antico compagno (non sarà questa l'ultima volta) e i piemontesi si ritrovarono da un giorno all'altro provvisori alleati dei loro vecchi nemici: nel frattempo non esiteranno, ad ogni buon conto, a compiere incursioni nei territori vicini, anche se soggetti alla Spagna.
Le truppe piemontesi occupano nuovamente Alba, Trino e Moncalvo, mentre il Governatore spagnolo di Milano, d. Gonzalo de Cordova, si accinge all'assedio di Casale occupato dai Francesi e le truppe imperiali, i famosi Lanzichenecchi, scendono in Italia (portandovi, a quanto pare, anche la peste) e assediano Mantova: è questa la cornice storica in cui sono ambientati i Promessi Sposi di manzoniana memoria. Le truppe francesi non stanno però a guardare e muovono all'assalto del Piemonte: nei primi scontri Carlo Emanuele è vittorioso (nel 1628) ma l'anno successivo viene sconfitto e nel 1630 muore, forse di peste. Il Piemonte è occupato dai Francesi e il nuovo duca sabaudo, Vittorio Amedeo I, deve firmare un armistizio separato. In base a tale trattato, redatto a Cherasco nell'aprile del 1631, Mantova viene concessa ai Gonzaga-Nevers, il Duca piemontese deve rinunciare a Pinerolo, occupato dalle truppe d'oltr'alpe ma, in compenso, mantiene il controllo di Alba.
Il trattato di Cherasco non segna però la fine delle operazioni militari, che anzi continueranno ancora per diversi anni, complicate dalla “Guerra civile” che dal 1636 al 1642 continuerà ad insanguinare le terre piemontesi.
Infatti a Vittorio Amedeo I, morto in quegli anni, era successo il giovanissimo figlio Carlo Emanuele II, che per 10 anni rimase sotto la tutela e la reggenza della madre, la “Madama Cristina”, sorella del re di Francia: per tutto questo periodo la politica sabauda fu quindi, in pratica, controllata dalla Francia. Contro tale situazione insorsero però i cognati di colei che veniva definita “Madama reale”, il Cardinale Maurizio e il principe Tommaso, che cercarono l'appoggio della Spagna.
Anche quando Cristina, Maurizio e Tommaso trovarono un accordo, il Piemonte e la Val Bormida continuarono ad essere campo di battaglia per la guerra, lunga e sanguinosa che Francia e Spagna si combattevano, preferibilmente in casa altrui, e che proprio in Val Bormida vide scontri accaniti.
Per trovare un poco di pace bisognerà arrivare al 1659, quando le due superpotenze cesseranno, ma non definitivamente, le ostilità.

2.3 La guerra in Val Bormida.
Questa è la cornice storica entro la quale si svilupparono, e con la quale trovano una spiegazione, gli avvenimenti oggetto del presente studio che ebbero come teatro la Val Bormida.
Indispensabile una osservazione preliminare: all'epoca dei fatti l'alta Val Bormida non era un'entità politica e giurisdizionale compatta, non faceva cioè parte di un unico Stato: il solo elemento comune ai suoi diversi paesi era l'identità linguistica e religiosa, oltre che - ovviamente – quella derivante dallo stesso ambiente socio-economico e dalla identità delle vicende (ma più esatto sarebbe definirle sciagure) vissute. Il territorio dell'alta Valle era infatti politicamente diviso fra vari Stati: Giusvalla, Piana, Dego, Roccavignale, Altare e Mallare erano pertinenza del Marchesato del Monferrato e quindi del Ducato di Mantova; Rocchetta Cairo, Cairo e Vigneroli appartenevano per 3/4 al Monferrato e per 1/4 a Milano e quindi alla Spagna ([24]); Carcare, Pallare, Bormida, Calizzano e Massimino erano passati alla Spagna, proprio in quegli anni, in seguito alla vendita dell'ex Marchesato di Finale a tale Potenza da parte dell'ultimo Marchese Del Carretto, Sforza Andrea; Millesimo, Cosseria, Biestro e Plodio erano infine per metà territorio del Monferrato e per metà dell'Impero, cui apparteneva anche Cengio. Tutti questi paesi, con l'esclusione di quelli amministrati dalla Spagna, erano poi governati direttamente da un feudatario locale (nei fatti, l'unico padrone per i sudditi) discendente, con poche eccezioni (es. Cairo, Mallare) dalla casata dei Del Carretto. Come si vede era una situazione politica e giuridica assai complessa, che portava anche, come conseguenze, notevoli intralci all'attività commerciale, sottoposta a balzelli infiniti ad ogni attraversamento delle numerose frontiere che solcavano la valle (il torrente Nanta a Carcare tra Spagna e Feudi Imperiali, il Ponte della Volta ad Altare e l'abbazia di Fornelli a Pallare tra Spagna e Monferrato, le “Mule” a Cosseria tra i territori dei Del Carretto e quelli cairesi degli Scarampi, Cà di Ferrè - sopra Spigno - tra Monferrato e Repubblica di Genova etc.) e sottoponeva queste terre ai contraccolpi di tutte le vicende politiche e militari che interessavano i diversi Stati su esse confinanti.
Le prime ostilità tra il Piemonte e il Monferrato hanno immediate ripercussioni militari anche in Val Bormida fin dall'aprile del 1613 allorché il Duca sabaudo “maestro di infingardi e di doppiezze” ([25]), si spinge fino nella valle conquistando Gottasecca, Camerana, Roccavignale ed Altare. Il  sopraggiungere di rinforzi spagnoli, mandati in soccorso dal Governatore di Milano, lo costringe però a rientrare nei suoi confini. L'anno successivo riprende le ostilità, e per la seconda volta gli Spagnoli inviano grossi contingenti che presidiano in forze Spigno, Cairo e Millesimo, guardati a vista dalle truppe savoiarde che hanno raggiunto Cortemilia. Gli scontri coinvolgono anche la popolazione civile, i soldati si abbandonano a ruberie e devastazioni, specie nei confronti di edifici sacri ([26]).
Per alcuni anni le attività militari segnano il passo, ma l'assenza di truppe regolari non significò, per gli abitanti di questa infelice terra, pace e tranquillità: bande di banditi, al soldo di qualcuna delle potenze in lotta, ora di Genova, ora del Duca sabaudo, desolavano le campagne. Le loro scorrerie hanno lasciato tracce più nella memoria popolare che in documenti scritti: talora però ci si imbatte, casualmente, in qualche testimonianza del loro passaggio ([27]).
Nel 1624 gli scontri hanno un'improvvisa recrudescenza proprio in Val Bormida, in cui fanno la loro comparsa, a fianco di quelle savoiarde, truppe francesi. Saranno quest'ultime a distinguersi nella prima impresa “militare” testimoniata per le nostre terre, allorché nel 1644 saccheggeranno Calizzano. L'anno successivo altra azione di guerra in val Bormida, questa volta centrata su Cairo Montenotte assalito e bombardato dalle truppe franco-sabaude ([28]). Ancora tre anni di relativa pace, e poi nuovi atti di violenza ai danni delle indifese comunità della valle. Questa volta tocca a Carcare,
saccheggiato dai piemontesi ([29]), a Rocchetta di Spigno, il paese della maggioranza delle “streghe” coinvolte nel processo, devastato dai francesi che commettono omicidi sin nella chiesa ([30]), ad Altare, a Roccavignale ([31]) assalite dai francesi, a Osiglia, angariata da una banda di briganti capitanata da un certo Bartomelino Pozzoverasco che tanto ricorda il “Conte del sagrato” di manzoniana memoria ([32]).
Negli anni successivi le armi tacciono. Un silenzio innaturale scende sui paesi devastati dalla guerra, sulla popolazione ridotta alla fame dal passaggio continuo di troppi eserciti nemici. Ma anche negli accampamenti c'è silenzio e morte: un nuovo generale si aggira tra le lande spettrali cui venti anni di guerra hanno ridotto l'Italia Settentrionale: è la peste, che in tanta miseria disperata è l'unica forza a non avere speciali riguardi per nessuno, e al cui assalto devono cedere tutti, anche i potenti. Per un breve periodo le armi restano inoperose, e anche i soldati guardano con terrore questo nuovo nemico naturale.
La guerra langue, ma la popolazione trema: “Le strade non sono sicure per gli Alemanni che commettono molti inconvenienti” (!) – scriverà il 3 gennaio del 1631 il parroco di Spigno al suo Vescovo a Savona – non si può menare il grano né a Piana né a Giusvalla per causa della soldatesca”,e ancora - il 24 dello stesso mese, “si teme più tosto guerra che pace, né gli Alemanni si partono da queste parti per la novità dei Francesi in Savoia e Piemonte”([33]).
Ma appena anche il nuovo flagello della peste è passato, la guerra si riaccende cieca e devastante, portando ancora altri dolori e lutti in un paese già prostrato, esigendo nuovi tributi di vite là dove troppe ne erano già state travolte.
Il 1636 si apre con avvenimenti preoccupanti per gli abitanti della Val Bormida, rimasti in pochi nei paesi spopolati dalla peste. A gennaio milizie sabaude si affacciano fin a Millesimo, ne prendono prigioniero il feudatario, il conte Nicolò Del Carretto, portandolo a Ceva, e si dirigono minacciose su Carcare. Il presidio spagnolo che occupava questa località si ritira verso Spigno, Cairo viene fortificata ([34]).
L'anno successivo i franco-piemontesi dilagano in Val Bormida, prima Carcare e poi Cairo vengono pesantemente saccheggiati ([35]). Dopo una breve pausa di pochi mesi, durante i quali la guerra si sposta su altri teatri, le operazioni militari hanno una improvvisa recrudescenza in Val Bormida, con epicentro proprio nella zona di Spigno dove, nel 1637, l'armata spagnola guidata da Martino d'Aragona viene sconfitta, nella piana antistante il paese, dai piemontesi del duca Amedeo di Savoia e, due anni più tardi, nel triangolo Saliceto-Cengio-Cairo, in cui si trovavano concentrate parecchie migliaia di soldati francesi, piemontesi e spagnoli. Questi ultimi, nella primavera del 1639, profittando della complicata situazione in cui si trovava il Piemonte, all'epoca della cosiddetta “guerra civile”, cercano di occupare il potente castello di Cengio, difeso da un notevole circuito di fortificazioni, che costituiva la chiave dell'ingresso in Piemonte ([36]): per aver ragione dei difensori del castello occorre una settimana (23-30 marzo) e quando gli ultimi occupanti si arrendono sul terreno resteranno, fra francesi, piemontesi e spagnoli, oltre 800 caduti. In seguito a questa vittoria tutta la zona fra Millesimo e Cengio viene occupata dagli Spagnoli, ma sarà una presenza tutt'altro che definitiva.
La guerra che ormai da quasi una generazione sconvolgeva praticamente tutta l'Europa presentava una caratteristica, quella di alternare a momenti di scontri mesi di relativa tranquillità. Anche nella zona oggetto del presente studio si verificò questa strana situazione, specie fra il 1639 e il 1644: per quasi cinque anni non ci furono fatti d'arme militari di un certo rilievo, e la popolazione poté vivere in una relativa tranquillità.
 Poi, all'improvviso, la guerra fa nuovamente sentire il suo impeto. Nel 1644 tocca ancora una volta a Carcare, assalito dai franco-piemontesi: respinti dal castello, ripiegano su un meno pericoloso saccheggio delle abitazioni ([37]).
E così fiammate di guerra e brevi periodi di pace si alternano per diversi anni, inframmezzate da tanti piccoli episodi di soprusi e angherie.
Sono queste le vicende di guerra che stavano sconvolgendo in quegli anni Spigno e i paesi vicini: ci è sembrato importante dilungarci nella loro illustrazione perché da esse scaturì probabilmente quella situazione di incertezza, paura, terrore, disperazione che a sua volta generò le condizioni perché quel processo potesse celebrarsi: fattucchiere, guaritrici e “streghe” erano infatti sempre state presenti nella realtà (o nella fantasia) delle popolazioni della zona, talvolta ricoprendo anche un ruolo di indubbio valore sociale, quello, diremmo oggi, di “medici di base” in un'epoca in cui il ricorso al medico “vero” (vero?) era possibile unicamente ai ricchi: solo quando la situazione diventa disperata la loro presenza, prima tollerata o addirittura ricercata, diventa sintomo di una devianza da eliminare perché la società possa sopravvivere.
C'è ancora un ulteriore elemento da tenere in considerazione per raccogliere il maggior numero  possibile di elementi atti a comprendere quanto successe a Spigno.
La guerra produsse innanzitutto una generalizzata miseria e l'impoverimento di diverse comunità, soprattutto quelle che, come Carcare, Cairo e appunto Spigno, erano situate sulla via di transito delle truppe. Questi centri si trovavano - giova ricordarlo - sulla strada che dalla rada di Finale, luogo di sbarco delle truppe spagnole, andava verso il retroterra padano e la Lombardia: tutte le truppe dirette nell'ex Ducato di Milano, all'epoca possedimento spagnolo, transitavano lungo questa via, sulla quale passavano anche molti rinforzi che la Spagna inviava nel nord Europa (Austria, Fiandre) per le quali la traversata via mare davanti alle coste ostili di Francia e Inghilterra presentava troppi pericoli. Questi soldati dovevano essere ospitati. E anche quando si trattava, caso raro, di truppe disciplinate, che non volevano “insegnar la verecondia alle ragazze o alleggerire i contadini dalla fatica della vendemmia”, come ricorda il Manzoni, restava pur sempre l'obbligo, per i paesi attraversati da tali truppe, di fornir loro cibo e mantenimento: e non era obbligo da poco.
Ecco quindi le frequentissime suppliche che alcuni paesi, soprattutto quelli posti lungo la strada, furono costretti ad inviare alle Autorità Spagnole per chiedere di essere esentati da un compito che diventava sempre più intollerabile ([38]).
Al mantenimento dei soldati si univano poi le angherie piccole e grandi cui erano obbligati gli  abitanti, dal fornire alle truppe i cariaggi e le bestie da tiro, per trasportare i bagagli ([39]), alla consegna di denari o derrate alimentari ([40]), al foraggiamento della cavalleria di passaggio, a “lavori forzati” intorno alle fortificazioni dei castelli ([41]).
Di molte delle sofferenze che la guerra inflisse a queste popolazioni contadine mancano oggi testimonianze scritte, appartenendo tali sofferenze a quella “cultura del silenzio” che caratterizza le zone agricole, nelle quali le vicende della povera gente sono affidate al ricordo orale e non lasciano
che labili prove scritte. Fra le poche giunte fino a noi ci sembra opportuno riportarne due proprio allo scopo di evidenziare le condizioni di disperazione in cui guerra e passaggi di soldatesche varie avevano gettato la popolazione e che provocarono poi quello scoppio di intolleranza che fu il processo di Spigno.
La prima è una lettera inviata nel marzo del 1639 da Carcare dal padre scolopio G. Crisostomo Peri a S. Giuseppe Calasanzio, il fondatore del Collegio delle Scuole Pie che il santo spagnolo proprio in quegli anni (nel 1621) aveva eretto nel paese. In essa accennando ai movimenti delle truppe spagnole dirette verso il castello di Cengia presidiato da quelle franco-piemontesi, il sacerdote ricorda che “l'armata francese stata qui a Carcare 13 giorni ha rovinato tutto questo povero luogo: le biade che erano così belle sono state mangiate dai cavalli in luogo di fieno e non c'è speranza di poterne raccogliere messe alcuna” ([42]). La seconda è una supplica del Consiglio Comunale di Cairo del 1637 in cui si ricorda che “a Cairo viene fatta  grande istanza che si voglia sovvenire i poveri d'un poco di grano di quello del monte di pietà” ([43]).
È quindi una situazione di generale miseria e povertà, che non poteva non sboccare nelle drammatiche conseguenze che in realtà ebbe: carestia, indebolimento, malattie, epidemie. Era ormai giunto il tempo che apparisse la terribile nemica, che riempì di terrore l'intera Europa: la peste.
(per approfondimenti sulla guerra dei 30 anni in Val Bormida v.
 storiadellavalbormida.blogspot.it/2016/12/la-bormida-durante-la-guerra-trenta_21.html

3. La peste.
Questa devastante epidemia, figlia della guerra, della miseria e dell'indebolimento della popolazione ([44]), arrivò anche nelle nostre terre, dove lasciò un solco profondo di sofferenze e di morte. Essa fu inoltre, a nostro avviso, la vera causa che determinò, con la desolazione in cui gettò le popolazione della Valle, quello scoppio di disperata intolleranza che fu il processo alle streghe di Spigno.
Per capire cosa allora successe occorre quindi cercare di verificare l'impatto che tale malattia contagiosa ebbe sulla popolazione della valle.

3.1 La peste nella valle.
Non esistono, che io sappia, studi specificatamente dedicati a questo avvenimento per quanto concerne l'area valbormidese, anche se praticamente ogni libro di storia locale ha il suo capitolo in cui l'epidemia di peste viene presentata, talora anche con un tono apocalittico ancor più grave di quanto fu in realtà.
Esaminando comunque gli scarni dati racimolabili da fonti diverse è possibile farsi un quadro, certo impreciso e parziale, che dà comunque un'idea del terribile impatto che la pestilenza del 1631 ebbe sulle popolazioni valbormidesi.
Nella zona l'epidemia - che in Italia Settentrionale durò dal 1629 al '33, col suo culmine nel '30 (la peste del Manzoni) - arrivò in due ondate, una nel 1630, la seconda, più devastante, l'anno successivo.
Nel 1630 furono colpiti, nella valle, pochi paesi (Biestro, Altare, Piana e appunto, Spigno) con un numero di decessi significativo rispetto alla media annua ma non elevatissimo: ben più grave sarà invece l'epidemia del '31, che colpì, per di più, anche i paesi in cui era già apparsa l'anno precedente.
Per ricostruire quanto successe nella zona, ancora una volta una fonte insostituibile è rappresentata dagli Archivi parrocchiali e dai registri (quelli dei battesimi, dei matrimoni e dei morti) in essi conservati: si tratta però di dati incompleti in quanto molti di tali archivi furono saccheggiati dalle truppe francesi nel 1796-99, e i documenti dispersi o distrutti. Ciò che resta ci permette comunque di delineare un quadro sommano paese per paese.
La prima località per la quale troviamo dati significativi è il piccolo centro montano di Biestro (Sv.): qui, come si è detto, la malattia arrivò nel 1630, facendo nel solo mese di agosto 32 morti ([45]): per valutare questo dato nel suo valore basterà notare che la media annua dei morti era, in quel paese e in quegli anni (1624-1629), di 8/9 decessi, mentre la popolazione ammontava (nel 1654) a 320 persone: la peste eliminò il 10% degli abitanti!
Altri dati sono disponibili per Altare, al cui riguardo i registri conservati nel locale archivio parrocchiale ci forniscono diverse informazioni sull'evoluzione del contagio: i primi decessi si ebbero nel 1630, anno che vide 86 morti contro una media di 27-30 del periodo precedente ([46]). L'accresciuta mortalità non venne però probabilmente identificata (o non la si volle identificare) con la peste, mancando nei registri parrocchiali ogni annotazione al riguardo.
L'anno successivo non fu invece più possibile farsi illusioni, il contagio era penetrato nel paese e la peste fu riconosciuta come tale: i decessi,concentrati nei mesi estivi, salirono a 106 (in un paese di neppure 800 abitanti ([47]) e in almeno 57 casi il parroco nel registrare i nomi sul liber defunctorum precisò ”mortuo morbo pestis”, morto di peste.
Il contagio ebbe uno strascico anche nel 1632, quando il morbus pestis è ricordato come la causa di due decessi.
Ad Altare, come in altri centri, la peste lasciò conseguenze sull'andamento demografico del paese: i matrimoni, nel 1631, scesero a 6 contro una media annua di 12-13, le nascite si ridussero a 32 di fronte alle 48-54 degli anni “normali” ([48]). Conseguenze ci furono anche nei rapporti sociali, almeno a giudicare dai tre omicidi che avvennero nel paese, non sappiamo per quale motivo, fra l'aprile e il luglio di quel tragico 1631 ([49]).
In altri centri della Val Bormida la malattia arrivò con un anno di ritardo rispetto a Biestro ed Altare, ma il passare dei mesi non ne aveva certo diminuito la virulenza. Ancora una volta sono i Registri degli Archivi parrocchiali a farci intravedere la vastità del contagio: a Cairo, di fronte ad una media annua di decessi compresa fra 50/70 ([50]) si arriva, nel 1631, alla drammatica cifra di 503 ([51]). Anche per Carcare l'archivio parrocchiale fornisce dati abbastanza precisi: esiste infatti ([52]) la testimonianza lasciataci da Giò. Giacomo Barbieri, succeduto come parroco al suo predecessore vittima della peste, che così annotò: “ L'anno del Signore 1631, restando vacante la chiesa della Carcare per la morte del p. Francesco Berruti, curato, che se ne morì di peste nel mese di luglio  ([53] )ci andai nell'anno 1632 restando il loco purgato e ben netto dal contaggio dell'anno 1631 antecedente, per il quale sono morti tra grandi e piccoli cento settanta “.
A Carcare l'epidemia dovette quindi cessare nel 1632, dato confermato anche da una annotazione dcl “ Libro dei Matrimoni “ ([54]), lasciando però, oltre ai morti (170 su una popolazione di ca. 750 ab.), una popolazione stremata, che per anni trascinò le conseguenze della strage: ancora nel 1634 i
matrimoni furono 3, nel 35 uno, contro una media di almeno una ventina negli anni precedenti al contagio.
Altare, Calcare, Cairo e, in misura minore, Biestro, sono gli unici paesi dell'alta Val Bormida per i quali si conoscano documenti d'archivio coevi riportanti con una certa precisione l'estensione del contagio: per altri paesi i dati sono più indiretti, ma comunque sufficienti a farci intuire che ovunque la peste colpì con durezza.
Per Calizzano una relazione francese del 1808, invero un poco tarda, ricorda 400 morti di peste nel 1631 ([55]) l'archivio parrocchiale di questo paese non offre testimonianze dirette, alcuni registri presentano però delle lacune fra il maggio del 1631 e il marzo del 1633, probabilmente causate dagli sconvolgimenti provocati dalla pestilenze, mentre annotazioni risalenti al 1640 ed esistenti nel, “libro degli ordinati” ricordano il 1631 come ”tempo di peste” ([56]). Analoga testimonianza è offerta nello stesso paese anche da un cartiglio, datato al 1631 – “peste Calizzani grassante” - presente su un quadro della cappella di S. Rosalia (venerata come protettrice dalla peste) e raffigurante un carro carico di cadaveri mentre altri cadaveri sono stesi a terra. Una testimonianza indiretta del diffondersi della peste a Calizzano, e del suo allargarsi, proprio partendo da questo centro, sui paesi
della costa, si ha in un interessante documento riportato dal Silla nel suo studio su Finale ([57]): esso ricorda come in questo ultimo paese la peste fosse stata portata “dal tercio (=reggimento) appestato di fiorentini e per il ritorno del Muto di Bardino impestato da Calizzano, ove esso mutto serviva per monatto “.
Analogamente a Millesimo l'archivio parrocchiale presenta solo tracce indirette del contagio, mancando il “Registro dei Morti”: dal superstite “Libro della nascite e battesimi 1596-1635 “ veniamo comunque a sapere che anche in questo paese il 1631 fu “tempo di peste” ([58]) . Pur non conoscendo con precisione l'ampiezza che il contagio raggiunse in questo paese, un dato indiretto ci conferma che esso fu comunque diffuso: di fronte, infatti, ad una media annua di nascite oscillante intorno a 25/30, nel 1631 esse furono solo 16 e di queste solo 5 nel periodo aprile/dicembre, quando
più infuriava, almeno nei paesi vicini, la pestilenza.
Lacunoso pure l'archivio parrocchiale di Dego, ma anche qui una conferma indiretta dell'imperversare del contagio: il registro dei battesimi ([59]) presenta un'ampia lacuna proprio nel periodo di massima diffusione del contagio: l'ultima registrazione risale infatti al 5 febbraio del 1631 e poi c'è il vuoto fino all'anno successivo, allorché l'annotazione”Descrizione nuova fatta da me infrascritto Gaspare Sicho, moderno arciprete di Dego, incominciando l'anno 1632” ci permette di capire che anche qui la peste fu presente, portando via, fra gli altri, anche il parroco e determinando, di conseguenza, la fine di ogni registrazione fino all'arrivo, cessato il contagio, del successore.
Una labile testimonianza anche a Cosseria, dove la mancanza del “Registro dei morti” non permette confronti diretti: ma anche per questo paese il superstite “Registro dei Battesimi” (che, e forse non è un caso, inizia dal 1635) segna un progredire delle nascite man mano che ci si allontana dall'anno della peste: 14 battesimi nel 1635, 24 nel '36, 25 nel '37, 29 nel 1638.

3.2 La peste a Spigno.
La ricostruzione degli effetti della peste a Spigno, Rocchetta, Merana, Piana, cioè nei paesi più direttamente interessati dal processo oggetto di questo studio, è importante ai fini della ricostruzione dell'ambiente in cui si svolse il processo stesso. Essa è resa più facile, rispetto ad altri paesi, proprio
dagli atti e documenti processuali, nei quali, specie nelle lettere, le citazioni riguardanti la peste sono tanto presenti quanto quelle concernenti le streghe, evidenziando così come il binomio peste-streghe fosse nella mentalità dell'epoca inscindibile.
Nella zona il contagio si diffuse, non sappiamo in quale misura, fin dal 1630; alla fine dell'anno, coi mesi invernali, la malattia ha una pausa, che viene interpretata come la cessazione del morbo
"a Spigno si fa la quarantena nel modo avuto a Milano":
 a Milano il povero Giacomo Mora, e altri accusati di aver
 diffuso la peste,  furono "giustiziati tra atroci tormenti,
 ben rappresentati in questa stampa

“A Spigno - scrive il parroco d. Verruta al Vescovo il 3 gennaio '31 - si sono purificate le case infette,si fa la quarantena generale nel borgo con la diligentia et il modo avuto da Milano ([60]), né più more alcuno, et sono più di 25 giorni che non è morta persona alcuna “.
Si fa anche il conto dei danni e dei lutti, non indifferenti: “Sulle fini di Montechiaro sono rimasti pochi huomini, il prevosto di Montaldo è scappato per timore della peste, a Turpino, per grazia di Dio, non vi è successo male se non in una famiglia”,
L'illusoria speranza che la peste sia finita si avverte anche in una lettera di poco posteriore, inviata dallo stesso arciprete al Vescovo alla fine di gennaio: “Nella cascina (del Vescovo) le cose vanno male, et il difetto consiste nel male del contagio, per esservi morta gente nella cassina, qual si farà nettare et purificare come si conviene, per sicurezza di tutti. A Spigno le cose passano bene, sono più di un mese che non è morto alcuno e non vi è alcun malato, facendosi la quarantena generale con buonissima regola e modo nel borgo: che però spero in Dio benedetto s'acquetino le influenze”.
Nella speranza del parroco la peste è quindi finita, le “influenze” (!) che l'hanno provocata si sono acquetate e ora resta solo da fare la quarantena, pulire le case infette e cercare nuovi affittuari per i beni rimasti vacanti.
Ma con l'arrivo dei primi tepori primaverili l'epidemia dilaga nuovamente con aumentato vigore, infrangendo le illusorie speranze della gente.
Sono ancora le lettere degli amministratori dei beni della mensa vescovile indirizzate al Vescovo ad illustrarci il precipitare della situazione: il 17 aprile il parroco di Spigno scrive che “è venuto il Prevosto di Piana dicendo che non vuol più stare a Piana per la contagione (ma a differenza dei suoi colleghi di Cairo e di Montaldo non lascerà i suoi parrocchiani fino a quando, due mesi più tardi, morrà di peste) e due degli affittavoli (dei beni vescovili) sono morti di contaggione. Lo Sgorlino - affittavolo di un'altra cascina appartenente al Vescovo- sta bene et s'è ritirato alla cassina dell' Abbazia di Spigno per fuggire la peste”; il 21 maggio è “dominus Bertuzzo, mastro di casa della Mensa vescovile” a comunicare al Vescovo che “ hoggi mi hanno detto che il prete di Piana morto di contagiane e sono morti anche quelli che tenevano i beni di Piana”. Quanto allo Sgorlino “sta bene, ma gli sono morti due figlioli, il primo e l'ultimo.Il Vescovo cerca un altro sacerdote per non lasciare Piana sprovvista di una guida spirituale in quei drammatici giorni, ma non ne trova: anche l'invito fatto ai Francescani di Spigno di inviare provvisoriamente un loro frate a Piana viene cortesemente declinato “dolendomi oltre modo di non poter servire V.S. Ill.ma stante che in Piana moiono del continuo del morbo contagioso”, come scrive il 4 giugno al Vescovo di Savona il Padre Guardiano dei Francescani di Spigno, et il morbo procede in non voler far nettare le case infette” ([61]). La paura del contagio è forte, e il 21 luglio il paese è ancora senza sacerdote: “ dimani vado a Piana per veder se quel prete di Dego vi volesse andar, scrive d. Verruta al Vescovo: e dopo la visita infruttuosa fa del paese un quadro drammatico: “A Piana in chiesa ci sta il lume (la lampada del SS. Sacramento), ma per li corpi insepolti niuno vi ardisce andarci. Lo Sgorlino sta bene “.
A settembre la situazione è ancora drammatica: “A Piana - è sempre d. Verruta ad informarci - le cose non possono andar di peggio, né in modo alcuno trovo prete che vi vogli attendere. Monsignor (Vescovo) d'Acqui è morto di contagio ([62]) e le cose passano malissimo. A Turpino sono morti quasi tutti di peste, i rastrelli sono serrati per la peste, a Spigno le cose vanno assai bene, se ben succede qualche caso nelli filioli maleficati dalle streghe che restano ancora di fuori delle carceri”: per intendere cosa significhi quel “le cose vanno assai bene “ basterà notare che in 15 giorni - dal 4 settembre all'8 ottobre - si contano ben 28 morti “di contaggio “ ([63]), morti che, come ricorrerà due anni più tardi un sacerdote in una lettera indirizzata al Vescovo di Savona “”in tempo di contaggio, per ordine del sig. Commissario si seppellivano dove si ritrovavano, senza portarli alla chiesa” ([64]).
Nell'ottobre, finalmente, si trova un sacerdote disposto a recarsi a Piana almeno per amministrare i matrimoni: è quel d. Bertuzzo già prima ricordato, che il 3/10/1631 riceve apposita autorizzazione dal Vescovo “attento notorio epidemiae impedimento et epidemiae morbo qui locum Planae graviter invasit “.
Con l'arrivo dell'autunno, finalmente, la virulenza del contagio si attenua per poi, lentamente, sparire.
A Giusvalla, a pochi chilometri da Spigno, la popolazione chiede al Vescovo il permesso di celebrare la messa all'aperto “per vedere di schivare li pericoli di contagione dai quali, ancorché siamo circondati, per grazia di Dio e di M.V. siamo ancora liberi” ([65]), a Spigno, il 21 ottobre, d. Verruta con timida speranza comunica al Vescovo che “il contagio pare abbi cessato, sendo più di otto giorni che non s'è ammalato né morto alcuno: Dio per sua misericordia ci aggiuti et diffendi”“ .
Il 22 dicembre buone notizie anche per Piana, dove “si nettono le case et è cessato il contagio”.
La fine della peste, pur nel perseverare della guerra, viene celebrata con manifestazioni di festa e di gioia: si adempiono i voti fatti durante l'imperversare del morbo ([66]), si canta e si balla con tanto slancio da suscitare i rimproveri del Vescovo ([67]).
Si tirano però anche le prime somme: “Molti paesi del Vescovado di Acqui sono privi di preti, scriverà d. Verruta al Vescovo il 22 dicembre 1631, ( .. ) molte possessioni sono gerbide (non coltivate) per essere state abbandonate ( .. ), a Turpino non v'è gente per la contagiane, ( .. ) vanno gerbide possessioni di rilievo”: ci si conta, molti mancano, tra questi un altrimenti anonimo valbormidese, quello Sgorlino più volte ricordato come affittuario del Vescovo e rifugiatosi in una cascina per sfuggire al morbo: dopo aver perso due figli, il 19 novembre “è morto con tutti li suoi e non vi è rimasta che solo una figlia piccola”. Un piccolo dramma nel gigantesco dramma della peste.
Se si passa infatti ad analizzare i dati relativi alla popolazione di singoli centri, almeno quelli per i quali disponiamo di dati complessivi significativamente precisi, l'impatto determinato dall'epidemia del 1630-31 può essere valutato in tutta la sua ampiezza: Dego passa da 1312 a 532 ab. (-59%), Rocchetta Cairo da 283 a 270 (-4,5%: fu un paese veramente fortunato!), Sassello da 2604 a 1500 (-42%), S. Giulia da 400 ca. (il dato non è sicuro) a 332, Scaletta da 400 (dato non sicuro) a 154 ([68]).
Per altri centri i dati assoluti sono meno precisi, ma possono ugualmente fornirci qualche  indicazione: Carcare passa da 750 abitanti presunti per il 1612 ([69]) ai 592 del 1687, con una differenza in meno che è quasi identica al numero delle vittime della peste fornito dalla ricordata annotazione del parroco G. Barbieri. Per Cosseria, invece, i dati sono più imprecisi, soprattutto per il troppo ampio intervallo che li separa: gli abitanti erano 904 nel 1628 ([70]), ma per trovare un'altra indicazione attendibile bisogna aspettare due secoli, fino al 1824, quando erano solo 740: un intervallo troppo lungo, per addebitare tale calo solo alla peste ([71]) : ma il dato è comunque interessante.

Dopo i dati particolari di singoli paesi possiamo anche tentare un bilancio conclusivo, che appare sconsolante.
Alcuni centri della Val Bormida, specie nei suoi settori meridionali, appartenevano all'epoca alla Diocesi di Acqui, per la quale sono disponibili dati complessivi della popolazione.
 I suoi abitanti erano 77822 nel 1586, scenderanno a 40647 nel 1639, con una diminuzione di 37175, pari al 47%: l'allora Vescovo di Acqui, mons. Felice Crova, succeduto al suo predecessore morto di peste, può quindi sconsolatamente scrivere che “per le terre della Diocesi delle tre parti sono morte le due” ([72])
Ecco i frutti combinati di guerra e peste: da qui nacque il processo alle streghe.
(per approfondimenti sulla peste in Val Bormida v.


4. I retroscena
4.1. Il feudo di Spigno.
Al tempo dei fatti oggetto del presente studio Spigno era un piccolo paese di circa 1000 persone, posto lungo la strada che dal mare (Savona, Finale) andava alla pianura padana.
I suoi abitanti vivevano di una economia prevalentemente contadina soggetti ad un feudatario locale: Spigno era infatti un feudo imperiale.
Vediamone brevemente la storia.
I luoghi della storia

Questo piccolo centro, di probabile origine romana, ebbe una certa espansione nel medio evo, soprattutto a partire dal 991, quando vi fu fondata l'abbazia benedettina di S. Quintino. Iniziò da allora quella dualità, quel conflitto di giurisdizione fra potere laico (il feudatario) e religioso (il Vescovo) che vedremo caratterizzare il processo del 1631.
All'epoca della fondazione dell'abbazia il territorio di Spigno apparteneva ai marchesi Anselmo ed Ottone, figli di quell'Aleramo da cui praticamente iniziò la storia feudale della Liguria savonese e del basso Piemonte. Da essi discese Ugone, capostipite dei marchesi di Ponzone che tennero questo feudo per diversi secoli. Nel 1232 Enrichetta e Manfredino  marchesi di Ponzone vendettero parte della giurisdizione su Spigno a Giacomo Del Carretto: da questo momento la grande famiglia carrettesca, i cui diversi rami signoreggiavano su tutta la Val Bormida fino al mare, diventa proprietaria del feudo, di cui completerà l'acquisto fra il 1300 e il 1335. Nel 1290 i Signori di Spigno prestano giuramento di fedeltà alla Repubblica di Genova, che da quell'anno avrà quindi la “superiore sovranità” sul territorio. Nel 1419 Genova deve però cedere al Monferrato tutti i diritti dalla stessa detenuti sui suoi possedimenti oltregiogo e a partire da tale data i Del Carretto di Spigno riceveranno l'investitura, anzichè da Genova, dai Paleologo del Monferrato e, dopo l'estinzione di questa casata nel 1533, dai Gonzaga di Mantova cui erano passati i diritti dei Paleologo.
Nel 1532 Albertino Del Carretto vende metà di Spigno a Francesco Spinola, marchese di Garessio, fratello dell'allora Vescovo di Savona. Nel 1579 l'altra metà di Spigno passa, in seguito all'estinzione della linea maschile della locale famiglia carrettesca nella persona di Caterina Del Carretto, al figlio di Caterina, Luigi Asinari, cui a quanto pare rimase la giurisdizione intera del paese. A Luigi nel 1614 successe il figlio Marco Antonio Asinari Del Carretto, che è il Marchese (il feudo era infatti stato elevato a dignità di marchesato da Filippo II re di Spagna) che si troverà a gestire il processo del 1631.

4.2 L'abbazia di S. Quintino
Le vicende di Spigno furono però sovente intrecciate con quelle dell'abbazia di S. Quintino, edificata nei pressi dell'abitato nel X secolo: l'importanza di tale fondazione monastica travalicò la sfera religiosa, sconfinando nel campo politico e gettando le premesse per quell'intrecciarsi di competenze religiose e laiche che vedremo caratterizzare questo processo.
Pur facendo parte Spigno della diocesi di Acqui (nel 991, non nel 1631!) e del comitato acquense, il fondatore dell'abbazia volle infatti che la stessa fosse “in consecratione episcopi sancte Vadensis ecclesiae” ([73]) , dipendesse cioè dal Vescovo di Savona anzichè da quello di Acqui. È per questo motivo che nel 1631 troveremo Spigno dipendere ecclesiasticamente dalla diocesi savonese, pur essendo incuneato fra i territori di quelle di Acqui e di Alba.
Ma la presenza del Vescovo di Savona aveva anche un ruolo politico, dato che il Vescovo savonese aveva sull'abbazia di Spigno non solo la giurisdizione ecclesiastica, ma anche quella politica: fra il 1325, infatti, e il 1469 l'abate di S. Quintino acquisì dai Marchesi di Ponzane la giurisdizione feudale sull'abbazia stessa e sui vicini centri di Lodisio, Cagna, Turpino, Pianae Giusvalla, ove il monastero aveva vasti possessi. L'abate diviene pertanto feudatario. E così nel 1484 lo vediamo prestare giuramento di fedeltà al Marchese del Monferrato, come un qualsiasi feudatario, per i feudi sopra ricordati. ·
Nel novembre del 1500 con bolla del papa Alessandro VI l'abazia viene ceduta al clero secolare e unita con tutti i suoi beni alla mensa vescovile di Savona. Da allora il Vescovo di Savona assume il titolo di feudatario di Cagna, Piana, Giusvalla e Lodisio. Come feudatario nel 1512 verrà investito dal marchese Guglielmo di Monferrato della giurisdizione su queste località ”con mero e misto impero e con facoltà di spada”.
L'abbazia di Spigno(da 
http://web.mclink.it/MH0688/Fuoriclasse/mappa.htm)

Nel 1531 il Vescovo di Savona, Agostino Spinola, fratello di quel Francesco sopra citato, “per accrescere splendore di dominio alla propria casa ne privò la chiesa savonese” ([74]) vendendo (anzi, permutando con altri beni) apppunto al fratello Francesco i feudi di Cagna, Piana, Giusvalla, Turpino e Rocchetta di Spigno, riservando così alla chiesa savonese la sola giurisdizione feudale su Lodisio, fra l'altro in compartecipazione con il marchese di Garessio.
A partire da tale data sul territorio oggetto del presente studio convivono quindi più o meno felicemente tre signorie: il marchese di Garessio Francesco Spinola (omonimo del precedente ma posteriore di un secolo: morirà nel 1632), signore di Dego, Cagna, Piana, Giusvalla, Turpino (e forse di Rocchetta di Spigno e di parte di Spigno), nonchè consignore di Lodisio, il marchese di Spigno, Marco Antonio Asinari Del Carretto, ed infine il “supremo signore di Lodisio“ nella persona del Vescovo di Savona sedente in cattedra (nel 1631 è Francesco Maria Spinola, parente - alla lontana - del Marchese di Garessio).
Il Vescovo di Savona aveva anche la giurisdizione ecclesiastica su tutto il territorio già di proprietà della ex abbazia di S. Quintino (o almeno sulle chiese di Spigno, Piana, Turpino, Giusvalla, Rocchetta di Spigno e Merana, di cui nominava i sacerdoti), nonché la proprietà dell'abbazia e di quanto restava dei suoi beni.
Come si vede una situazione complicata.

4.3. Dietro alle quinte.
Il secondo gruppo di documenti conservato nell'archivio vescovile di Savona ( e presentato integralmente in calce ) ci permette di raccogliere nuove, più ampie informazioni sulla genesi del processo, il suo svolgimento, la sua conclusione e, soprattutto, i suoi retroscena. Come già detto si tratta della corrispondenza, in originale o in copia, intrattenuta tra il parroco di Spigno, don Giovanni Verruta e il suo Vescovo (o la cancelleria vescovile), mons. Francesco Maria Spinola, nonchè tra il Vescovo, il padre inquisitore di Genova, fra' Pietro Ricciareli e la Congregazione del S. Offizio di Roma nella persona del suo procuratore Stefano Senarega e del Cardinale di S. Onofrio. Ci sono poi le copie delle lettere che d. Verruta inviò, per ordine del Vescovo,alle autorità giudiziarie di Spigno, nella persona del procuratore fiscale Vincenzo Bachiello, nonchè l'origjnale della lettera che il marchese di Spigno, Alfonso Asinari Carretto, inviò al Vescovo al termine del processo. In tutto si tratta di 29 documenti di un'importanza veramente notevole· perché ci rivelano -molto più della documentazione costituita dagli atti legali, fra l'altro incompleta -  i retroscena di questo processo, che fu, anche e soprattutto, uno scontro tra due giustizie e due giurisdizioni diverse, quella laico/ feudale e quella religiosa, entrambe gelose delle loro prerogative.
È quindi questa una delle non frequentissime occasioni in cui un avvenimento storico di una certa importanza, sia dal punto di vista sociale, sia da quello sottinteso dalle implicazioni dello scontro tra potere laico e religioso che in esso si verificarono, può essere studiato, e compreso, non solo tramite la documentazione legale ufficiale e pubblica ma anche tramite quella, per così dire “privata” e riservata, che ci apre uno squarcio interessante su ciò che fu una drammatica vicenda e un episodio indicativo della dialettica tra “ Stato “ (nella persona di un marchese) e Chiesa, tra Giustizia di Stato e Giustizia di Chiesa.
Il primo documento ( lett. 1) che tratta, anche se di sfuggita, il problema del processo alle streghe di Spigno risale al 17 luglio del 1631, cioè cinque giorni dopo l'apertura del processo stesso: è una semplice frase in una lettera che d. Verruta scrisse al Vescovo cui ricorda che “già ho scritto a V.S. Ill.ma circa le donne incarcerate. Aspetterò ordini”. Dalla lettera si capisce che il Vescovo era già stato informato in precedenza, forse tramite una lettera a noi non pervenuta. Appare anche quella che si rivelerà essere la dote e la caratteristica tipica di d. Verruta in tutto il processo: non dimenticare mai di esercitare il ruolo di vicario del Vescovo e di agire sempre sulla base delle disposizioni ricevute e non delle proprie convinzioni.
Il 21 luglio una seconda lettera (lett. 2) inizia a rivelare particolari interessanti: d. Verruta scrive che ”si sono già interrogate una volta le donne incarcerate et il Dottore (il procuratore fiscale, oggi diremmo il pubblico ministero o il GIP) dice (che) converrà torquerle (=torturarle) sendo gravate (= indiziate) a tal segno. Con tutto ciò esseguirò l'ordine datomi di interrogarle per la seconda volta et mandare costì (= a Savona, in vescovado) le scritture “.
È qui testimoniata per la prima volta quella che poi sarà la costante di tutto il processo: le  divergenze fra le autorità feudali locali, decise a andare avanti con rigore e pesantezza (uso della tortura) e quella religiosa rappresentata dal Vescovo che invece, prima di autorizzarne l'uso, voleva visionare i verbali del primo interrogatorio. In mezzo d. Verruta, pronto ad ubbidire agli ordini dcl Vescovo ma in cuor suo forse stupito di fronte a tante delicatezze verso quelle che per lui erano senz'altro streghe pericolose: non dimentichiamo che le streghe erano considerate fra le principali artefici della diffusione della peste, che proprio in quei giorni mieteva vittime anche a Spigno e dintorni, come la stessa lettera di d. Verruta ricorda esplicitamente.
Siamo anche di fronte alla prima illegalità, o comunque scorrettezza, formale e procedurale, in quanto nei casi di “stregonerie “ la tortura poteva essere disposta solo dall'autorità ecclesiastica.
Tale scorrettezza procedurale viene immediatamente avvertita in vescovado e il giorno dopo, 22 luglio, il cancelliere della Curia Vescovile manda a d. Verruta precise istruzioni ( lett. 3) sul comportamento che avrebbe dovuto tenere come rappresentante del Vescovo.
 Innanzitutto occorre calmare gli entusiasmi delle autorità laiche locali: “Poiché (dalla lettera di d. Verruta) si vede che il magnifico Podestà per quanto dite cammina a buon fine per estirpar simili radici, con bel modo l'andrete trattenendo allegandoli che simil materia si deve conoscere dal Giudice ecclesiastico per esser (materia) di Santo Ufficio “. Il tutto, ovviamente, con diplomazia, senza rompere con il Podestà perché “bisognando d'aiuto ricorrerete da lui che in tal caso si dovrà compiacere di darlo”. Inoltre don Verruta dovrà curare che nel processo si proceda esaminando testimoni prima di “innovar altro contro le pretese streghe”: e il fatto che si usi l'aggettivo “ pretese” ci fa capire chiaramente quale fosse l'opinione del Vescovo di Savona circa le imputazioni. A don Verruta viene inoltre ricordato di “mandar copia delle scritture secreta e sigillata, non potendo dar rimedio se prima non si vedono le scritture ed informazioni”. Il richiamo al segreto ci pare particolarmente interessante, specie alla luce dell'atteggiamento che sia il Vescovo che il S. Uffizio terranno in occasione di questo processo, come di altri: evitare che la situazione potesse sfuggire di mano una volta che i particolari fossero dilagati fra l'opinione pubblica, terrorizzata dalla peste: ma l'opinione pubblica, cioè gli abitanti di Spigno toccati dalla peste, era già al corrente delle voci che correvano sulle imputate, anzi, in parte ne era l’origine.
All'inizio di settembre (la data è illeggibile nella lettera) d. Verruta invia a Savona, al vicario generale del Vescovo un “ alligata che contiene la sostanza del processo(lett. 4) che non è però stata rinvenuta in archivio.
Supplica inoltre il Vescovo di “risposta subito, perché siamo minacciati noi giudici di nuova contagione, come pur segue a Roccaverano, Acqui et altri luoghi circonvicini. Mons. d' Acqui è morto di contagio, e le cose passano malissimo. Qui( ... ) succede qualche caso (di morte di peste) nelli filioli maleficati dalle streghe che restano ancor di fuori dalle carceri. ( ... ) A Piana le cose non ponno andar di peggio. ( ... ) A Turpino sono morti quasi tutti di peste”.
Questa lettera è assai importante per capire le motivazioni psicologiche che furono alla base del processo: una popolazione terrorizzata stava morendo di peste, di fronte alla quale la scienza non conosceva rimedio. L'unica speranza consisteva nell'attribuirla ad una causa specifica che, una volta rimossa, avrebbe determinato la fine del contagio. Ecco quindi l'incrollabile certezza che la peste fosse causata dalle streghe: eliminate le streghe, eliminata la peste.
 L'odio contro le streghe in periodi di gravissimo pericolo rispondeva quindi ad una motivazione “validissima” (da un punto di vista psicologico): quella di salvare la pelle. Ecco spiegata anche la disperazione di d. Verruta (che della colpevolezza delle accusate – “queste maledette bestie” - era convinto), ecco il perché della fretta con cui i magistrati laici e l'autorità feudale cercavano di risolvere il problema con un veloce processo che avrebbe calmato la disperazione dei sudditi prima che, come a Milano, essa potesse coagularsi in atti di rivolta contro il feudatario ([75]) e con una ancor più veloce esecuzione, fretta ben testimoniata dalla frase con cui d. Verruta chiude la lettera: “risupplico V.S. Ill.ma risponder per queste masche, poiché il sig. Marchese m'accelera nelle condanne, non prenderà la Corte nostra”([76]).
Subito dopo il ricevimento della lettera del Verruta con la “sostanza del processo”, e comunque prima del 9 settembre, il Vescovo informa (lett. 5) il padre inquisitore di Genova, il domenicano Pietro Martire Ricciareli ([77]). Nella sua lettera il Vescovo, dopo aver ricordato le difficoltà logistiche causate dalla peste che avevano impedito la sua presenza al processo (“sono istato alla gagliarda, stante il danno comune, il tempo del contaggio, l'assistenza del giudice secolare”), fa presente la volontà di quest'ultimo di “voler venire a risoluzione rigorosa per interesse pubbico" e comunica all'inquisitore di aver concesso al suo vicario “autorità assoluta acciochè la giurisdizione Ecclesiastica non restasse indietro dalla risoluzione che facesse la secolare”: ecco quindi un esplicito cenno alla necessità di dover far coesistere due giustizie, entrambe desiderose di indipendenza ma contemporaneamente vincolate a quanto l'opinione pubblica si aspettava che facessero.
Per la “gravità delle causa”([78]) , il Vescovo ricorda comunque di non “essersi risoluto dargli (al Vicario) altra autorità che prima non resti questo negotio partecipato a V.S. Molto Reverenda e con suo consenso scritto. Riguardo la documentazione relativa il Vescovo pare accontentarsi di quanto gli ha rimesso il suo vicario foraneo: “Se il processo è così ben formato come il sommario, dubito che sia necessario a terrore et ad essempio e per compimento di giustizia provedervi rigorosamente. Il farlo copiare per vederlo, il che saria più accertato, daria dilazione di mesi oltre le spese e resteria di grave pregiudizio al publico”. di qui la necessità di informare l'inquisitore “accioché la giustizia babbi il suo luogo e la giurisdizione non ne sia tolta”
Ma la fretta non piace all'inquisitore genovese, che su tutta la faccenda ha evidentemente l'animo sgombro da pregiudizi e le idee chiare: “viste le confessioni (delle streghe) è negotio assai grave - risponde l'Inquisitore il 9 settembre (lett. 6) - del quale stimo necessario darne pronto avviso alla Sacra Congregatione (del S. Officio)”. Nel frattempo, però, il Vescovo deve “avvisare quel Signor marchese che s'astenghi di tentar cos'alcuna contro di dette streghe, dovendo prima essere conosciuta la loro causa dal Sant'Officio”. Ecco che si sta delineando lo scontro tra le due magistrature, e il tono si fa risoluto e anche minaccioso: “perciò avverti (il marchese) di non incorrere nelle censure”. Circa le streghe appare evidente all'inquisitore che “il Vicario foraneo (d. Verruta) ha avuto la preventione in tutto e per tutto”: ma se anche così non fosse “lascerà che il Sant'Officio faccia prima la parte sua, che puoi allora farà anch'esso la sua”.
Due giorni dopo (lett. 7) il Vescovo informa direttamente la Congregazione del Santo Uffizio a Roma su quanto stava succedendo “nella mia Diocesi di là dai monti”, inviando nel contempo il “sommario della causa contro alcune persone esistenti nella mia Diocesi” ([79]): la minuta della lettera evidenzia, nelle numerose cancellature e riscritture che presenta, il travaglio interiore e forse le incertezze del Vescovo di fronte agli avvenimenti. In particolare in una prima stesura aveva scritto “causa contro alcune streghe”, poi corretta in “donne”, poi in “persone”. Sembra anche di avvertirsi un certo prendere le distanze da quanto già successo specie là dove la lettera ricorda che tutto il processo è stato fatto “dal mio Vicario Foraneo, a cui per la difficoltà del contaggio delegai la causa”: forse il dubbio si agitava nell'animo del presule ([80]).
Dubbi ed incertezze sono invece finora assenti in d. Verruta, che in prima fila conduceva la sua battaglia lontano dal Vescovo e vicino al marchese (e alla peste).
Il 29 settembre invia al suo Vescovo una ampia “informazione sommaria” (lett. 10)  “acciò V.S. Ill.ma resti informata di quello che va succedendo attorno alla causa delle streghe portatrici di contagione”. È un documento assai interessante, un riassunto di tutte le fasi processuali svoltesi sino a quella data, tanto più importante in quanto gli atti del processo a noi giunti si interrompono, come notato in precedenza, al 16 luglio.
Don Verruta riassume la vicenda dall'inizio, ricordando come “ad istanza del Procuratore Fiscale s'essaminarono sei testimoni quali per pubblica voce e fama han risposto unanimi che Margarita Bracha sii masca et che Bianchina Suliana pure, per non andare due volte l'anno alla messa”. Il Vicario ricorda poi che venne interrogata Caterina Marenca di Merana (località tra Piana e Spigno)  “qual captivata dal giudice secolare et posta in carceribus da esso essaminata nega, sostenendo due ore di corda” ([81]) et altri tormenti nella negativa“: ecco la prima esplicita citazione della tortura alla quale le “streghe” furono, notiamo bene illegalmente ([82]), sottoposte.
Caterina resiste per due ore ([83]), poi “venne nanti al Vicario et Delegato et confessa liberamente (!) essere masca”. Il Verruta espone poi la descrizione fatta da Caterina relativa a come la stessa fosse diventata strega: “essendo d'inverno senza pane et alimenti per li figlioli chiamò (che) o Dio o il Diavolo l'aiutasse, quindi le comparve il Diavolo vestito di verde, in forma di un bel giovane ([84]) che le disse non dubitasse perché se avesse fatto a suo modo l'haveria provista di tutto quello (di cui) avesse avuto bisogno”. Dalla “confessione” appare intanto un elemento che caratterizza tutte le “streghe “ di Spigno: la loro povertà.
La dichiarazione di Caterina, ricordiamo rilasciata dopo due ore di tortura, continua e la povera donna confessa che “dicendogli di sì essa (il Diavolo) gli fece far la Santa Croce in terra e poi gliela fece conculcare (= calpestare) et con la mano le fece atto di levar la Cresima sulla fronte et poi le fece rinegar Dio, la Beata Vergine ([85]), la Passion di Cristo et il Battesimo ( ... )(e le disse che) s'havesse potuto pigliar il SS.mo Sacramento (facendo la Comunione) dall'altare per calpestarlo l'havrebbe preso et non ingoiato, quod Deo non placuit”([86]): appare qui un altro elemento tipico della stregoneria, quello legato ad una religiosità “rovesciata” i cui riti sopravvivono ma, per così dire, capovolti ([87]).
Guazzo, Compendium maleficarum, 1626
Ma la deposizione di Caterina va ben oltre: afferma che il Diavolo “si fece adorar col farsi baciar il cullo et conobbe sodomitice carnalmente essa”. Appare così il secondo elemento tipico ([88]) della figura della strega: i suoi rapporti sessuali col demonio, visti anch'essi come una sorta di doppio capovolto rispetto a quelli umani (“baciar il cullo”, avere rapporti sodomitici).
E su questo particolare aspetto Caterina insiste, coinvolgendo anche altre persone, tra cui Bianchina Suliana, in compagnia delle quali Caterina era andata in una certa località “col bastoneto (= evidentemente una variante della scopa!) et dice il modo d'usarlo”, aveva poi “ballato col Diavolo” ed infine erano state “da lui conosciute carnalmente”, sempre - beninteso – “sodomitice
Bianchina esaminata subito dopo, continua la lettera del Verruta, “confessa il modo d'esser stata fatta et diventata strega, et esser da anni 16 circa, et essersi data al Diavolo per libidine”.
A questo punto l'esposizione dei fatti e delle deposizioni delle streghe quale leggiamo nella lettera del Vicario diventa un allucinante spaccato del più ricco condensato di tutto ciò che la fantasia, gli incubi e le allucinazioni popolari attribuivano alle streghe.
Margherita Braca dapprima resiste alla tortura, “essaminata si fa donna santa, ad ogni modo nell'esame cascò due volte o tre in terra tramortita”. Poi “persistendo in negativa si ordinò fossero rasate”: l'asportazione di capelli e peli da ogni parte del corpo era una procedura tipica nei processi di stregoneria ([89]). Con questo metodo si intendeva sia eliminare eventuali protezioni magiche date dal demonio alle sue vittime, sia mettere in risalto eventuali macchie o segni sul corpo che diventavano automaticamente la prova dell'appertenenza di tale corpo al demonio.
Lucia Rodana “arrestata ad un'hora di notte et essaminata a mezzanotte”, (e mettiamoci un poco nei panni di queste povere donne di campagna, strappate alle loro case e interrogate - tortura a parte - nel cuore della notte, al lume delle torce, in antri semibui da “signori” per loro onnipotentiche le sanno già colpevoli e le vogliono morte), con la sua ”confessione” aumenta notevolmente il numero degli incriminati, coinvolgendo, oltre a Caterina Marenca, Bianchina Suliana e Margherita Bracha, già arrestate, la figlia di quest'ultima Margarina, Lucia Peirana, Zanina Suliana, figlia di Bianchina, Marieta Colomba, Bianchina, figlia di Caterina Marenca, e Bartolomeo Perletto: siamo già arrivati a 9 streghe!
Lucia Rodana dice che in loro compagnia era andata “a commetter molti malefici” e a “ ballare sotto un noce sanando un tamburino a mezzanotte indi furono conosciute dal diavolo sodomitice” : a parte il classico elemento del ballo notturno sotto il noce, per il resto si tratta di particolari che i giudici avevano già sentito e che erano quanto un inquisitore dell’epoca si aspettava secondo la tipica casistica dei comportamenti stregoneschi ([90]).
 Ma ad un certo punto Lucia rivela anche quello che tutti cercavano: lei era “stata presente, in compagnia delle suddette, a portar la contagione a Spigno nel mese di ottobre, et mostra le case unte di contagio”. Ecco che finalmente appare il vero motivo d'essere del processo, quello che tramutò all'improvviso persone la cui stranezza o diversità o attività di guaritrici era nota a tutti e sopportata, quando non addirittura ricercata, negli anni normali, in mostri da eliminare: erano untori, propagavano la peste, che in quei mesi stava facendo strage nel paese, minacciava ogni persona, marchese, giudici e vicario compreso. E di fronte a questa confessione (superfluo ricordare come raggiunta), il particolare per cui Lucia “era andata a concitar (= provocare) la tempesta due volte et insegna il modo” passa in secondo piano.
Dopo tale confessione ”il Podestà fa incarcerare le suddette tutte nominate”.
La relazione di d. Verruta continua ricordando che “si stilla Margarina figlia di Margarita” (Bracha) ([91]): in ogni caso anch'essa confessa di essere diventata strega “per aver invocato il Diavolo” e di aver commesso alcuni malefici. Anche Lucia Peìrana dichiara di essere strega da tre anni, da quando “havendo chiamato il diavolo come disperata le comparve vestito di verde  (anche a lei!) in forma di un bel giovane” e di essere andata “in compagnia delle sudette e di Marieta Barbera e Giacomo Aurame a portar la contagione a Spigno”: dichiara inoltre di detenere “una pignatta di untagio (= pentola con unguento per propagare la peste) quale ritrovata è stata abbruciata nella piazza del castello”. Possiamo immaginare quale impatto psicologico abbia potuto avere sulla popolazione terrorizzata e falcidiata dal contagio questa operazione effettuata nella piazza principale del paese sconvolto dalla peste, e come tutto ciò potesse disporre la gente nei confronti sia di chi - a questo punto evidentemente - era accusato (anzi, si autoaccusava) di provocare tale contagio e ne faceva vedere lo strumento, sia di chi avesse eventualmente tentato di salvarle, cioè di non condannarle.
Dalla deposizione di questa imputata, come dalla precedente, si può notare come il processo si alimentasse in pratica da sè stesso: spontaneamente, ma più spesso impaurite o sottoposte a tortura, le imputate confessano o inventano dei complici, i quali a loro volta trascinano davanti ai giudici altri infelici.
I giudici passano poi ad interrogare la figlia di Marieta Barbera, Zanina “che va con le crozze” (= stampelle? ) ([92]), la quale in un primo momento “dice di essere donna da ben” ma poi “confessa esser strega et esserlo diventato per carnalità”: e ancora una volta la fobia sessuale (non importa se
degli inquisitori locali, di quelli che nel corso dei secoli hanno preparato i vari formulari di domande che i giudici rivolgevano programmaticamente alle “streghe” o delle imputate stesse) fa la sua comparsa in questo processo.
Lucia Peirana aveva fatto il nome di Giacomo Aurame come stregone, e costui “liberamente  costituito nelle nostre forze” depone “di esser masco” e di “esser andato a portar la contagione a Spigno tre volte”. Confessa inoltre di esser andato “ad concitandas grandines”, a suscitare grandinate.
Di quest'ultima malefatta rivela anche il modo: “essendo chiamato dal Diavolo, andò sopra un monte, dove erano tutte le sudette (streghe) e fatto un fossetta ivi tutte orinarono, come anche il Diavolo, indi mescolando quell'orina il Diavolo vi mise un poco di polvere, et levandosi in alto fumo si fanno nuvole, da dove dicono al diavolo: metti giù, metti giù”.
 Marieta Barbera, madre di Zanina “esaminata depone di esser strega liberamente da quatr'anni et di essersi data al diavolo per libidine, et confessa molti malefici in compagnia delle medesime e di Bartolomeo Perletto, et di esser venuta a Spigno a portar la contagiane et mostra le case che hanno
onto, chi tiene l'onto sì per il bastoneto come di contaggio”: e ancora una volta nel giudicare quanto allora avvenne noi non possiamo fingere di ignorare quale avrebbe potuto essere la reazione di un giudice (o di una qualsiasi persona) di allora di fronte ad una donna che parlava di unguenti per far volare una scopa o per diffondere il contagio, tanto più che dallo scritto di d. Verruta parrebbe potersi capire che sia l' Avramo che Marieta abbiano parlato liberamente, cioè senza essere sottoposti a tortura ([93]) .
Gli imputati successivi, invece, confessano solo dopo le insistenze (di che tipo non è detto esplicitamente, ma è facile da indovinare) dei giudici.
 Zanina Suliana “si fa santa, finalmente sostenendola le altre in faccia, ( ... ) confessa esser strega, data al diavolo per libidine”: le sue colpe non sono però terribili, avendo fatto solo “alcuni balli notturni in compagnia del Diavolo”; Margarita Bracha, che nel primo interrogatorio non aveva confessato, “si fa casta, alla fine confessa esser strega da 11 anni in qua ( ... ), resiste però, così vien convinta (!)et dicono tutte (le altre) haver un pignattino di contagio ([94]) consignatoli dal Diavolo in loro presenza”; Maria Scaiola  “donna di rilievo, protesta dell'infamia e poi confessa da due anni esser masca ( ... ) nel resto non se le può parlare, non accorgendosi ingannata dal Diavolo che fu origine della contagiane di Spigno et fu quella che invita le altre a tanto fare, come le vien sostenuto in faccia dalle altre
È questa forse la fase più penosamente drammatica dell'intera vicenda, quella in cui delle povere donne, piegate dalla tortura, sì accaniscono nel trascinare nella loro rovina altre infelici come loro “sostenendole in faccia etc.”: antichi rancori, invidie, rivalità e liti da cortile, o forse solo la paura (pensiamo a Lucia Rodana, interrogata in una tetra cantina a mezzanotte) e la sofferenza fisica, diventano la molla che trascina altri in una spirale infernale.
L'ultimo personaggio citato dal Verruta nella sua relazione è quel Bartolomeo Perletto detto Caramello il cui nome è spesso apparso in precedenza: in un primo momento “si sostiene (come) huomo da bene”, poi però “da tutte le altre le vien sostenuto in faccia esser masco et esser andato con loro a sonare di notte”. Pertanto anche Caramello “si risolve, et confessa esser uno stregone da 20 anni in qua”: lui almeno non si è dato al diavolo per libidine! Oltre a diversi malefici, Caramello dice di esser stato presente al momento della preparazione dell'unguento necessario a diffondere il contagio: alla sua realizzazione, in quel di Cagna ([95]) avrebbero partecipato “in numero di 300 persone”: un vero, affollatissimo sabba infernale! E dell'unguento Caramello ci fornisce anche la ricetta, per la quale erano necessari - ovviamente – “serpi velenose, bisce, babbi, scelestri, laioli (= rospi, ramarri e ·salamandre) et simili animali ([96]) con erbe posteci dentro dal Diavolo”: come si vede, tutti ingredienti classici. Di tale unguento è stata “distribuita una pignata a Maria Scaiolà, una a Bianchiana Suliana, a Margarita Bracha, a Catherina Marenca et ad altre”: e con questa precisazione Caramello ha restituito la cortesia alle sue accusatrici!
Don Verruta ricorda poi che “tutte queste cose (gli imputati) hanno sostenuto ogni dì nella ripetizione ([97]) e nella tortura ordinata dal signor Podestà” ([98]), e ci illumina sulle intenzioni dcl locale marchese Asinari Del Carretto, che desidera “farle (al processo o alle streghe?) dar fine per incominciar indi altro processo contro le captivande” e che “per sradicar simili bestie intende far' presto”. Ma soprattutto d. Verruta supplica di aver presto istruzioni perché “tardandosi di più siamo minaciati di nuova contagiane da loro, avendone composta nuovamente alla Roch’ovrano”: povero d. Verruta, terrorizzato dalla paura di prendersi la peste per colpa delle streghe, tanto più avendo saputo (e come?) che nuovo unguento per il contagio era stato certissimamente preparato (ricordate il Manzoni?) a Roccaverano, a pochi chilometri da Spigno.
Le ultime righe della relazione hanno il cupo rimbombo di una epigrafe funebre: “Tutte le incarcerate, che sono 14 ([99]), hanno confessato, fuor d'una convi(n)ta da complici nei delitti, che per opera del Diavolo nega tuttavia”: se uno confessava era evidentemente colpevole, se non confessava lo era maggiormente, perché poteva resistere alla tortura solo con l'aiuto del Diavolo.
La risposta del Vescovo tramite il suo cancelliere, non si fa attendere ed è perentoria (lett. 11 del 3 ottobre): constatato che “dal Tribunale Secolare (ci) si affretta in dover innovare ed eseguire contro le incolpate per streghe” (notate bene, “incolpate”, non “streghe”), si intima a d. Verruta di “non innovare nè permetta che si innovi cosa alcuna in far essecutione contro dette incolpate sino all'ordine et aviso della Sacra Congregatione”.
Il povero d . Verruta si trova così tra l'incudine del “Signor Marchese che mi sta giornalmente alla vita” e le precise disposizioni del Vescovo che evidentemente suscitano in lui stupore: “Nelli luoghi circonvicini ([100]) - scrive al Vescovo il 20 ottobre (lett. 12) - si è venuti all'essecutione contro simili bestie, il che fa stupir (che) qui si usi tanta difficoltà ( ... ) tanto più che minacciano per la vita li primati del luogo, et se ne vede l'effetto “.
 Evidentemente la peste continua a colpire e la gente ha paura: comunque d. Verruta ubbidisce, assicurando che “non permetterò, per parte mia et per quanto potrò, (che) si innovi altro”. Ma è solo, contro la paura sua e, più ancora, altrui, e teme di non poter resistere: “temo - fa presente nella lettera - che andando più alla lunga si faranno dal (Tribunale) Secolare altre resolutioni, nè ci posso competere, perché mi trovo qui solo abbandonato".
E questa situazione di solitudine di un povero prete, bloccato dalla peste lontano dal suo Vescovo in lotta di fronte a un potere ben deciso, forse più per paura e calcolo che per convinzione, ad andare fino in fondo per eliminare quelle che la gente vedeva come causa della peste, isolato davanti ad un'opinione pubblica spaventata ed ostile, in un piccolo feudo in cui il marchese rappresentava il potere assoluto e inappellabile, mentre - fra l'altro - correvano voci di guerra contro Genova, e quindi contro Savona, sede episcopale, deve essere da noi tenuta presente  prima di emettere sbrigative sentenze ([101]).
Il giorno dopo, nuova lettera al Vescovo ( lett. 13 ): e queste lettere che si rincorrono l'una dopo l'altra ben dimostrano l'ansia di d. Verruta, vaso di coccio tra vasi di ferro: “Dio per sua misericordia ci aggiuti e diffondi da queste streghe, quali di continuo vanno minacciando chi le cerca et vole male. ( ... )Mostrai al Signor Marchese la lettera perché non si innovasse cosa alcuna circa le essecuzioni , né sì qui hanno havuto la sentenza, se ben s'aspetta di giorno in giorno et il Signor Marchese vorria levarsi di briga, tuttavia si starà. ( ... ) Il Podestà è quello che va solicitando, et informa male il Procuratore Secolare”.
La documentazione in nostro possesso presenta a questo punto una lacuna: mancano documenti che ci permettano di capire cosa sia successo fra il 21 ottobre ( quando a Spigno si aspettava la sentenza di giorno in giorno..) e il 31 gennaio dell'anno successivo. Una lacuna per certi spetti misteriosa, forse inquietante. Dai documenti residui sappiamo che ci fu uno scambio di corrispondenza anche in quel periodo, ma questa parte del carteggio non è giunta fino a noi (o – quantomeno - non è stata da noi rintracciata).
Non sappiamo se si tratti di una lacuna casuale, magari dovuta all'approssimarsi dell'inverno, che rendeva più difficili le comunicazioni, o se si sia steso ( dove? A Savona o a Spigno?) un velo di silenzio su quanto forse stava succedendo.
Il 31 gennaio 1632, finalmente la risposta del S. Officio al Vescovo savonese.
È una lettera illuminante (lett.14), che fa anche giustizia di condanne forse un poco  approssimative pronunziate contro questo organismo che invece, in questa circostanza, si dimostra più tollerante, e rispettoso della procedura rispetto alla giustizia laica.
La Congregazione del S. Officio, per mano del cardinale di S. Onofrio, fa infatti presente al Vescovo savonese che la documentazione inviatagli “circa le pretese streghe” (“pretese streghe”, non “streghe”)  è oltremodo difettosa e “dinota che il processo contenghi una moltitudine di nullità non solo perché sono state esaminate confusamente, ma ancora perché non consta del corpo di delitto alcuno ([102]) e non di meno alcune di loro sono state tormentate eccessivamente per due ore e più di horologio “. Tutto da rifare, dunque: il Vescovo dovrà sottrarre le inquisite alla giustizia secolare facendole venire “o costì o in qualche luogo vicino a lei”, essendo necessario che “si sentano fuor dal luogo dove sono state gravate” (=incolpate), lontano cioè da una folla terrorizzata che le voleva morte: nella nuova sede saranno sentite “senza suggerirle cosa alcuna ([103]), ma solo interrogarle se sappiano la causa della loro carcerazione”.
Nel frattempo il Vescovo avrebbe dovuto ordinare che “colà (a Spigno) non si proceda a carcerare altre”. La lettera termina poi con una frase che ben chiarisce l'opinione della Congregazione del Santo Officio sull'argomento: “In fine della causa ella vedrà che non vi sarà fondamento, come si può credere dal sommario” (inviato a Roma). ([104])
Analoghe disposizioni sono trasmesse il 12 febbraio  (lett. 16) al Vescovo savonese dal padre inquisitore genovese Pietro Martire Ricciareli, che avvisa inoltre il Vescovo della sua volontà di assistere personalmente al processo quando le donne “saranno ridotte in luogo ove passino essere riesaminate”. Nel frattempo il Vescovo deve “avvisare questo marchese che non eseguisca cosa alcuna se prima il S. Ufficio non ha fatto la parte sua acciò non incorresse nelle censure come fece già un commissario di Triora” ([105]): come si vede, conosciuto l'orientamento del Santo Officio, il tono si fa deciso e perentorio. Strano però il ritardo fra la comunicazione del S.Uffizio al Vescovo (31 gennaio) e l’analoga del P. Inquisitore (12 febbraio)
Il 17 febbraio ( doc. 17) il Vescovo trasmette al suo vicario, d. Verruta, le disposizioni ricevute: “sarà contento di intimare al sig. Podestà e altri a quali li spetta che in modo alcuno non facciano sentenza né essecutione contro quelle donne o huomini, imputati o vero processati costì, li quali pretendevano esser incorsi in materia di sortilegi o streghe, ( ... ) e ciò sotto le pene e censure de' Sacri Canoni”.
La lettera non lasciava spazio a possibilità di interpretazioni personali o esitazione alcuna: ma fra la comunicazione del S. Uffizio al Vescovo in cui si intimava di trasferire le carcerate e la trasmissione da parte di quest’ultimo dell’ordine  di non far sentenza erano però passati 17 giorni.
Un ritardo forse fatale.
Il il 21 febbraio (lett. 18) d. Verruta “archipresbiter ecclesiae parrochialis S. Ambrosii Spignì et Vicarius Foraneus citra iugum” intima, sotto l'usbergo di una elegante prosa latina, al Procuratore “et aliis quibuscumque spectat” che “ne quoquo modo sententiam faciant nec exequant in materia sortilegii aut maleficiorum” . Per maggior sicurezza spedisce al Vescovo l'attestazione, firmata da un notaio, dell' avvenuta consegna della intimazione nelle mani del “M. Magnifico d. Hieronimo Bocciello, Procuratori Spigni, personaliter reperto”.
 A questo punto la situazione è chiara e non sono più possibili ambiguità. Da una parte il potere laico, rappresentato dal marchese Asinari Del Carretto, che aveva iniziato il processo e voleva concluderlo con rigore: a questo potere la Chiesa aveva intimato di fermarsi e di cederle il passo; dall'altra l'autorità religiosa, che voleva avocarlo a sé e che non credeva alla correttezza delle procedure, alla serenità dell'ambiente, alla imparzialità dei giudici e, in fondo, alla colpevolezza degli imputati.
Siamo al braccio di ferro: il marchese avrebbe consegnato le imputate alla Chiesa riconoscendo quindi un limite al suo “mero e misto imperio con facoltà di spada” e perdendo - forse - la faccia di fronte ai suoi sudditi, o avrebbe disubbidito, sfidando le censure dei Sacri Canoni?
Ma siamo nel '600, l'epoca del sorriso che copre l'astio, dal guanto che cela il pugnale: è ragionevolmente difficile pensare ad uno scontro diretto.
Passa una settimana.
Il 29 febbraio il Vescovo di Savona riceve da Spigno una lettera (lett. 19)del suo servitore affezionatissimo”il marchese Alfonso Asinari Del Carretto, il figlio del padrone di Spigno ([106]): saluti, convenevoli, dichiarazioni di stima, espressioni di desiderio “di compiacere a V.S. Illustrissima” nonchè l'assicurazione di ”ricever con particolar gusto li suoi comandi”.
Infine una piccola postilla riguardante quella noiosa seccatura rappresentata dalle streghe: “Mi spiace, scrive il giovane marchese-figlio (immaginiamo con un ineffabile sorrisino), che per esempio e per timore all'avvenire - in poche parole per dare una lezione - non sii potuto eseguire qualche rigore apparente, giacché per la longhezza et dilatatione (del processo) sono tutte morte et con haver finito avanti hieri di passar la barca di Caronte ci hanno levato a tutti questo impaccio come detto Signor Arciprete le havrà avisato” ([107]): niente pubblica giustizia, quindi, nè processo avocato altrove, perché le streghe sono tutte morte!
È uno spaccato del '600 di eccezionale chiarezza, che tanto ricorda il manzoniano incontro tra il Conte Zio e il Padre Provinciale. Sì avverte forse rammarico nella lettera, perché l'intimazione del Vescovo ha tolto al marchese, con la possibilità di un bel rogo multiplo sulla piazza del castello, anche la possibilità dì far sfoggio della propria autorità, rammarico addolcito però dalla soddisfazione derivante dalla velata manifestazione del proprio potere che è comunque ugualmente emerso: niente trasferimento del processo, niente scarcerazione delle streghe, perché, poverine, sono tutte morte. E fra i sudditi del marchese in Spigno probabilmente nessuno ignorava come o, forse, per ordine di chi.
Tutto questo in una cortesissima lettera di poche righe, che termina con un affettuosissimo “bacio mille volte le mani e così fa mia madre"·
 Da parte di Don Verruta nessuna comunicazione dell’accaduto al Vescovo.
E il Vescovo?
Due giorni dopo scrive (lett. 20) al padre inquisitore di Genova comunicandogli che malgrado l' “inibizione al Signor Marchese fosse fatta in tempo, che due erano ancor vive ([108]) “ho ricevuto avviso che tutte sono morte, che tronca a noi l'occasione di cercar di più ( ... ). Perciò io non ho occasione di replicar altro, mentre la morte il tutto scioglie” . E forse c’è un respiro di sollievo

4.4. La fine.
E il processo di Spigno?
Eravamo rimasti alla comunicazione circa l'avvenuto decesso delle “streghe” mandata dal Vescovo all'inquisitore di Genova, decesso che “a noi tronca l'occasione di cercar più oltre”.
Potremmo terminare a questo punto l'esposizione di questo antico, drammatico fatto: ma la vita continuava anche dopo la morte di 14 donne, d. Verruta continuava a scrivere al Vescovo e può essere interessante andare a vedere come le tracce di questi fatti svanissero poco per volta.
L'11 marzo (lett. 21) d. Verruta mette al corrente il Vescovo su tanti piccoli avvenimenti e particolari che riguardavano i beni della mensa vescovile a Spigno. Poi una piccola osservazione: “Non manco di avvisare com il signor Podestà piglia denari dalli beni delle streghe morte, et una incolpata  ch'era in carcere ([109]) l'hanno lasciata andar a far i fatti suoi”. Sembra quasi di avvertire una nota di stupore in quel “hanno lasciato andare un'incolpata”, come se le granitiche certezze di d. Verruta non fossero neppure state scalfite da quanto era successo.
La lettera successiva, del 5 aprile, (lett. 22), è ancora più esplicita. Dopo aver ricordato che il  podestà si stava accordando “circa le streghe morte, ( ... ) con chi in 40 scuti, con chi in 50, con chi in 60 o più o meno” ([110]) 109, d. Verruta si lamenta perché “abbiamo noi perduto il tempo di tutta l'estate”. Circa la donna incarcerata e poi lasciata libera di “andar a fare li fatti  suoi”, d. Venuta ci tiene a precisare che “quando mi sono opposto, li messi della chiesa sono andati in prigione sotto pretesti indiretti”: non riusciamo a capire se si sia opposto in quanto la ritenesse colpevole o per obbedire alle disposizioni avute, secondo le quali le incolpate dovevano essere condotte a Savona.
Il 23 aprile nuova supplica (lett. 23) di d. Verruta, che evidentemente non sapeva quale comportamento tenere riguardo alle persone morte in carcere: far finta di niente o cercare di appurare le circostanze?: “Supplico V.S. Ill.ma per quanto posso a darmi nuovo avviso come havrò a governarmi con questo podestà per le streghe morte, (streghe: le granitiche ceertezze di d. Veruta non sono state smosse!) temendo assai che i Signori mi faranno qualche burla, et sono sicuro sarà perseguitato io o mia casa, conoscendo l'umor loro: che però la risupplico si sii possibile trovar strada per la quale io puossi caminar con soddisfazione di tutti”. Evidentemente d. Verruta temeva che la morte, misteriosa e poco chiara, delle donne in carcere potesse provocare qualche scontro tra la Chiesa (lontana) e il potere feudale (vicino), nel quale lui, piccolo prete di un paese di campagna, sarebbe stato coinvolto e prima vittima.
La morte delle donne incarcerate fu vista dalla autorità ecclesiastiche centrali per quello che forse era, cioè una dimostrazione del potere del marchese e conseguente sfida all'autorità del Vescovo?
Non abbiamo elementi per esprimere un giudizio certo: quanto meno si ricava l'impressione che a Roma non si avessero molti dubbi sulla non casualità di tali morti. Restava il problema di quale atteggiamento scegliere: far finta di niente accettando per buona l'accidentalità dei decessi o pretendere spiegazioni? O ancora scegliere una via intermedia?
Il 3 maggio del 1632 l'inquisitore di Genova scrive al Vescovo savonese (lett. 24) per avere informazioni, su mandato della Sacra Congregazione dcl Santo Officio, circa quelle “streghe che sono state fatte morire a Spigno dagli officiali del signor Marchese di detto luogo”.
Nessun dubbio, quindi, sull'origine dei decessi e sugli esecutori, con al massimo incertezza sul mandante e, al più l'offerta di un alibi: la morte provocata dagli uomini del marchese magari non obbedendo ad un ordine preciso ma, diciamo così, per eccesso di zelo. Senonchè la lettera è ancora più sottilmente esplicita nella sua apparente neutralità: il padre inquisitore chiede infatti al Vescovo di informarsi se dette streghe “fatte morire dagli officiali del Signor Marchese” sono “morte da se stesse naturalmente o vero di morte violenta, per ordine dei sudetti officiali, e se tutte, o parte di esse sono state fatte morire innanzi, o doppo l'inhibitione fatta al Podestà”.
Il 10 maggio il Vescovo trasmette a d. Verruta (lett. 25) la richiesta di informazioni, usando le stesse parole, per cui il suo Vicario dovrebbe appurare se  “le streghe che sono state morire a Spigno dagli officiali del Signor Marchese ( ... ) sono morte da se stesse naturalmente, o vero di morte violenta, et per ordine di chi, e se sono state fatte morire inanti l' inhibitione etc”.
Questa altalena fra morti fatti morire dagli ufficiali del signor marchese oppure morti da se stessi naturalmente o di morte violenta non è per nulla né contradditoria né sconclusionata. In pratica il discorso delle autorità ecclesiastiche al marchese era, se abbiamo ben capito, pressapoco così: intuiamo benissimo come possono essere andate le cose, tu sai che noi lo immaginiamo, puoi dire che si sono suicidate o che sono morte di morte naturale, ma per noi sono state fatte morire e, volendo, potremmo andare avanti nella faccenda.
Siamo nel '600: l'importante non è essere, ma sembrare.
 Immaginiamo il nostro povero d. Verruta dinnanzi a tale nuovo incarico, così imbarazzante e anche pericoloso, tanto più che nella lettera si chiedeva anche la trasmissione di copia autentica del processo, dando l'impressione che l'Inquisizione volesse vederci chiaro: e ciò poteva significare grossi fastidi per il marchese o i suoi officiali, e quindi pericoli per il vicario del Vescovo.
A questo punto la burocrazia feudale, che fino a quel momento aveva funzionato perfettamente, incomincia a diventare vischiosa, reticente  e a mettere innanzi impreviste ed improvvise difficoltà: vediamo infatti che d. Verruta scrive al Vescovo il 20 giugno, (lett. 26), che in luogo della copia autentica si sarebbe mandato “un sommario amplissimo per essere il processo lunghissimo et di copiarlo il Notaro ricusa pretendendo la mercede prima”. Più avanti anche avere simile sommario si rivela difficile “et non sarà poco aver simile sommario stante che ogni giorno li somno alla vita e pure non mi sentono ( ... ) “.
Resta da dire che in archivio, a Savona, non c'è traccia (o almeno non abbiamo trovato)  né di copia autentica completa né di sommario.
Cala così il sipario sul processo di Spigno, un processo che, nel suo svolgimento, conferma alcune acquisizioni della recente ricerca storiografica relativa alla stregoneria e alla sua repressione nell'Europa del Seicento ([111]).
In particolare, anche dalla vicenda di Spigno emerge come la gestione del fenomeno “stregoneria” rispecchiasse conflitti fra potere laico e potere religioso, fra tribunali civili e Sant'Uffizio, con quest'ultimo non di rado –ma nel '600 avanzato - più garantista e più propenso a credere all'innocenza delle streghe di quanto non lo fossero i giudici laici.
Non sappiamo se la morte in carcere delle “streghe” abbia creato dei problemi al marchese Marc' Antonio Asinari, che del resto morì di lì a poco. A lui successe il figlio Federico cui l'imperatore Ferdinando II nel 1636 concede ampia conferma del feudo di Spigno, salvo poi proscriverla “per eccessi e violenze” mentre i suoi feudi saranno “devoluti alla Camera ducale di Milano” ([112]) : se al siluramento del marchese abbia contribuito la storia del processo non ci è noto.
Comunque nel paese la vicenda delle povere “ streghe di Spigno” venne dimenticata, e noi riteniamo abbastanza in fretta.
Si ha l'impressione che, passata la peste e la tempesta di cieco terrore che essa produsse, tutto il villaggio abbia voluto cancellare quel processo che il paese stesso, o una sua parte, aveva forse richiesto.
Fu rimosso così bene dalla memoria e dalle coscienze che perfino il ricordo di tale fatto svanì nella memoria collettiva del paese tanto da non trovare spazio alcuno né nelle pagine degli storici e dei cultori di storia patria che delle vicende di Spigno, e di quella zona più in generale, si occuparono né nei ricordi della popolazione.
Ed oggi, a Spigno, ben pochi su questa vicenda  sanno qualcosa. ([113])
Margherita e Margarina Bracha,  Bianchina e Gioannina Suliana, Bartolomeo Perletto, Lucia Peirana, Lucia Rodana, Marietta e Gioannina Colomba, Giacomo Aurame, Maria Scaiola, Marietta e Gioannina Barbera, Caterina e Bianchina Marencha non sono mai morte.
Forse non sono neppure esistite ([114])
(Pubblicato nel 1996 nel  vol. XCIII ( primo e secondo semestre) del Bollettino Storico Bibliografico Subalpino (Deputazione Subalpina di Storia Patria, Torino, Palazzo Carignano,)


LEONELLO   OLIVERI

Osservazioni (marzo 2017)
Si è detto all’inizio che questo processo ( il cui studio risale alla fine degli anni ‘80 e la pubblicazione da parte del sottoscritto al 1996) presenta la caratteristica di avere due tipi di documentazione: non solo quella ufficiale, data dagli atti, ma anche quella dei retroscena, data dalla corrispondenza intercorsa tra le varie autorità interessate.
Al riguardo si possono fare alcune  osservazioni:
1  )  la documentazione “ufficiale” (gli “acta criminalia”, doc. 1 e succ.vi)  copre solo il periodo dal 9 al 18 luglio 1631, comprende l’escussione dei testi e nel complesso riguarda solo l’interrogatorio di una strega, Margherita Bracha (una su 14);
2)     tutte le altre informazioni derivano, in pratica, dalle lettere di d. Verruta: ovvero dalle informazioni che don Verruta voleva trasmettere;
3)  esiste una lacuna nella documentazione dal 21 ottobre 1631 al 31 gennaio 1632: cosa è successo in quei tre mesi? Tutto fermo per l’inverno?
4)     Il 3 febbraio 1632 d. Verruta invia al Vescovo  la copia dell’”esposizione concernente il negotio delle streghe” ricevuta dal Procuratore Fiscale Secolare, copia che non è stata rinvenuta in archivio, a meno che non sia rappresentata dagli “acta criminalia”, comunque incompleti.
5)     Il 2 marzo 1632 il Vescovo  comunica al’Inquisitore che l’ordine al Marchese di non procedere era stato inviato (il 21 febbraio)  ”in tempo che  due (streghe) erano ancora vive”: quando il Vescovo aveva saputo ciò, e di conseguenza quando era stato informato della morte delle altre?
Come si vede,  in realtà malgrado la varietà della documentazione rimasta, su questo processo non sappiamo ancora (e forse non sapremo mai) tutto.


I luoghi delle "streghe"


SONO ANCORA TRA NOI ( Ma non sono  streghe)


il magnifico Podestà per quanto dite cammina a buon fine per estirpar simili radici,”scriveva in quel lontano 1631 il cancelliere del Vescovo a d. Verruta, ma “simili radici” non furono, ( e io ritengo fortunatamente), estirpate.
Chi erano quelle “streghe”? Chi era Margherita Braca che guariva il dolor di denti, degli occhi, i vermi, il male del masclun, il male della giazza? Non certo una strega, piuttosto una “guaritrice” per i poveri che non potevano permettersi un medico (che forse non era molto più preparato). Una guaritrice che univa una secolare, millenaria conoscenza delle proprietà delle erbe a preghiere e formule magiche, in cui forse credeva e che comunque “facevano atmosfera”. Personaggi così, finché le cose andavano bene, erano indispensabili: quando andavano male, potevano diventare, come nel caso di Spigno, accessibili capri espiatori.
Non furono estirpate queste guaritrici, e rimasero fino ai nostri giorni  nei piccoli villaggi di campagna delle Langhe.
Ne abbiamo un esempio in un bellissimo (a mio giudizio) libro sulla vita nelle Langhe (quelle povere, non quelle del vino e dei tartufi): si tratta de La Cauzagna,  della cairese Rosilde Rodino Chiarlone (1920-: un partecipato romanzo ( siamo alla fine degli anni ’60, pubblicato nel 1975) che è anche un reportage fedele della vita chiusa, stentata ma anche solidale (nei limiti lasciati dalla dura necessità della sopravvivenza) di un piccolo, reale, villaggio di contadini che devono combattere ogni giorno con la miseria sempre incombente,  spaccandosi la schiena su una terra dura e avara, in un orizzonte chiuso e privo di prospettive.
In questo villaggio (Cobarello, “un pugno di case arroccate sulle cime tufacee di una langa poverissima che si affaccia sulla sottostante valle Bormida di Piana Crixia”) viveva –siamo negli anni fra la I e la II  Guerra Mondiale- una di questa guaritrici, Gigia.
Ecco, come l’autrice la ricorda:

GIGIA
Gigia era lei a scovare i bambini e metterli fra le braccia delle mamme già belli e fasciati da cima a fondo; e oltre a procurane agli altri aveva pensato anche abbondantemente per sé; Gigia di figli ne  aveva avuto una quindicina (..) quelli che in tenera età se ne erano andati per sempre (..) raccontavano che Gigia  fosse solita benedire quando varcavano la soglia della casa nella sottile bara di legno dicendo: “Va creatura innocente con gli angeli del paradiso: ti ho già fatto il corredo, la dote  e le nozze”..

(…)La vecchia aveva molta familiarità col diavolo. Non passava una settimana che non lo dovesse incontrare a tu per tu; conosceva il suo linguaggio, gli parlava ora alle buone, ora alle cattive per farlo allontanare dalle persone o dalle cose. E quando quello insisteva Gigia tornava all’attacco, tre volte e se non bastava cinque, sette volte, sempre dispari, poi quando decideva di andarsene bruciava erbe aromatiche per disperdere l’odore di zolfo e tutto era fatto

(…)Anche i mali del corpo Gigia curava; molti li allontanava con le erbe, altri con riti strani fatti di parole e di segni di cui lei sola conosceva il mistero e che noi chiamavamo “magie”
Stavo male e mia madre mi portò da Gigia La trovammo seduta sullo scalino della porta  che sonnecchiava con la pipa in bocca:
“E’ la bambina, vorrei farle segnare i vermi”. Gigia senza alzarsi mi prese per un braccio e mi disse di respirarle profondamente nelle narici. “gli occhi e il fiato non sono da vermi”. Mi palpò bene il ventre con le sue mani ad uncino:”E’ gonfia come un tamburo: infiammazione della vescica”. Prese una zucca, la fece a fette sottili e stese quelle sulla superficie del mio ventre, poi coprì il tutto con un asciugamano di canapa (..) Ritornai da Gigia  il giorno dopo ed un altro ancora perché fossero tre le volte che Gigia interveniva. Guarii

(…) Un’altra volta avevo un febbrone da cavallo. Mi portarono da Gigia, fu lei a “segnarmi “ con la sua mano ad artiglio, leggera come quella di una fata, sulla fronte  e sul ventre, spalmandomi unguenti misteriosi che ora spandevano olezzo di rosa, ora fetore di carogna.
Poi anche il medico e le medicine ed un susseguirsi  di scene disperate, di singhiozzi soffocati intorno a me, sempre gonfia come un pupazzo di gomma.
Gigia ordinò la cicuta, tutte le donne della borgata andarono a cercarla, Gigia la pestò, la portò ai piedi del mio letto e ordinò a mia madre di levarmi tutto di dosso: il mio gonfiore diffuso per tutto il corpo impressionò le donne che stavano introno al letto e si misero le mani davanti agli occhi.
Gigia prima finì il tabacco che aveva acceso dentro alla pipa, mise la pipa in tasca e si alzò. Sollevò il cesto di cicuta pestata che era in terra e lo collocò sul mio letto; con una preghiera che le usciva dalle sue labbra come il sibilo di un serpe in amore, e con cinque segni di croce così riassunti che parevano movimenti di mano compiuto per scacciare una mosca fastidiosa si purificò e allo stesso modo purificò le fasce e la cicuta(..) le donne erano rigide e pallide come statue per il mistero  di quella strana funzione che le soggiogava; come tutte le altre volte sentivano la presenza  di un essere invisibile che Gigia riusciva a chiamare, ma se  fosse Dio o il Diavolo non lo sapevano. (..) Gigia incominciò ad imbottirmi di cicuta pestata intorno al collo, poi passò alle spalle, sempre avvolgendo con le fasce; Gigia non era arrivata allo stomaco che io battevo i denti dal freddo: Mia madre si spaventò e pregò Gigia di smettere, ma quella se la tolse di torno con una parolaccia  delle sue e continuò  ad imbottire e a fasciare. “Sui reni due cuscinetti bisogna metterne, sono loro i più ammalati: non filtrano più” diceva Gigia. Era arrivata a coprirmi tutto il ventre (..e finì alle caviglie. La lampada a petrolio andò in frantumi  e per poco non appiccò il fuoco alle coperte. Gigia aveva finito. Con le sue mani verdi di cicuta, che parevan ramarri, riempì la pipa  affondandola nella vescica conciata di maiale, dove era sempre vivo e vegeto l’insetto nero che teneva fresco e fragrante il tabacco, andò in cucina, con le dita prese una brace accesa e la mise ad accendere la pipa. Tirò qualche boccata, fece saltare via la brace della pipa, poi parlò: “Fra due o tre ore la bambina chiederà di orinare, ve lo chiederà ancora e poi ancora fino a tanto che l’acqua che era mescolata al sangue sarà filtrata dai reni e uscirà tutta”
L’indomani il medico  disse “Siamo a posto, gli ultimi medicamenti le hanno fatto bene, incominciavo a perdere le speranze, con la nefrite che aveva non si scherza: perbacco! E’ forte l’odore di cicuta”; “Ne ho fatti due impacchi sui reni”, si sbrigò a dire mia madre ; “tutto fa,” disse il medico. Io ero guarita

 (…) Gigia guariva di cuore, lasciava il letto a qualunque ora della notte per correre dagli ammalati(..) partiva col sacchetto delle erbe e il pentolino degli unguenti

 (…) Gigia quella primavera incominciò a ripetere la cantilena che contrassegnò la sua demenza senile: “Porca brega me ne frega guarirai quando potrai”: era una cantilena che aveva uno strano suono nella bocca di Gigia, perché negava un interesse che forse era stato l’unica ragione della sua vita, guarire il prossimo.

 (..) Gigia ebbe un desiderio bruciante di camminare, camminare con le pecore davanti  per strada, per  sentieri, per valli e per monti. Non mangiava per camminare, non dormiva per camminare (…). Fermarono Gigia, la legarono al gambo di un letto perché con le sue mani ad uncino avrebbe divelto la porta, e invece si dilaniò il volto, le braccia: Gigia è pazza,  la pazzia dei vecchi.
.
(..) Quel pomeriggio Gigia riuscì ad evadere dalla sua prigione buia e andò alla luce; camminò finché le gambe la portarono e poi cadde. La ritrovarono dopo alcuni giorni  di ricerche, in un ruscello: l’acqua le aveva lavato la ferita, le aveva pettinato i capelli d’argento, levigato la pelle grinzosa  e pareva una statua d’alabastro coricata in mezzo alle acque correnti”.

Così morì Gigia, a differenza di quelle che l’avevano preceduta 350 anni prima non perseguitata, forse amata, certo preziosa, una delle ultime testimoni di una sapienza millenaria in cui conoscenze, religione, superstizione si univano in un sincretismo ormai  al suo autunno.
(L.O. aprile 2017)





APPENDICE  DOCUMENTARIA
GLI ATTI DEL PROCESSO ([115])
La prima pagina degli atti del processo
Orig. cart., Savona, Archivio Vescovile, Vicariato di Spigno, 
Streghe, Atti del processo, 9 luglio 1631.

[Doc. 1] Anno Domini 1631, die 9 (iulii]
Acta criminalia agitata in Curia foranea oppidi Spigni et coram. Ill.mo et admodum Rev.mo Domino Pietro Ioanni Verruta. Ill.mo et Rev.mo D. Episcopo Savonensi et in hac parte dellegato loco vicarii Sancti Offitii ad instantiam Vincentii Bachielli Procuratoris fiscalis dictae Curiae.
Contra stries et maleficas videlicet
Margaritam Bracam, Blanchinam Santinam seu Sulianam, Margarinam etiam Bracam, Bartolomeum Perletum, Luciam Peiranam, Ioanninam Sulianam, Luciam Rodanam, Marietam et Ioaninam matrem et filiam de Colombis, Iacobum Auranum, Mariam Scaiolam uxorem Stefani.
Bernardinus scribanus notarius et dictae Curiae cancellarius etc., ac loco notarii Sancti Offitii asumptus.

[Doc. 2] Anno Domini millesimo sex [centesimo trigesimo primo ... ]. Coram Ill.i et adm. Rev. D. Ioanne Verruta Archipresbitero S. Ambrogii Spigni Vicarioque foraneo pro Ill. D. Episcopo Savone et in hac parte delligato comparuit nob. Vincentius Bachiellus procurator fiscalis Curie foranee qui quaerelanter exposuit come presente che “alla villa della Rochetta di Spigno siano christiani e christiane poco timorate di Dio Benedetto che comettono molti disordini come inobedienti a S.ta Chiesa, massime di streghe, comettendo molti assassina menti et stregherie contro gli ordini di S.ta Madre Chiesa, che perciò sendo di ciò pubblica voce e fama richiede et insta prendersi informationi circa quanto da esso viene esposto et trovati tali delinquenti arrestarli et castigarli nelle pene della ragione et in ogni miglior modo amministrarsi giustizia, altrimenti protesta di negata giustizia, l'officio etc.
Salvo etc.
Et predictus Ill.stris et admodum rev. D. Vicarius sedens etc. visis et auditis praemissis, ordinavit informationes sumendas esse prout paratissimus etc.; si illas etc., et ita etc., nuntio etc. qui etc.

[Doc.3] Anno praemisso et die 12 mensis iulii. Predictus Illustris et Rev. Dominus Vicarius contulit secum me Notario, dicto Fiscali ac Nuntio Curie ad villam predictam Rochetae causa et ad effectum coram quo Marius de Colla testis productis per dictum fiscalem citatus per Georgium de Prato nuntium etc. cui delato iuramento veritatis dicendae etc. interrogatus super contentis in expositione eidem lecta, respondit: “Io non so altro solo che da poi che mi ritrovo ad habitar nella presente villa della Rochetta, ho sentito sempre a nominarsi [ ... masc]ha e strega Margarita sorella di Zechino Poggio, moglie lasciata da Bartolomeo Bracho di questa villa della Rochetta di Spigno et questo in occasione [che] mi ritrovavo in compagnia d'altri, discorrendo di simili persone intesi sempre che questa sii strega; se lo sii, Dio benedetto la faci castigare, né saper altro, solo quanto ho deposto; intendo di più che hanno abbruciata sua sorella alla Rochaovrano, et detto Zechino, suo fratello, pure, per sospetto che siano masche e maschoni né saper altro
Super generalibus recte, et est etatis annorum 55 circa, habet in bonis valorem scutorum 600, pater familias, et fecit sequentem signum + .

[Doc. 4] Successive Bartolomeus Viatius [ ... ], testis ut supra, productus, citatus etc., cui delato iuramento veritatis dicendae et interrogatus super contentas in querella et expositione eidem lecta, respondit: "Io ho sempre sentito dire qui alla Rochetta che Margarita Bracha sii una masca e strega, che fu moglie d 'un Bartolomeo Bracho, et un giorno di questa settimana passata sendo vicino alla fine della Rocha vicino a Croce, sulla strada pubblica, la Caterina, la moglie di Bartolomeo Auramo della Rocha mi disse che alla Rocha haveano preso il fratello di questa Margarita et sua sorella che indi hanno abbruciata, né io so dir altro, ma V. S. esamini Bartolomeo figlio di Giacobo Ferrare che le saprà dir un non so che di Bartolomeo Perletto detto Caramello, non mi ricordo però il preciso per esser gl'havevo non so affari né mi ricordo bene, lui saprà dir il tutto né so altro”.
Super generalibus recte et aetatis annorum 70, habet in bonis valorem scutorum mille, pater familias, et fccit sequentem signum + .

[Doc. 5] Successive, coram Notario, Petrus Maria, testis in querella nominatus citatus veritatis dicendae, et interrogatus super contentas in querella et expositione eidem lecta, respondit: "io dirò a V. S. ho sempre sentito nominare Margarita Bracha esser una strega, e una volta sentii dire che Inocenzo Gavoto trovò questa Margherita e sua figlia in Spigno, scapelliate, di notte due o tre anni sono, e Francesco Fornarino et altri che danno la causa a questa Margarita che gli babbi mascato lì figlioli che le sono morti, et mia ava, quando morse, questa Margarita venne in casa, essa incominciò a strepitare e dire "fatela levare, perché è questa che m'ha mascato e mi dà gran dolore stando in casa nostra”. Di più ho sentito a nominar Bianchina moglie di Giovanni Suliano o sii Santino, che essa pure sii una strega perché non viene mai tre volte l'anno a messa; e di più ha detto a mia moglie " Se havesse l'havere ch'è da Serole a basso non voglio mai che ti possi governare”; dicendo queste cose bisogna pur sappi qualche cosa, e questo è quanto sappi sopra quanto consta dimandato” .
Super generalibus recte, et est etatis annorum 31, habet in bonis valorem scutorum ducentorum, uxoratus cum Batina filia q.m Iovanni Podii, et fecit sequemem signum + ; quibus habitis fuit [ dimissus] etc.

[Doc. 6] Sucessive Bartolomeus Ferrarius testis in querella nominatus citatus etc, cui delato iuramento etc. respondit: " Sopra quello V.S. mi ha letto, io ritrovandomi in casa di Fornarino, la moglie di messer Francesco Fornarino disse che volevano far prigione Bartolomeo Perletto detto Caramello et Margarita Bracha che erano masche e mascone, e puoi ho sempre sentito dire in mio tempo che questa Margarita è una masca et n'è pubblica voce e fama, com' anche Caterina ?) moglie d'un fu Giacbetto Marencho esser vecchie streghe, come sempre ho sentito per tali nominate, del resto non so altro ([116]); più dico hora che mi soviene una volta [ ... ] presente a casa nostra nella contrada delle [ ... ] quatro anni sono, dove detto Bartolomeo Perletto detto Caramello havea per mano la barba d'un becco dicendo le seguenti parole ad alta voce: “questo è mio padrone e quello che mi governa, mi dà denari e tutto quello che) ho bisogno, e con esso andava, o sii da esso becco si faceva menare attorno le roche d Manera e diceva: “o Giacometto, vieni a pigliar me e il mio becco”.
Interrogatus quante volte ha visto a far simili cose al detto Bartolomeo, respondit: " Una quatrina di volte mi sono trovato presente et ho visto che detto Caramello, così sopranominato, faceva tali cose” . lnterrogatus se queste cose fatte dal suddetto Bartolomeo erano cose da buon cristiano et a che fine le faceva, respondit: "io vedendolo a far queste cose, chiamando il diavolo per suo padrone, tengo e giudico fossero cose da malissimo cristiano, a che fine non lo so'. Interrogatus se questo tal nominato Bartolomeo e questa voce e fama (che) sii un stregone e da chi habbi lui teste sentito tali cose et alla presenza di chi, respondit: “Io ho sempre sentito dir che esso Bartolomeo sii un mascone, sendone pubblica voce e fama, anzi non ha neanche la Corona (del Rosario), et alle feste invece d'andar a sentir Messa esso va a lavorare nanti la Messa, doppo et come fosse un giorno feriale, di modo che non facendo differenza alcuna dalla festa alli giorni da lavoro, et gridandoli io in particolare, mi ha havuto a dire che non ha che fare né di mezzo della corte né altro, e questo quanto'"
Super generalibus recte, et etatis annorum 25, filius familias, uxoratus, et fecit sequens signum + ; quibus habitis etc.

 [doc. 7] Sucessive coram Notario, Georgius Brachus testis productus citatus cui delato iuramento de veritate dicenda etc. interrogatus super contentas in querella, respondit: “Io non so dir altro, solo che sempre sentii nominare Margarita Bracha esser strega, et massime dalla poverina di mia madre, dicendomi “mi dubito che questa Margarita non sii strega” et di questa non so dir altro; ho di più sentito nominare Bartolomeo Perletto detto Caramello esser lui pure un mascho, et Bianchina moglie di Giovanni Sentino, perché non a mai stato possibile far acomprar una Corona al detto Bartolomeo et la detta Bianchina non viene se non una volta l'anno, si può dir, alla messa; del resto non so dir altro sopra questo”.
Super generalibus recte, et etatis annorum 35 circa, habet in bonis valore scutorum 600, pater familias, et fecit sequens signum *"''·; quibus habitis etc.

 [Doc. 8] Ea die, in domo de Fornarinis sub suis notoriis coherentiis, etc.
Coram predicto Ill.stri et ad. dum Rev.do Domino Vie. Foraneo ut supra, etc. Domina Maria uxor D. Francisci de Fornarinis, testis in processu nominata, citata et eidem delato iuramento veritatis dicendae et interrogata super querella fiscali eidem lecta et declarata, respondit: “ Di quanto V.S. sig. Arciprete et Vicario mi dirnandate et m'ha fatto leggere, dirà a V.S. quello (che) mi occorre, et accade due o tre anni sono, hebbi da mio marito Francesco un figliolo di nome Alberto [ ... ] d'età di giorni 11, venne questa Margarita Bracha a vedermi e mi portò sei ove contro il suo solito, dicendomi: “havete il vostro figlio esperto”; dicendo che dormiva, non si volse mai partire se prima non lo vedesse, là dove portando io questo mio figliolo vicino al fuoco per fasciarlo, dove era questa Margarita attaccata ed app resso, dissemi: " è pure esperto e grosso”; il povero figliolo non tantosto fu partita essa Margarita cominciò  a lamentarsi, et haver male e cosummò in maniera che in tre giorni morì secho essangue, tortute le gambe, e sopra le reni havea un segno che parevali una mano infuocata, nella quale se vi vedevano le proprie ditte, dal che sendone da Lucretia lvalda, mantilara in Spigno, avvisata come costei, cioè Margarita, ha una cattiva nominanza, e che n'era pubblica voce e fama, giudicai sempre e giudico che questa Margarita ha stata quella che m'ha morto esso figliolo, né ho mai sospettato un'altra persona, ch'io sappi, sospettosa di strega che questa, di che n'è pubblica voce e fama
Interrogata se mai ha sentito dire da alcuno che questa Margarìta habbi fatto altri malefici et sii strega e per tale tenuta, respondit: “Signor sì che li nostri ayradori che sono Antonio Bracho, Ioannino Bacino et tutti di questo contorno, la tengono per una strega, havendola vista a balare con sua figlia sotto un pero a Casale, e questo haverlo sentito dire da Gioanino Bacino medesimo et tutti di Casale “.
Interrogata se sii pubblica voce et fama che questa Margherita sii strega e masca, respondit: “Signor sì che è pubblica voce e fama e tutti lo dichono e se più vi fossero lo diriano “.
Interrogata se habbi sentito dire o sappi vi sii altra o altro sospetto di masche o maschone, respondit: " Signor, doppo si dice di queste streghe, Segurano Suliano dice che si trovò presente una volta che Bartolomeo Perletto detto Caramello cridava con Sebastiano del Piazzo, e che havea un becco esso Caramello per la barba e che diceva verso esso Sebastiano: “Guarda questo becco, è mio padrone e ha una cantina più ben fornita che la tua in questa Rocha”, et ch'indi montò a cavallo ad esso becco e se ne voltò per quelle roche verso casa sua soggiungendo: “La mia cantina è in quelle roche"· Di più, dice essa costituta, “hieri, qui nella mia ara, Giacobo Perletto figlio del suddetto Caramello, disse una volta (che) havevo male alla schiena e andai da Lucia Peirana e mi fece un remeddio che pigliò tre grani di sale con tre fille di filo torto e li mise in una scudella d'acqua e puoi seppe dire: "sono tre masche che vi nociono, e una ne può più che !'altre”, e subito guarii. Di più ho sentito dire dalli sudetti ayradori che Bianchina, moglie di Giovanna Sentino, detta la Colomba, è pure una strega, e v'è voce pubblica che essa Colomba sii <strega>, né so altro”.
Super generalibus recte et etatis annorum 30, ha[bet in bonis] dotalibus scuta mille, et fecit sequens signum + ; quibus habitis etc.

[Doc. 9] Quibus sic stantibus Procurator Fiscalis ut supra presens etc. acceptans dicta et depositiones testium ut supra examinatorum in partibus utilibus et favorabilibus, tamen et non aliter etc., petit et instat ad formalem capturam et arestationem deveniri et a carceribus non relaxari nisi prius iustitia suum sortiatur effectum, nec permitti delicta impunita, quin immo eos et eas puniri et multari in penis iuris ad formam Sacrorum Canonum; secum protestarur de negata iustitia ac de recursu etc. offitium etc., salvo iure etc.
Et prefatus Illustris et admodum Reverendus D. Vicarius, sedens etc., praemissis visis et attentis, attenta ea requisitione ac instantia dicti Procuratoris Fiscalis, ordinavit deveniri ad capturam et arestationem diete Margaritae Brachae et Blanchinae Santinae et eas in locum tutum in oppido Spigni conduci et reponi ad effectum et ita etc. etc., nontio etc., qui etc.

 [Doc. 10] Sucessive Georgius de Prato et Laurentius Perletus nuntii ac birruarii Curie retulerunt mihi Notario se sub die hodierna et nunc conduxisse in presenti oppido Spigni Margaritam Bracham et Blanchinam uxorem Ioannis Santini, huius Curie subpositis, et eas in tutum, separatim, reposuisse silicet: dictam Margaritam in castro presentis loci in stabulo dicti castri, et recte claudidisse hostium, et dictam Blanchinam reposuisse subtus campanile easque ibi dimisisse et ita rettulerunt et refferunt etc.
In quorum etc. Bernardinus scribanus Notarius et Cancellarius etc. Et quoniam locus in quo posita fuit dieta Margarita erat dicto Domino Vicario in sospectum pro fuga, sic, instante predicto Procuratori Fiscali, fuit ab ipso loco levata et posita in cubile hospitali huius loci, cum monitione in forma facta Georgia de Prato birruario ut eam tute custodiat ne fugam aripiat, et ita etc.; et hoc sub die decima quarta predicti mensis, mane, etc.
Ordinavit insuper prefatus Dominus Vicarius, ne fame pereat, nec non et dicta Blanchina, de alimentis provideri et hac de re, curam, et diligentiam premissa exequendi, dedit, tradidit et in voce iniunxit Georgino de Prato nuntio, et caveat ne de necessariis pereant et egeant, nam in casum etc., erit paratus de proprio, et ita etc., nontio praedicto etc., qui etc.

[Doc. 11] Ea die, coram pre[fato Vicario], in aula suae habitationis, in iur [ ... ) Iacobus Sulianus, testis in processu nominatus, citatus, productus et iuratus etc. interrogatus super contentas in querell eidem lecta, respondit: "Io ho sentito dire un giorno della settimana passata, sentii a dire da Maddalena, servema di Giorgio Bracho, mi disse che Margarita Bracha e Margarina sua figlia sono streghe e masche, del resto non so dir altro, solo che Bianchina moglie di Giovanni Suliano, o Santino, viene puoco alla Messa, del resto ridico non saper altro”.
 Super generalibus recte, et est etatis annorum 50, habet in bonis valorem scutorum 200, pater familias, et fecit sequcns signum + ; quibus habitis fuit dimissus, animo tam etc.

[Doc.12] Anno Domini millesimo sexcentesimo trigesimo primo, die decima quarta mensis Julii, in aula habitationis domini Vicarii prefati et coram ipso, Lucretia Ivalda, mantilara ([117]) huius loci, testis in processu nominata, citata, etc., cui delato iuramento veritatis etc. et interrogata an unquam habuit sermonem cum aliquo de arte venefica, respondit: “Dirò a V.S. (che) tre anni sono, sendo levatrice de figlioli, mentre madama Maria moglie di messer Francesco Fornarino partorì un bellissimo figliolo, andai colà in casa sua et nell'intrar in casa dissi: “Dio ci aiuti”, et ivi era Margarita Bracha, la quale stette ivi un pezzo, di poi si partì, partita che fu dissi a detta madama Maria: 'Vi venghi il buon anno, chi ha fatto venir qui questa masca”.
Interrogata per qual causa disse queste parole lei constituta, se perché lo sapesse che fosse detta Margarita mascha o perché l'avesse sentito dire e da chi, respondit: " Io dissi queste cose perché lo havevo sentito dire da molte persone, e massime dalla signora fu madama Aurelia Fornarino et altri suoi famigli, non per ingiuriarla né per altro, e perché n'era come n'è pubblica voce e fama “.
Interrogata se sa lei teste perfettamente o s'immaginasse o sospettasse (che) fosse questa Margarita che lo mascasse e nocesse, respondit: “Signor sì che mi venisse in sospetto che fusse detta Margarita mascha che l'havesse nociuto et fatto morire, perché la notte puoi che dormii colà non sentii in mia vita mai li più brutti urli e gridi de gatti che in quella casa”.
 Interrogata se vide quelli segni d'esangue, torzute, et in particolare la mano, o sii segno infocato, respondit: " Signor sì che questo figliolo che nacque bello grasso, svenne esangue, torzuto, con questo segno d'una mano verso le reni e si vedevano le proprie dite d'essa mano infocata
Interrogata quanto tempo campò questo figliolo doppo (che) vi venne male e di che ettà era, respondit: “Signor, non campò più di tre <giorni> doppo che vi venne male, et non havea d'ettà più di dieci o undici giorni, né so altro”.
 Interrogata se questa Margarita habbi fatto altro maleficio, respondit haver sentito dire da Lucia moglie di Bartolomeo Rodano quondam G. che le guastò un figlio essa Margarita, "del resto non so altro né posso dir altro”.
Super generalibus recte, et etatis annorum 45 circa, habet in bonis dotalibus scuta centum, mater quinque filiorum, et fecit seguentem signum + ; quibus habitis fuit dimissa, animo tamen etc.

[Doc.13] Sucessive Batina [ ... ] nominata, citata et eidem iuramento [ ... ] interrogata se mai gl'è occorso cridare o disc[orrer con ... ] niuna donna della sua contrada, respondit: " lo non ho cridato con alcuna, solo che con Bianchina moglie di Gioanni Suliano o sii Sentino più volte inanzi la morte di mia madre e doppo per cose ordinarie di donne mi disse, dico più volte: “S'havessi da Serole al basso l' havere che v'è, non voglio che ti levi dalla fame e sete, et s'essa havesse solo un staro di terra vuole le vagli più ch'a me quello ho detto da Serole a basso”.
Interrogata che cosa viene lei teste a pensare di queste parole e se tiene essa Bianchina donna di mala vita et inobediente alli ordini e comandi di S. Chiesa, respondit: “Io non posso giudicare né pensare, solo che dicendomi simili parole non habbi in sé qualche arte diabolica, e se fusse donna in grazia di Nostro Signore mi immagino non direbbe tali cose, et la lascio com'è, però alla Messa non gliela vedo troppo spesso, et in cambio d'andar alla Messa, alle feste va a coglier herbe per li suoi animali e fa altri esercizii manuali in campagna; del resto non so dir altro”.
Interrogata se sa ch'essa Bianchina habbi commesso altro disordine, respondit: “Io non so dir altro a V.S., solo quello (che) ho deposto”, et cum nil aliud ab ea haberi potuit, fuit interrogata super generalibus, super quibus recte, et etatis annorum 30 circiter, habet in bonis dotalibus scuta centum, uxor Petri Matii, et fecit sequens signum + ; et his habitis dimissa etc.

[Doc.14] [Ioanninus] Bacinus testis in processu nominatus, citatus, etc., cui delato iuramento etc. interrogatus di chi è aradore, in compagnia di chi, respondit: “Di messer Francesco Fornarino, in compagnia d'Antonio Bracho, Giacobo Pcrletto, figlio di Bartolomeo, detto Caramello
Interrogato se nell'arar con gli suddetti et altre persone gli è mai occorso di cosa alcuna di stregheria, respondit: “Signor sì che abbiamo discorso di streghcrie con detti miei compagni in occasione che si trovava di queste streghe dapertutto intorno” .
Interrogatus che cosa ha discorso, che lo dichi chiaramente, di che persona o d'homo o di donna, respondit: "Io ho discorso con detti miei compagni come Margarita Bracha e Bianchina moglie di Gioanni Suliano o sii Sentina siano streghe perché quando io sono stato amalato quatro mesi che non mi potevo arregere sopra le gambe, io dò la colpa e sospetto sopra questa Margarita, che dormiva e praticava in casa mia: per la mal nominata che ha, stimai sempre fosse essa (che) mi perseguitasse; e doppo che più non praticò in casa mia sono risanato, com'anche Dio Benedetto m'aiutò, ché V.S. venne a benedir la mia casa e mi confessò, subdit ([118]) ex se  che “questa Margarita ha sempre in bocca: “che il Diavolo l'acompagni” ,., perché siamo vicini et tutti d'una contrada, et restoli suo nipote per mia moglie, figlia d'un fratello di suo marito; et di Bianchina ho sempre [ ... ] vicini che sia una masca [...] “ .
Interrogatus da che segno ha lui saputo sii una strega [ ... ], sa c'abbi comesso alcun delitto, respondit: “Io l'ho sentito dire tre o quattro volte, del resto la lascio così, et questo però l'ho sentito dire da Batina moglie di Pietro Mazza et Giò Antonio Poggio, suo fratello, che questa Bianchina sia una masca e strega”.
Interrogatus se sa lui teste che sii essa Bianchina disobediente alli ordini di S. Chiesa, respondit: “Questo non lo so, solo che alla Messa ci viene di rado”.
. Interrogatus se mai ocorse a lui teste dire d'haver visto a balare alcuno sotto alcun arbore, respondit: "Io ho sentito dire da Antonio Bracbo con il quale sono in ara delli Fornarini, disse ch'una volta sentì un gran fracasso sotto quei alberi verso la contrada di Casale, dove si dice “an Moncroce”, dalla cassina dell 'Argento, di notte circa due bore, da che n'ebbe gran paura, et questo che dico lo posso haver discorso con molte persone et in molti luoghi,ma ch'io habbi visto non lo posso dire" subdicens ex se: " questo è ocorso questo mese d'aprile mentre si ligavano le viti ".
Interrogatus de causis scientiae, respondit: “ Le cose da me dette sono vere et ocorse nel modo e forma da me deposte".
Super generali bus recte, et est etatis annorum 60, habet in bonis valorem scutorum centum, et fecit sequens signum + ; quibus habitis etc.

[Doc. 15] [ ... ] Michael de Burmida, huius loci, testis productus, citatus cui delato iuramento veritatis dicendae etc., interrogatus super contentas in expositione fiscali eidem lecta, respondit: “Io dirò a V.S., tre anni sono sendo Maria, mia moglie a salire li fagioli in Geneggio, ivi vi venne, contro ogni solito, Margarita Bracha e cominciò a pigliar amicitia con detta mia donna, et un'altra volta puoi da lì a poco tempo venne qui a Spigno, portando o toma (=formaggetta) o ricota non so, e vedendo che un figliolo ch'havea in bra:zzo detta mia moglie, chiamato per nome Bernardino, che piangeva, disse essa Margarita: "lasciatemi un poco questo figliolo a me, e voi andate a far il fatto vostro” e così in confidenza, non pensando sopra altro male, glielo lasciò in brazzo a detta Margarita, al quale subito venne una tosse che pareva infredato, et da lì a quel tempo mai più parlò, né per due anni continui non puotè andar da liberamente, sendo delle gionte disgionte in modo tale che stava dove li ponea, et alla fine morse sgionto della vita tutta; dal lì a puochi giorni, non ricordandomi il giorno preciso, mi trovo sopra la cassina di messer Tomaso Germano e da sé mi dice: “È vero, o Michele, che mi dai la causa a me ch' io ti habbi guastato vostro figlio?”. Le risposi che non m'ero mai immaginato tal cosa, <ma da> quel tempo in qua ho sempre immaginato e stimato che questa Margarita Bracha sii stata quella (che) m'ha guastato esso figlio, né sospettai mai più sopra altra persona che sopra questa Margarita, e questo è quanto”.
lnterrogatus se fonda lui questo suo sospetto sopra altro che sopra quello (che) ha detto, respondit: "Signor no, perché mi mise il sospetto con le parole da me deposte eh' essa mi disse, e questo è quanto “.
Super generalibus recte, et etatis annorum 50, habet in bonis valorem scutorum centum, pater familias et se subscripsit: Michel Bormida; quibus habitis etc.

[Doc. 16] Succesive coram ut supra in loco predicto etc. Nobilis Inocentius Gavotus, testis in processu nominatus citatus, cui delato iuramento veritatis dicendae, et interrogatus an numquam alicui dixit vidisse mulieres suspectas nocturno tempore per locum huius, respondit: “Io non ho mai visto, per quanto mj ricordo, donna di notte sospettosa di strega, e quando lo fussi, perché in quel tempo non se ne tratava, non feci caso sopra"· Subdixit quod ha sentito dire a Michel B. “che ritrovò una volta Margarita Bracha dal guado d'Anselmo e che la minaciava d'un [ ... ] suo figliolo che n'era stato offeso, et ch'essa vi rispose (che) non bavrebbe mai trovato quelle cose, et esso Bormida la lasciò puoi andare, et questo è quanto sappi”“.
Super gcneralibus recte, et etatis annorum 40, habet in bonis valorem scutorum 500 et se subscripsit: Vincenzo Gavotto; quibus habitis etc.
Et cum hora esset admodum tarda, omissum fuit examen, animo tamen etc.

 [Doc. 17] Anno premisso et die 15 mensis iulii.
In iure etc. et coram domino Vicario etc. comparuit predictus Vincentius Borchiellus, Fiscalis Curie, qui acceptavit et acceptat dicta et depositiones testium in parte et in partibus fisco [ ... ] favorabilibus tamen et petit ad ulteriora in causa procedi contra predictas Margaritam et Blanchinam, nec non et alios si etc., et ius et iustitiam fieri et ministrari omni meliori modo etc., sicut protestat de expensis etc., et instat interim deveniri ad formalem descriptionem bonorum predictarum Margaritae et Blanchinae, et in tutum reponi ad salvandum ius, si secus denuo protestando etc., officio etc., salvo iure etc.
Et prefatus Illustris et admodum reverendus Vicarius sedens etc., premissis visis et auditis et admissis si et quatenus etc., ordinavit in causa esse procedendum etc. et ad descriptionem bonorum predictorum deveniendum esse, et ita etc., nontio etc.

[Doc. 18] Anno Domini millesimo sexcentesimo trigesimo primo [die 16 iulii], insuper finibus Spigni in contrata Casalis et ad [ ...] sive de Colombis, in quo loco se transtulit predictus dominus [Vicarius cum] me notario, biruario etc., causa perficiendi prout in ordinazione decreti sui  sub die herina, inventarium bonorum tam predicte Blanchinae quam Margarite, et in primis et ante omnia vocatis Io. Baptista Columbo ac Ioanne Dura, quondam Serveci, testibus, vocavit Isabellam, sororem Blanchine predicte, ibi in domo predicte Blanchine existens et illae delato iuramento veritatis dicendae et consignando distinte bona omnia tam mobilia quam immobilia predictae Blanchinae sororis, sub pena etiam scutorum vigintiquinque camerae episcopali aplicandae et excomunicationis in iuris subsidium.
Ibidem presens, quibus supra presentibus, dixit: “Signor, io sono pronta ad obedir alli comandi di V.S. e djco che qui in casa nostra sono una troia con porchetti sei, più una vacha e due manzoti, vi sono di vino stara due circa, borie cinque di messe di grano, fabbe (=fave) uno staro circa, una bronza, quatro caratelli, uno staro fagioli, un zebro, due carie tali quali, castagne uno staro, una cadena da fuoco, una bronzina, un ferro da segare ([119]) una !etera, due case come si trovano più una casina con suoi sedimi, tutte le proprietà dove si trovano sotto suoi notori  confini, come v'è nel loro registro”  indivise con detta sua sorella, salvandosi sempre ad aggiungere (che) quello (che) si troverà esser in comunione et indiviso et non altrimenti etc.
Quibus omnibus sic stantibus, presentibus quibus predictus Dominus Vicarius sedens etc., ordinavit bona predicta in tutum et penes tertium reponi ad salvum ius, donec etc. et ita etc. et de premissis testibus etc. Presente dicta Isabella et dicente: “Signor Vicario, io terrò appresso di me le cose  suddette e prometto non consegnarle ad alcuno sotto obbligazione dei miei beni senza particolar ordine di V.S. et farò tutto quello sarà di ragione e mi sarà comandato'"
Et predictus Dominus Vicarius ut supra, etc., premissis auditis, ordinavit dicta bona preconsignata penes dictam Isabellam reponi cum precepto de ea nemini consignare, sub pena solvendi de proprio ac de scutis quinquaginta et excomunicationis in iure[ ... ] cum me notario, fiscali predicto ac Georgio Prato birruario ad domum habitationis Margarite predicte, vocatis tum in testibus Ioanne Antonio Santino et Io. Baptista Colombo, et ibi, silicet ad domos de Brachis, proventi, fuit vocata per nuntium predictum, de ordine prefati Domini Vicarii, Caterina Braca, filia diete Margarite, et ipse delato iuramento per predictum Dominum Vicarium veritatis dicendae ac distincte consignandi bona matris sue Margarite sub pena etiam scutorum viginti quinque ac excomunicationis in iuris subsidium etc. ac etc.
Que presens dixit: “Io consegno molto volentieri  V.S. esser in casa nostra un porchetto, due pecore, un borloto di lentichie, una borlotta di messe et una bronzina, con la presente casa et tutte queste puoche terre che si ritrovano, come al registro nostro, al quale etc.; prego però V.S. Sig. Vicario a lasciarmi appresso di me le suddette cose, sendo che ne terrò buona cura, e quelle consegnerò quando sarà dimandata sotto obbligo dei miei beni, et esser anche pronta star in ragione né contradir alli ordini di V.S.
Quibus omnibus auditis a predicto Domino Vicario et admissis etc., ordinavit penes dictam Caterinam bona predicta in tutum reponi ad salvum ius, cum precepto quod nemini tradat sub pena solvendi de proprio et sub pena scutorum quinquaginta et excomunicationis in iuris subsidium, presentibus quibus supra mandavit Procuratori Fiscali, et ipsa caosa rogarunt testes que etc., et ita etc. Bernardus scribanus notarius et cancellarius.

 [Doc. 19] Sucessive coram ut supra [ ... ] Io. Baptista Columbus testis in processum nominatus, citatus, [delato eidem] iuramento veritatis dicendae et interrogatus super contentas in querella et epositione fiscali, respondit: “Io non so altro, solo che Bianchina moglie di Gioanni Sentino ossia Suliano, mia nepote, va puoche volte l'anno alla S. Messa, né credo haverle mai visto una volta la corona (del Rosario), né so dir altro di quanto V.S. m'ha letto”.
Interrogatus se ha lui teste mai havuto altro sospetto sopra la suddetta donna, e vistole a far altro mancamento di quello (che) ha detto, per il quale possi lui medemo congetturare sii puoco timorata di Dio Benedetto, respondit: “Io le dirò, molte volte mi sono stupito a sentire e vedere questa Bianchina a parlar da sé, e nel suo parlare pare parli con un altra persona e pure si vede sola, et stando che mai vidi né sentii altro Cristiano parlar in quel modo, immaginomi e giudico più tosto male che bene
Interrogatus che dichiari distintamente questo da lui teste deposto, cioè “giudico più tosto male che bene”, respondit: “Io giudico parlando nella forma suddetta che parli più tosto con spiriti diabolici che altro, e per questo dico che giudico più tosto male che bene”. Interrogatus quante volte ha lui teste sentito e visto parlare la suddetta Bianchina da sé come depone, e che parole dicea e in che luoco, respondit: “lo l'ho sentita e vista più volte, ma in particolare una volta pasando sola dalla presente contrada in quella moglia ([120]) et una volta nell'horto, et in altri luochi che non mi sovviene, e diceva assai parole che non intendevo, ma ben mia figlia Margarita sentì, ché parlava nel detto horto dicendo “guardate quanti pomi ha questo mio arbore" e pure non si vedea se non essa sola”.
Interrogatus se tutte queste cose da lui deposte stando, tiene questa Bianchina in sospetto di mala Christiana e sospetta di strega, respondit: “Signor sì, che stando le cose suddette fatte dalla suddetta Bianchina, la tengo in sospetto per masca, né so dir altro a V.S. di quanto sopra”.
Super generalibus recte, et est etatis annorum 80, habet in bonis valorem scutorum 700, pater familias et fecit sequens signum + ; quibus habitis fuit dimissus.

[Doc. 20] Sucessive Margarita, filia d. Baptiste Colombi, testis in processum nominata, citata eidemque delato iuramento veritatis dicendae, et interrogata se è tempo assai che fu nell'horto, et quando vi fu gl'accorse mai sentire alcuno a parlar da sé medesimo, respondit: “È poco tempo che vi fui, et, giorni sono, sentii e vidi Bianchina moglie di Giovanni Semino, che così sola diceva “guarda quanti frutti ha fatto il mio arbore ch'ho qui nell'orto".
 Interrogata verso chi diceva queste tali parole, respondit: “Non v'era alcuno nell'horto, e non so con chi lei parlasse”.
Interrogata se mai altra volta vide a parlare altra volta questa donna, o ha sentito dire ad altri che parlasse così sola col vento, respondit: " Signor no, se non questa volta, ch'andò essa Bianchina a coglier del' herbe per gli animali '"
Interrogata che donna sii questa Bianchina da lei nominata, et in che considerazione sii tenuta sia da lei teste che da altri, respondit: “Non so dir altro, solo che parlando così da sé non la tengho faci atto da Cristiana come le altre, del resto non so altro'".
Interrogata se questa Bianchina fa altri mancamenti in non vivere christianamcnte, conforme gli ordini di S.ta Chiesa comandano, respondit: “Alla Messa non ci va troppo spesso, et in giorni di festa va cogliendo qualche erbazza, né so altro”.
Supra generalibus recte, et est etatis annorum 20 filia dicti Baptìstc, nubilis et fecit sequens signum + ; quibus habìtis etc.

[Doc.21] Ea die coram nos [ ... ] in aula domus [ ... ] Nobilis Franciscus Fomarinus, testis in processum nominatus, citatus, ( ... ) iuramento veritatis dicendae et interrogatus se mai gli occorse a lamentarsi di streghe e masche, e a che proposito, respondit: “Signor sì che mi sono lamentato più volte di Margarita Bracha, che due o tre anni sono, havendo mia moglie Maria partorito un figlio per nome Giò Alberto d'ettà di giorni undeci circa, vene qui in casa mia detta Margarita Bracca e portò non so che ove, e non fu mai remedio si volesse partre di casa che non vedesse questo mio figliolo, e non tanto tosto si partì, che questo figlio incominciò ad haver male, et prese volta cativa in maniera che non campò più di tre giorni”.
Interrogatus se lui teste tiene (che) fosse stato nociuto da questa Margarita, respondit: “Qui in casa mia non vene alcuna altra sospetta et tutti il sospetto l'abbiamo sopra essa Margarita, sendo massime che costei ha sempre havuto cativa nominata, e perché non si volse mai partire di casa che non vedesse il medesimo figliolo"·
Interrogatus se lui teste ha altra causa per la quale venghi a sospettare e giudicare sopra questa Margarita, fuori di quella ha detto, respondit: “Signor non, e non che questa ha sempre havuco cativa nominata, et è publica voce e fama, né saper altro”. Subdit tum haver lui teste sentito dire da Franceschino, figlio d'Antonio Bracho, e da Giovanni Del Piazzo che Bartolomeo Perletto detto Caramello si faceva condure per certe roche da un becco ch'havea per la barba, “né so dir d'avantaggio”“.
Supra generalibus recte, et est etatis annorum 28, habet in bonis valorem scutorum bis mille et se subscripsit: Io Francesco Fornarino.

[Doc. 22] [Anno] Domini eodem, dic 16 mensis iulii, in casetta predicta et coram prefato domino Vicario etc., Seguranus Sulianus, testis in processu nominatus, citatus et eidem delato iuramento veritatis dicendae et interrogatus se mai gli accade discorrere con alcuno di streghe respondit: “Signor non, che mi ricordi”.
Interrogato domenica che cosa fece, dove andò e dichi distintamente dove consumò quella giornata, respondit: “Alla mattina andai alla Messa alla Rochetta, indi veni a casa di Fornarino, ivi steti un pezzo, indi mi fermai a casa de Perletti, e puoi me ne andai a casa”.
 Interrogatus che cosa fece a casa di Fornarino, con chi parlò e di che cosa parlò, respondit: Io ci andai a farmi dare colatione per la cena (che) non mi detero il giorno antecendentc che ero andato ad aiutare a segare, e discorsi con madama Maria moglie di messer Francesco Fornarino, con la quale discorsi di questa Margarita Bracha che s'era fatta prigione ch'era una masca, et indi discorsimo che Bartolomeo Perletto detto Caramello era un masco: io le dissi non haver sentito dire altro se non quando prendeva per la barba quel becco e che diceva che era suo padrone e che era di Domevede e ch'haveva una cantina in una rocha di Manera e che era meglio che quella di Sebastiano del Piano, et questo io l'ho sentito dire da Sebastiano del Piano e suo socero, et Antonio Bracho lo saprà"·
Interrogatus come crede lui teste, a che fine ( ...) le cose da lui deposte con questo becco [ ... ], respondit: “Io penso perché dicevano esser sta<ta> acusata per [... ] e che il Signor Vicario Foraneo, ch'era il Signor P(rete?) Pietro Rochetto (che) lo fece venir a Spigno; del resto non o dir altro di questo particolare, perché già ho detto quello (che) so”.
Supra generalibus recte, et etatis annorum 60, habet in bonis valorem scutorum 300 et fccit sequens signum ***'; quibus habitis fuit dimissus animo tamen etc.

[Doc.23] Anno Domini millesimo sexcentesimo trigesimo primo, die 17 mensis iulii, in iure etc. et coram predicto illustri et multo reverendo Domino Vicario et delligato etc., Lucia, uxor Bartolomei Rodani, testis in processum nominata, citata, cui delato iuramento veritatis dicendae etc. interrogata se mai gli accade tratar o parlar con alcuno di streghe e che le fosse stato guastato un figliolo, respondit: “Dirò a V.S. (che) domenica a sera, che cominciava esser scuro, ero in cima la Contrata Rodersa, dove si dice " al Chiaperolo "• con mio marito Bartolomeo Rodano quondam G., dove erano molte persone, ma non saprei bora dire tutti perché erano assai; Pietro Mazza, ch'era ivi, cominciò a trattare di queste streghe, et massime di questa Margarita Bracha che V.S. ha in prigione, qual disse che sempre havea sentito dire che havca cativa nominata. All'hora detto mio marito dice che le fu una volta guastato un figliolo; del resto non so dir altro né posso dir altro”.
Interrogata se suo marito gli disse fosse questa da lei teste nominata Margarita, respondit: “Signor, io non lo posso dire perché non lo so ".
Interrogata se questo figlio che fu guastato era nato da lei constituita, respondit: “Signor non, nacque dalla prima moglie per nome Margarita, et questo figliolo che le fu guastato havea nome Carlo, e detto mio marito meglio saprà dir quello occorre che me, che non posso dir altro”.
Supra generalibus recte, et etatis annorum 30, habet im bonis dotalibus scuta quinquaginta, et fecit sequens signum *; quibus habitis fuit dimissa animo tamen etc.
Et cum hora esset admodum tarda omissum fuit examen.

[Doc. 24] Anno Domini millesimo sexcentesimo trigesimo primo [ ... ), die [18] mensis iulii, in aula domus habitationis Archipresbiteri Vicarii Foraneii et dcllegati et coram eo, [in dicto] loco fuit vocata et a carceribus levata Margarita Bracha, principalis in facto proprio et testis in alieno, cui delato iuramento veritati dicendae etc., et interrogata se sa la causa perché sii detenuta in prigione respondit: “Io non so la causa solo perché mi ritrovi così detenuta, quando non sii per quel che m'immagino, che da tutti sii tenuta per una masca “ .
Interrogata qua die fuit capta, et qua hora diei, in quo loco, respondit: "Io ero alla Rochetta, finita la Messa, domenica passata dopo la Messa”. 
Interrogata quot dixerant quando (?lettura incerta?) ipsa constituta non fuit ibi, rcspondit: “L'altra domenica passata io v'ero pure”“.
Interrogata cum quibus [Missa ... ] frequentius, respondit: “Con Alesina, moglie di Giorgio Bracho, et Bianchina moglie di Zanino Bacino et quei suoi figlioli di mia contrada”.
Interrogata quod in utero gerat et a quo tempore se pregnans existimat, respondit: “Sono venti anni ch'io non partorisco più figlioli, et hora son pregna di pane e di vino” .
Interrogata an unquam fuit Mediolani, Genova, Neapoli, respondit: “Signor, io non ho mai passato Gorrino e Serole”.
Interrogata, quando fuit capta, si habebat vestes quas de presenti habet, respondit: “Sono queste quelle stesse che havevo”.
 [Interrogata ... ] quo[d re]medium pro dolore dentium, oculorum et similium et ad removendum glaciem, respondit: “Io non so curare altre infermità che il male della Giazza e mal de' vermi.
 E per curare la giace dico le infrascritte parole, cioè:
“Cento e sapient senza gatta mat ment b,
mi per una via san son andà,
entr ra Madona son scontrà,
 andà voreivi,
 andè cent sapient,
a vorioma andè in ca' di N.N. e' ha la Giacia,
 Tornè andrè cent sapient ch'ha fa voto
 di stè un ann e un dì senza mangè
 d'aij e lentigie”
E puoi li faccio il segno di S. Croce, così faccio inanzi che dirle, e poi dico cinque Pater Noster e cinque Ave Marie e puoi li faccio dire a quello ch'ha male e lo condano in una livra d'oglio in riverenza della lampa; et il rimedio delli vermi dico le seguenti parole:
Ch' ha fà li vermi è sta Giob,
 se n'ha fatti nove n'ha fatti tropp,
 da nove an ott,
 d'an otto an sett,
d'an sett an sei,
d'an sei an cinqu,
d'an cinqu an quautr,
 d'an quatr an trei,
d'an trei an doi,
d'an doi an un “.
E puoi dico cinque Pater Noster e cinque Ave Maria in riverenza di Dio e S. Maria che quel male se ne vada via"·
Interrogata a quo didicerit talia remedia, respondit: “Da una donna che si chiamava Santina Barella, una figliola di Pietro Poggio
Subdicens ex se: “Io mi scordavo, che so segnare anche il male del masclun, dicendo le infrascritte parole, cioè:
(a questo punto il documento si interrompe).

La parrocchiale dei Spigno
( da http://web.mclink.it/MH0688/Fuoriclasse/mappa.htm)



APPENDICE II
LE LETTERE
Savona, Archivio vescovile, Vicariato di Spigno, Streghe.
Gli atti di seguito pubblicati costituiscono tutta la corrispondenza rinvenuta nell'archivio savonese fra d. Verruta, parroco di Spigno, il Vescovo e gli organi del Santo Offizio, sia regionali (Genova) sia centrali (Roma).
Gioverà ricordare che le lettere del Verruta rappresentano  innanzitutto le informazioni che il vicario foraneo ha voluto trasmettere al suo Vescovo: elemento da non dimenticare.
Molte delle lettere dell'arciprete di Spigno trattano altri argomenti oltre a quello del processo: si è comunque preferito presentarle ugualmente in modo integrale al fine di ottenere un più fedele spaccato di vita sia per meglio delineare la personalità di don Verruta, sia. perché esse permettono di collocare il processo in un più preciso contesto storico, economico, sociale e psicologico, utile per meglio capirlo, contesto che altrimenti sarebbe rimasto ignoto.
La numerazione attribuita ai documenti è nostra.

Lett. 1. 17 luglio 1631
Lettera dell'arciprete di Spigno al Vescovo di Savona.
lll. mo ec Rev.mo Sig. mio padron colendissimo,
Già ho seritto a V.S. Ill.ma quanto occorre circa le donne incarcerate, aspetterò ordine nè troppo m'alargarò. Qui inchiusi sono li testimoni essaminaci per la dispensa del Nano ([121]).  V.S. Ill.ma avvisi quanto vi vuole con l'espedizioni nella Cancelleria, acciò le possa far rimborsar al signor maestro di casa.
A Turpino s'è fatto tagliare (il grano) et si farà anche battere, uve non vi sono, il fieno è iacassinato. A Piana s'anderà per l'affitto col Sgorlino ([122]) er di già si è avvisato il Massaro della Chiesa per il lume al SS.mo Sacramento. Alla Comunità vorria e sarà bene che il Sig. Marchese D. Alfonso parlasse. Perciò V.S. Ill.ma sarà servita scriverne a d. M(archese) una riga perché s'accerterà meglio il fatto. Non mancherò in toto posse far l'ufficio con questi uomini che devo.
Per li conti ho già scritto che sono prontissimo et si faranno ogni volta che il maestro di casa vorrà, che è quanto mi occorre, mentre con humiltà a V.S. Ill.mafaccio riverenza.
Di Spigno li 17 di luglio 1631.
Di V.S. Ill.ma et Rev.ma Servitor humilissimo
Giò. Verruta Arc.te
(A tergo: All 'Ill.mo et R.mo Sig.r mio padron Colendissimo Mons.r Spinola, Vescovo
di Savona).

Lett. 2.  21 luglio 1631.
Lettera dell'arciprete di Spigno al Vescovo di Savona.
Ill.mo et Rev.mo Signor mio padron colendissimo, da messer prete Giò. Giorgio fui richiesto a trattar con quei huomini della Villa della Rocchetta, perché volessero compir il Decreto di Mons.r Vescovo di felice memoria per il suo salario di 8 scuti d'oro et quantunque m'habbino risposto  volerlo fare, adesso però parmi così consigliati non vogliano, intendendo solo darli scuti 15 in  moneta, dicendo che V.S. Ill.ma resta obligata a mantenerci il Rettore per la servitù loro. Poiché esso Rettore non può lì venire, m'ha pregato voglia darne partecipazione a V.S. Ili.ma, acciò ordini quello dovrà fare per tal loro rinitenza, sendo prontissimo nondimeno ad ubbidir a quanto li commanderà. Qui alla mia chiesa vi è una cappella della comunità d'obbligo di 3 messe la settimana, qual non è servita per mancamento di sacerdoti.
Esso messer prete Giò. Giorgio vorria servirla, se fosse in gusto et si contentasse V.S. Ill.ma, con attender anche alla cura, supplica a concederli grazia.
Si sono già interrogate una volta le donne incarcerate et il Dottore dice converrà torquerle ([123]) sendo gravate a tal segno, con tutto ciò essequirò l'ordine dattomi di interrogarle la 2a volta et mandar costì le scritture.
Le vettovaglie sono tutte, cioè le messi, marzaschi, ritirate in sicuro all'Abbazia.
Dimani vado a Piana ([124]) per veder che quel prete di Dego vi volesse andare, et a questo effetto hanno chiesto vogli benedir una cappella in campagna.
In chiesa ci sta il lume, ma per li corpi insepolti niuno vi ardisce andarci; parlerò con Sgorlino che ancora sta in Cerretto.
E con questa a V.S. Ill.ma faccio riverenza.
Spigno li 21 luglio 1631.
Di V.S. Ill.ma et Rev.ma Humilissimo Servitore
Giò. Verruta

(A tergo: All'Ill.mo et R.mo Sig.r mio padron mio Colendissimo Monsignor Spinola, Vescovo di Savona).

Lett. 3. 22 luglio 1631.
Il cancelliere della Curia vescovile di Savona manda a d. Verruta, vicario foraneo a Spigno, istruzioni circa il processo alle presunte streghe (Minuta).
Littera scritta al Signor Arciprette Vicario Foraneo di Spigno.
Da Mons. Ill.mo m'è stata rimessa una Vs. lettera nella quale si tratta del particolare delle streghe, e poichè da essa Voi richiedete il modo che dovete tenere, et anco si vede quel che fa il magnifico Podestà di costì, per la presente vi manda l' inclusa instruttione della quale vi servirete a suo luogo e tempo, et essaminando i testimoni prima di innovar altro contro le pretese streghe ci darete avviso con mandar copia delle scritture secreta e sigillata, non potendo dar rimedio se prima non si vedono le scritture e informazioni. Circa il resto, vedendo che il magnifico Podestà per quanto dite cammina a buon fine per est estirpare simili radici, con bel modo l'anderete trattenendo allegandoli che simil materia si deve cognoscere dal Giudice ecclesiastico per esser di Santo Ufficio; è però vero che bisognando d'aggiuto ricorrerete da lui che, in tal caso, si doverà compiacere di darlo essendo così di raggione, ma sopra tutto haverete riguardo a camminar destramente, perché il magnifico Podestà non prendesse poi pretesto di non darvi aggiuto, che è quanto per ora occorre dirvi intorno detto particolare, e da N .S. vi prego salute.
Savona, il dì 22 luglio 1631.

Lett. 4. [ ... ] settembre 1631.
Lettera dell'arciprete di Spigno al vicario generale di Savona.
Data illeggibile, probabilmente l'inizio (1°) di settembre.
Ill.mo et Rev.mo Signor mio padron sempre Colendissimo,
Il maestro di casa ([125]) mi dice che V.S. Ill.ma esser cent'anni (che) non ha mie lettere; restando mesto per averle scritto quattro volte, né mai visto risposta alcuna, com' esso maestro di casa pur sa, né è mio mancamento, ma si bene deriva da codesti rastrelli ([126]). Scrissi quanto occorreva circa queste streghe, come vedrà anche dall'alligata, cbe contiene la sostanza del processo, ma, di grazia, risposta subito perchè siamo minacciati noi giudici di nuova contagionc, come pur segue a Roccaverano, Acqui et altri luoghi circonvicini. Mons. d' Acqui è morto di contagio, e le cose passano malissimo. Qui, (per) gratia del Signore, vanno assai bene, se ben succede qualche caso nelli figlioli maleficiati dalle streghe che restano ancor di fuori dalle carceri.
A Piana le cose non ponno andar di peggio, né in modo alcuno, stantibus etc., trovo prete né religiosi vi voglino attendere.
Già con altra mia scrissi a V.S. Ill.ma come il famiglio di Antonio Boffa doppo (haver) gridato col detto maestro di casa per certi bovi (che) davano danno nelli beni dell' Abbazia, hebbe ardire di  percuoterlo con pietre, et ferirlo con animo cattivo, come nella querella, aspettando ordine se lo doveva far denunciare per scomunicato e come havessi a governarmi, massime hora che tra luoro parmi sia seguita remissione e perdono. Sin qui detto famiglio sta ritirato et separato et Ill.  Marchese vor ria castigarlo. V.S. Ill.ma resterà servita ordinarme quello (che) dovrò fare.
A Turpino, dico per li beni, ho fatto prattica di trovar attendenti nuovi tanto nel finaggio di Spigno ehe di Montechiaro, né sin qui ho potuto accertare, per esser in queste bande morti quasi tutti di peste. Sono però appresso ad un huomo hora seco di questo negotiando, et ne sento pena e travaglio.
In Menasco quei parrochi vorriano renunziarc, et intendono esser liberi dall'affitto, e circa far estimar i danni non si può venir in chiaro, poichè sono più di 30 anni (che) l'hanno ad affitto, nè consta d'alcuna visita allora fatta. Quest 'anno vi sarà pochissime castagne, et le poche terre sono gerbide, et un poco di fieno ancor da segare, che però io mai ho voluto accettar la rinunzia, et specialmente havendo con V.S. Ill.ma fatta la scrittura.
Ogni volta sarò avvisato di venir al rastrello di Ferrè per parte di V.S. Ill.ma sarò pronto per ricever li commandi, se ben resto occupatissimo per il negozio di queste streghe.
Si manda a prender la S.ra Marchesa a Milano la settimana venente per farla sposa con il Sig. (Marchese) di Cairo.
Il Sig. Horatio, fratello del S. Marchese nostro, è stato ferito da un suo servitore a S. Marzano, et rubbato (di) 600 scuti d'oro, et in questo punto il Sig. Cavaliere ([127]) ritorna a casa, havendo inteso, per strada, esser morto di quella ferita. Il prete di Turpino saria già venuto a rastrelli per l'investitura, ma per esser serrato per la peste sin qui non ha potuto: adesso che Turpino è libero verrà all'approbatione e mi dice compirà al tutto.
Queste streghe tutto il giorno dimandano confessore: V.S. Ill.ma mi farà grazia di dar autorità a p. Buffa di poterle consolare.
In questa comagione sono stati fatti due legati alla mia chiesa di valore di 3 doppie l'uno e col consenso e gusto di V.S. Ill.ma vorrei alienarli e rimetterli in compra d'una cassina e sedime attaccata alle possessioni della chiesa, conoscendo (che) sarà utilità maggiore et beneficio  evidentissimo della chiesa, che però la supplico a consentirli sendo legati fatti di fresco.
Il signor Marchese e Comunità hanno avuto le lettere di V.S.Ill.ma toccanti le danni et interessi patiti dall'Abbazia nella passata guerra, et propostisi et letta in Consiglio, il prossimo altro (che) si congregherà, credo risolveranno: vi sono però assai contrapesi, né mancherò di solicitare.
Mando il conto del manegiato, cioè (ri)scosso e speso, del 1629 et '30, acciò V.S. Ill.ma veda quello vi è, già che il maestro di casa mi dice lo mandi avanti che far li conti insieme.
Risupplico V.S. Ill.ma a risponder per queste masche, poiché il s. Marchese m'accelera nelle condanne, non perderà (? o prenderà? Lettura incerta) la Corte nostra, così mi ha promesso, et intende di fare.
Il grano qui vale (croso)ni 17 e più, le doppie a ragione di 55-56, scuto d'argento 25 la pezza, e sul mercato ve ne viene ogni giorno più di 100 mine.
S'attenderà a scoder li fitti hora sbrigati da. queste maledette bestie.
Faccio per fine a V.S.Ill.ma riverenza, et me lo ricordo in bona gratia.
Spigno li [ ... ] settembre 1631.
Di V.S. Ill.ma et R.ma humilissimo Servitore
Gioanni Verruta Are.te

Lett. 5. Tra il 1° e il 9 settembre 1631.
Minuta di lettera scritta dal Vescovo di Savona all'Inquisitore di Genova.
Senza data, ma anteriore al 9 settembre 1631, data della risposta dell'inquisitore.
Molto Rev.do Padre,
Dal mio Vicario foraneo di Spigno, a cui dellegai la causa delle streghe essistenti nella mia Diocesi dì là dai monti, ricevei hieri ([128]) il sommario del processo del quale ne mando inclusa copia. Sono instato alla gagliarda, stante il danno comune, il tempo del contaggio, l'assistenza del giudice secolare e volontà sua di voler venir a risoluzione rigorosa per interesse publico, di dar all'istesso Vicario Foraneo autorità assoluta accioché la Giurisdizione Ecclesiastica non restasse indietro dalla sub(itane)a resoluzione che facesse la Secolare, ma, per esser punto nel quale conviene che camminiamo nelle sentenze d'accordo, oltre la gravità della causa, non mi son risoluto dargli altra autorità che prima non resti questo negotio partecipato con V.S. Ill .ma Molto Rev.nda e con suo consenso inscritto, se li prenda oportuna provi(gione?). Se il processo è così ben formato come il sommario, dubito che sia necessario a terrore et ad essempio e per compimento di giustizia provedervi rigorosamente. Il farlo copiare per vederlo, il che saria più accertato, daria dilazione di mesi oltre le spese e resteria di grave pregiudizio al publico. Perciò sarei di parere di ordinare che ad uno de rastrelli si trasferisse il Vicario Foraneo con le scritture autentiche in compagnia del Podestà che ancor ha fatto la causa, et ivi trasferirmi ancor io in compagnia di V.S. Ill.ma, quando si risolvi farvi un passo, oppure in compagnia del suo Padre Vicario che è qui in suo luogo, mentre però a questo li dia autorità sufficiente per far sentenza, e letto il processo maturatamcnte, segregate le cose certe dalle incerte, provedervi secondo importerà la importanza del negotio.
Mi son parso debitore d'avisarlo di tutto, con pregarla ad haverli presta consideratione, acciochè la giustizia habbi il suo luogo e la giurisdizione non ne sia tolta, et il tutto segua con quiete e   soddisfazione comune, e mentre ne attendo la risposta le prego da Dio ogni contento.

Lett. 6.  9 settembre 1631.
Lettera di risposta del padre inquisitore di Genova al Vescovo di Savona.
Ill.mo et Rev. mo Signore padrone mio colendissimo, ho visto anc'io il sommario fabbricato dal suo Vicario foraneo contro di quelle streghe di Spigno et attese le loro confessioni, è negotio molto grave, del quale stimo necessario darne pronto avviso aUa Sacra Congregatione per aspettar avviso di tutto quello si dovrà fare circa la loro espeditione, e tanto farò per questo primo ordinario come stimerei bene facesse anche V.S. Ili.ma, avvisando intanto con sue lettere quel Signor Marchese che s'astenghi di tentar cos'alcuna contro di dette streghe, dovendo prima esser conosciuta la loro causa dal Sant'Officio dal quale saranno arbitrate, sententiate et assolute dalla scomunica, e che però  avverti (il Marchese) di non incorrere nelle censure etc., tanto più che, come appare dal sommario, il Vicario Foraneo di V.S. Ill.ma ha havuto la preventione in tutto e per tutto, e quando anche altrimenti lascerà che il Sant'Officio facia prima la parte sua, che puoi all'hora farà anch'esso la sua.
Questo mi è parso di dover rispondere a V.S. Ill.ma per camminare più cautelatamente in negotio di tanta importanza come è questo.
Bacio affettuosamente le mani a V.S. Ill.ma e Rev.ma e prego di ogni vero bene.
Genova li 9 settembre 163 l.
Dcv.mo et Hum.mo servitore
f. Pietro Ricciareli Inquisitore

Lett. 7. 11 settembre 1631.
Minuta di lettera del Vescovo di Savona alla Congregazione del Santo Uffizio, Roma.
Eminentissimi et Reverendissimi Signori,
Per li casi che vanno seguendo alla giornata in parte di mia Diocesi, invio alle Eminenze Vostre il sommario della causa contro alcune persone ([129]) esistenti nella mia Diocesi di là dai monti, havendo fatto tutto il processo il mio Vicario Foraneo, a cui per la difficultà dcl contaggio delegai la causa. Sono instato alla gagliarda, stante il danno commune, il tempo del contaggio, l'assistenza del Giudice Secolare e volontà sua di voler venire a risolutione rigorosa per interesse dei suoi luoghi, di dare al detto Vicario Foraneo autorità assoluta in detta causa, ma io non ho voluto acconsentir a cosa alcuna che prima non riceverò dalle SS.rie Vostre Eminentissime espresso ordine di quello (che) doverò fare in causa si grossa, qual anca ho partecipato al Padre Inquisitore di Genova per camminare di comune consenso. Per tanto supplico l'Em.ze Vostre di restar servite farmi avvisato del lor senso affinchè io possi, come è mio debito, essequir li suoi comandi, quali mentre attendo, quanto presumi il pericolo di qualche novità del (Giudice) Secolare, al quale procuratore ho potuto sii ripartita (?).
All'Emin.ze Vostre riverentemente riverisco et prego dal cielo ogni maggior grandezza.
Savona, li 11 settembre 1631.
Delle SS.rie VV. Em.ne et Ili.me.

Lett. 8. 15 settembre 1631.
Lettera dell'arciprete di Spigno al Vescovo di Savona.
Sono giunto qui al rastrello per la condotta del grano al Sig. Vicario, havendo voluto a provare per le difficoltà (che) si diceva esser per le strade, né vi è sospetto alcuno grazie di Dio, anzi il Signor Marchese vuole et intende che i suoi suditi passino liberamente per Montenotte ([130]) e per ogni strada con sue bollette. Mi meraviglio del maestro di casa facci tanta difficoltà, e se vuol far fare la condotta de suoi grani conviene la facci questi otto giorni, altrimenti V.S. Ill.ma. per le sementi e vendemmie che soprastanno dovrà aver patientar ancor qualche tempo.
Non ho trovato chi vogli attender al partito che V.S. aveva di far condur partita di grani per le Monache a L. 22 la mina, stante che vale già a Spigno scuti 19 e più per stara et L. 2 per la condotta, né posso far d'avantagione à manco condotto al rastrello di L. 26 circa. Al Signor Marchese ho consegnato la di V.S. Ill.ma, che mostra voler tener bona mano per l'interessi con la Comunità, et m'ha hieri ricordato che replichi a V.S. Ill.ma il negotio delle streghe.
Non ho potuto haver et trovar le prove sufficienti contro il famiglio del Boffa che percosse legiermente il maestro di casa procedendo, secondo messer Enrigo riferisce, che si trovò presente, manda l'inclusa supplica aciò V.S. Ill.ma le provedi et grazii quando sii incorso.
Non starò allargarmi più avanti stante che non ho causa. Per Turpino sin qui non ho potuto trovar cosa di certo, sendovi pochi huomini et molte possessioni gerbide.
Rastrello di Ferrè, li 15 settembre 1631.
Di V.S. Ill.ma  et Rev.ma Serv. Humilissirno G. Verruta.

Lett. 9. 27 settembre 1631.
Lettera dcl procuratore del Sant'Uffizio di Roma al Vescovo di Savona.
Ill.mo et Rev.mo Sig. e padron. mio. osservantissimo
Ricevo il favore della lettera di V.S. Ill.ma de 11 settembre con la ligata per la Congregatione del Santo Ufficio, che feci recapitare subito et ò parlato al Secretario del Cardinale Santo Onofrio per la risposta, (il) quale mi ha detto che ne haverà pensiero particolare. Ringratio V.S. Ill.ma della occasione m'à dato di servirla e la prego à darmene continue e maggiori, assicurandola che la servirò sempre con la prontezza e deligenza che devo. In tanto per fine ricordo a V.S. Ill.ma l'obligatione mia e li faccio riverenza.
Di Roma alli 27 settembre 1631.
Di Vs. S.Ill.ma e rev.ma Obbl.mo Servitore Stefano Senarega


Lett. 10. 29 settembre 1631.
L'arciprete di Spigno manda al Vescovo di Savona un'informazione sommaria sul processo alle streghe di Spigno.
Ill.mo et Rev.mo Signore
Acciò V.S.Ill.ma resti informata di quello (che) va succedendo attorno la causa delle streghe portatrici della contagione, per non fastidirla in soverchie parole dirò brevemente quanto risulta dagli atti, la cui copia, quando si volesse estrahere, v'andrebbero mesi.
Saprà dunque V.S. Ill.ma come all'instanza del Procuratore Fiscale della Mensa s'essaminarono sei testimoni, quali per pubblica voce e fama han deposto unanimi che Margarita Bracha sii masca, et che Bianchina Suliana pure, per non andare due volte l'anno alla messa.
Si fecero captivare.
Indi essaminati messer Francesco e madama Maria giugali De Fornarini, nominati nel processo, concludono che questa Margarita l’habbi guastato un figliolo per nome Giò. Alberto. Indi essaminato Zanino Bacino, teste nominato in processo, depone esser stato amalato circa 4 mesi, né sospettar che sopra questa Margarita, per praticar in casa, in segno che risanò quando più non volse l'amalato haver tal pratica.
Michel Bormida spontanemente depone che questa Margherita gli ha nociuto un figliolo, che per due anni restò senza poter andare, il qual morto, un giorno incontrandosi con essa Margarita le disse verba formalia: “O Michel, mi datte la causa v'habbi morto uno figlio”, dal che venne a scoprire e dubitare che questa fosse strega.
Essaminati poi Bartolomeo e Lucia giugali De Rodani, separatim depongono e concludono d'haver sospetto che questa Margarita l'habbi guastato un figlio per nome Carlo, perché andò in casa d'essi e subito vi venne male, dove in breve morì.
Giacomo Ferraro dice haver visto Bartolomeo Perletto detto Caramillo subire hircum et dire “questo è mio padrone, che mi dà danari e quello (che) voglio”, et haver sempre sentito nominare Caterina Marencha di Merana, detta la Giacheta, esser masca, qual captivata dal giudice secolare et posta in carceribus, da esso essaminata nega, sostenendo due hore di corda et altri tormenti nella negativa; alla fine venne nanti il vicario et Delegato e confessa liberamente esser masca, et che a diventar masca l'accade esser in necessità d'inverno senza pane et alimenti per li figlioli e chiamò o che Dio o il Diavolo l'aiutasse, quindi le comparve il Diavolo vestito di verde, in forma di un bel giovine, che le disse non dubitasse perchè s'havesse fatto a suo modo l'havria dato e prevista di tutto quello havuto bisogno, e così dicendogli di sì essa donna, gli fece far la Santa Croce in terra e puoi gliela fece conculcare et con la mano le fece atto di levar la Cresima sulla fronte e poi le fece renegar Dio, la Beata Vergine, Passion di Cristo et il Battesimo, e puoi si fece adorar con farsi baciar il cullo sodomitice carnalmente essa constituta et gli dette frustum subucul(ae?) et si partì con promessa d'esserle in tutto obediente et in ciò l'havesse commandata, et andandosi a confessare avertisse di dir mai la verità et s'havesse potuto pigliar il SS.mo Sacramento dall'altare per calpistare, l'havrebbe preso et non ingoiato, quod Deo non placuit, prout dixit.
Confessa di più eser andata in compagnia di due che nomina in processo, di Cagna, a guastar un manzo, doppo haver ballato col Diavolo et da lui conosciute sodomitice, nell'esser andata colà con il bastoneto, et dice il modo d'usarlo, et un'altra volta esser ivi, al modo usato, con le suddette a  guastar un bove, et mostra il modo, un'altra volta esser andata al Castelletto Val d'Erro di compagnia della signora Giustina Carreta a guastar un'agnata di porchetti, un'altra volta in compagnia di Margarita Braca, Bianchina Suliana al detto luogo di Cagna a guastar un figlio in casa di Simon Gatto, et dopo havcr ballato col Diavolo da esso furono tutte conosciute carnalmente sodomitice; intrate in casa et preso il figliolo, havendo il Diavolo aperta la porta, fece un grido, là dove il padre si svegliò et tutte fu girono per tema della morte, et così rimessa.
S'essaminò detta Bianchina, la quale confessa il modo d'esser stata fatta et diventata  strega, et esser da anni 16 circa, et essersi datta al diavolo per libidine, et osservato il modo nel far della Santa Croce con la conculcazione e modo suddetto, nel restante dice non haver fatto alcun male et persiste in negativa.
Margherita Bracha essaminata si fa donna santa, ad ogni modo nell'esame cascò due volte o tre in terra tramortita, mentre se vi esaminò Fran.co Fornarino et Michel Bormida et persistendo in negativa s'ordinò fossero rasate come stillate circumcirca.
Mentre del tutto con sommario ero per darne avviso a V.S. Ill.ma, venne il Rev.do Curato della Rocheta con altro testimonio e deponnero haver sentito Domenica passata che Lucia Rodana è una masca da lei medesima et deponero d' alcuni malefici da lei nominati e nomina d'alcune.
Ad un'hora di notte col Cancelliere fiscale e messo della corte andai ad incarcerarla, et essaminata a mezza notte, depone esser strega dalla guerra in qua, et a diventar masca fu indutta da Margarina sua ava, ch'era capitana della masche, usato il modo e forma suddetta, et esserle stato posto nome dal Diavolo Martina, e dice liberamente esser masca et esser andata di compagnia di Lucia Peirana, Zanina Suliana, Margarita e Margarina Bracha, Bianchina Suliana, Marieta Colomba, la suddetta Caterina Marenca et Bianchina sua figlia con Banolomeo Perletto, detto Caramello, a commetter molti malefici et in specie in casa di messer Francesco Fornarino a guastargli un figlio, e dice che prima ballarono sotto una noce, suonando detto Caramello con un tamborino circa mezza notte, indi furono conosciute dal Diavolo sodomitice.
Questo fatto, andarono a guastar esso figliolo, e depone il modo; più esser andata in compagnia delle suddette et di Maria Scaiola di Turpino con molte altre (che) non conosce a far altri malefici a Cagna, a Serole, et un'altra volta a nocere al fratello del Reverendo Curato della Rocheta, facendo arrancar un fico, come in fatto è seguito e si trova; più esser statta presente a portar la contagione a Spigno del mese d'ottobre in compagnia delle suddette, et mostra le case state onte di contaggio; più esser andata a concitar la tempesta due volte in compagnia come sopra et insegna il modo.
Il Podestà fa incarcerare le suddette tutte nominate, quali di compagnia et comunemente sono essaminate come dappertutto in questi contorni.
Si stilla Margarina, figlia della Margarita, e dice di due malefici commessi con sua madre, et il modo d'esser diventata strega per haver invocato il Diavolo, et osservata la forma suddetta essaminata col sig. Giudice secolare col quale resta il processo comune.
Lucia Peirana depone esser strega da 3 anni circa, et che havendo chiamato il Diavolo come desperata, le comparve vestito di verde in forma d'un bel giovane, come sopra, e fatte le renuntie alla S.ma Trinità e Passion di Cristo in forma etc., dice in compagnia di tutte le suddette nominate et di Marieta Barbera et di Giacomo Aurame esser intervenuta alli malefici suddetti et a portar la contagione a Spigno, alle case che nomina in processo; più confessa una pignata di untagio, quale ritrovata è stata abbruggiata nella piazza del castello.
Essaminata Zanina Barbera figlia di Marieta che va con le crozze  ([131]) dice esser donna da ben, ma nella repetizione confessa esser strega et esserlo diventata per carnalità, confessa due malefici.
Giacomo Aurame, liberamente costituito nelle nostre forze, depone esser mascho, et esserlo da un anno in qua, et intervenuto ad alcuni malefici con tutte le suddette et altre nominate nel processo, di Merana, Serole et altri luoghi com'anche a portar la contagione a Spigno tre volte, item fuisse ad  concitandas grandines in compagnia d'alcune detenute due volte, et dice il modo: che essendo  chiamato dal Diavolo andò sopra un monte, dov'erano tute le suddette, e fatto un fosseno, ivi tutte orinarono, com'anche il Diavolo, indi mescolando quell'orina il Diavolo vi mise un poco di polvere, et levandosi in alto fumo si fanno nuvole, da dove dicono al Diavolo: " metti giù, metti giù "  Marieta Barbera essaminata depone esser strega liberamente da quattr'anni in qua, et essersi data al diavolo per libidine nel modo come sopra, et confessa molti malefici in compagnia delle medesime, et di Bartolomeo Perletto detto Caramello, et esser venuta a Spigno a portar la contagione, et mostra le case ch'banno omo, chi tiene l'onto sì per il bastoneto come di contaggio, concludendo con le suddette.
Zanina Suliana si fa santa, fi nalmente sostenendola le altre in faccia con li malefici fatti, confessa esser strega da due ani in qua, datta al Diavolo per libidine, et dice haver osservato la forma dell'altre, in compagnia delle quali e del Diavolo haver fatto alcuni balli notturni, et trovatasi ad alcuni malefici.
Bianchina Suliana per la carne confessa essersi data al Diavolo, et esser strega da 16 anni in qua, nel resto pare sii santa, si dispone poi e confessa cose esecrande, sì circa malefici che circa contagium.
Margarita Bracha si fa casta, alla fin confessa esser strega da 11 anni in qua, et haver commesso alcuni malefici, resta però, così vien convitta, et dicono tutte haver un pignatino di contaggio consignatoli dal Diavolo in loro presenza.
Maria Scaiola, donna di rilevo, protesta dell'infamia, e poi confessa da due anni in qua esser masca, e confessa due o tre malefici con alcune nominate, et forestieri, nel resto non se le può parlare, non accorgendosi ingannata Diavolo che fu origine della contagione di Spigno et fu quella (che) invitò le altre a tanto fare, come le vien sostenuto in faccia dall'altre.
Bartolomeo Perletto detto Caramello si sostiene per un poco huomo da bene, finalmente da tutte le altre le vien sostenuto faccia esser masco, et esser andato con loro a sonare di notte, onde in seguito si risolve e confessa esser un stregone da 20 anni in qua, per certo formaggio che li mancò, et racconta il modo d'esser venuto masco nella forma suddetta, et il nome Caramello esserli stato posto dal Demonio: confessa diversi malefici con le suddette, indi dice et insegna il modo et luoco dove s'è fatto il contaggio nelle fini di Cagna, dov'erano al numero di 300 persone, composta di serpi velenosi, come biscie, babbi, scelestri, laioli et simili animali con herbe dentro posteci dal Diavolo, distribuita una pignata a Maria Scaiola, una a Bianchina Suliana, a Margarita Bracha, a Catherina Marencha, et ad altre, con ordine del Demonio di servirsene per unger le porte et persone. Nomina di più una signora Delia, moglie di messer Guglielmo Beltrame, vista a ballare di notte pochi dì sono col Diavolo, una Beatrice Ghilia di Spigno, quali cose tutte hanno sostenuto ogni di loro nella ripetizione et in tortura ordinata dal Sig. Podestà et doppo la tortura, e tutto ciò s'è fatto queste due settimane, volendo l'Ill.mo S. Marchese, per sua parte, farle dar fine per incominciar indi altro processo contro le captivande, attorno che havrà a charo il parere di V.S. Ill.ma, la quale supplico intanto, atteso che assisto tamquam Delligato, a darme ordine et Authorità ampia acciò il tutto si faccia con buon fondamento et riputatione, sendo che il tutto cammina con buona intelligenza con detto Sig. Marchese, il quale per sradicar simili bestie intende far presto, et tardandosi più siamo minaciati di nova contagione da loro, havendonc composta novamente alla Roch'ovrano.
Che però V.S. Ill.ma sarà servita subito partecipare il suo prudentissimo parere, et mandarme ordine (di) quello (che) havrò a fare.
Tutte l'incarcerate, che sono 14, han confessato, fuor d'una convita da complici ne' delitti, che per opera del Diavolo nega tuttavia.
Resto con farle humillissima riverentia.
Spigno li 29 settembre 1631.
di V.S. Ill.ma et Rev.ma Humillissimo Servitore
Giò. Verruta Vicario
(A tergo: Lettera a Mons. Ill.mo di Savona che contiene la sostanza del processo fatto nella causa delle streghe)

Lett. 11. 3 ottobre 1631.
Minuta di lettera del cancelliere del Vescovo di Savona all'arciprete di Spigno.
Molto rev.do Signore

Havendo inteso Mons. Ill.mo per lettera di V.S. scritta a mons. Vicario Generale che costì si affretta in dover innovare et asseguire contro le incolpate per streghe, e ciò massimamente dal Tribunale Secolare, mi ha comandato scrivi a V.S. che in conformità del già scritto in questo particolare non innovi né permetta che s'innovi cosa alcuna in far essecutione contro dette incolpate sino all'ordine et avìso della Sacra Congregatione alla quale s'è scritto e quale resta del tutto informata, avvertendo V.S. a invigilar molto in questi particolari e puntualmente ad esseguirc la mente di S. Signoria lll.ma per esser cose gravi e già introdotte inanti al S. Tribunale della S. Congregatione, né per altro.
Nostro Signore la feliciti.
Savona, lì 3 ottobre 1631.

Lett. 12. 20 ottobre 1631.
Lettera di don Verruta al cancelliere episcopale di Savona.
Illustre Signor mio
Veddo quanto per parte di Mons. Ill.mo mi avvisa circa queste streghe, che il Tribunale Secolare vorria da canto suo sbrigare; così, sendomi giornalmente il Sig. Marchese alla vita ho però in conformità detto(gli) non innovi cosa alcuna senza aviso di Sua Sig.ria Ill.ma, così anche al Giudice Secolare, et andando il negocio alla longa, io non potrò resistere, se ben da canto mio mai si troverà fallo alla Giurisdizione. Nelli luoghi circonvicini si è venuto all'essecutione contro simili bestie, il che fa stupir (che) qui s'usi tanta difficultà, né vi è altro, tanto più che minacciano per la vita li primati del logo et se ne vedde l'effetto. Io però non permetterò, per mia parte et per quanto potrò, (che) si innovi altro, ma temo, andando più alla longa, si faranno dal Secolare altre resolutioni, né ci posso competere, perché mi trovo qui solo abbandonato.
Che servi a V.S. per risposta e le bacio le mani
Spigno li 20 ottobre 1631.
Giò. Verruta Vic. Foraneo
(A tergo: All' Ill.stre Signor mio Osservantissimo il Signor Bartolomeo Conrado Cancelliere Episcopale di Savona).

Lett. 13.  21 ottobre 1631
Lettera del parroco di Spigno al Vescovo di Savona.
Ill.mo et Rev.mo Signor mio e Padrone Colendissimo,
Ricevei la (lettera) di V.S. Ill.ma con le lettere Pastorali, et gli ordini in questi tempi sì calamitosi, et s'è esseguito il tutto, et si manderà per tutto il quartero. Ho avuto anche una dozena e mezza d'Agnus Benedetti, ch'apena han potuto bastare per li Sig.ri marchesi, che però al Popolo non ho potuto far parte.
La Sig.ra Marchesa è gionta con la sposa sua figlia sana et allegramente, et bacia per mille volte le mani a V.S. lll.ma, dovendosi fermar in queste bande tutto il presente inverno, supplirà ella.
Il contaggio pare habbi cessato, sendo più di 8 giorni che non s'è ammalato né morto alcuno.
Dio per sua misericordia ci aggiuti e diffendi da queste streghe, quali di continuo vanno minacciando chi le cerca et vole male.
Mostrai al Signor Marchese et Podestà la lettera del sig. Cancelliere, perché non si innovasse cosa alcuna circa le essecutioni, né sì qui hanno havuto la sentenza, se ben s'aspetta di giorno in giorno, et il sig. Marchese vorria levarsi di briga, tuttavia si starà. Attendo dalla S. Congregatione li ordini et aviso, così m'ha promesso. Il Podestà è quello che va solicitando, et informa male il Procuratore secolare.
S'hanno nuove di guerra e si teme contro Genoesi.
S'è fatto la nomina dalli Disciplinanti del suo Capellano, et è nominato Prete Giò. Giuseppe Boffa, cugino del morto, che sin qui ha servito un Cavaliere milanese, giovine virtuoso che verrà per l'investitura.
Faccio a V.S. Ill.ma riverenza
Di Spigno li 21 ottobre 1631
Di V.S. Ill.ma et Rev.ma Hum.mo Serv.re
Giò. Verruta

Lett. 14. 31 gennaio 1632.
Lettera della S. Congregazione del Santo Offizio al Vescovo di Savona.
Ill.stre e Rev.do come fratello
L'informatione mandata a V.S. dal suo Vicario foraneo di Spigno circa le pretese streghe colà carcerate è molto difettosa ed dinota che il processo contenghi una moltitudine di nullità non solo perché sono state esaminate, per quanto si raccoglie, confusamente, ma ancora perché non consta del corpo di delitto alcuno, e non di meno alcune di loro sono state tormentate eccessivamente per due hore e più di horologio, et essendo però questa materia molto fallace et grave, questi   eminentissimi miei superiori non vogliono per hora venire a risoluzione alcuna, ma hanno ordinato che io scriva a V.S. che procuri di far venire le carcerate o costì o in qualche luogo vicino a lei, dove occorrendo possa per se stesso o per mezzo del P. Inquisitore ridurre il processo in stato di speditione, sendo necessario che, fuor del luogo dove sono state gravate, di nuovo ex integro si sentano senza suggerirle cosa alcuna, ma solo interrogarle se sappiano la causa della loro carcerazione, e si devono lasciar dire da sé, perché apparischino le contrarietà e variationi de gli esami. Dunque procurerà V.S. che quanto prima si trasportino o costì o in luogo vicino, et fra tanto ordini colà che non si proceda a carcerare altre in questa causa, che in fine di essa ella vedrà che non vi sarà fondamento, come si può credere da quello che si vede dal deminuto et informativo sommario. Quando siano giunte costà, ne dia ella avviso qui et al P. Inquisitore per ricevere direttione del modo di proseguire la causa, che è quanto mi occorre.
Et il Signor Iddio la prosperi sempre e conservi.
Di Roma l'ultimo di gennaro 1632
Come fratello il Card. di S. Onofrio
(A tergo: All'Ill.stre e R.mo come fratello Mons. il Vescovo di Savona).

Lett. 15. 3 febbraio 1631.
Lettera dell'arciprete di Spigno al vicario generale di Savona.([132])
Molto Ill.stre e molto Rev.do Signor mio sig. osservantissimo.
Dal Procuratore Fiscale Secolare è stata portata l'inclusa espositione concernente il negotio delle streghe, la copia della quale mando a V.S. acciò resti servita darne parte a Mons. Ill.mo (il Vescovo dì Savona?) per il rimedio, et havrei scrittone a Mons.re quando havessi havuto nuova del suo ritorno da Genoa. Supplico pertanto V.S. a favorirme d'una riga come avrò a governarmi.
Circa l'altro particolare, per le monache, a compimento ho scritto con altra mia et aspetterò risposta.
Intanto a V.S. faccio riverenza.
Di Spigno li 3 febbraio 1632
Di V.S. molto Ill .stre et molto R.o Devotissimo servitore
Giò. Verruta Arcipr.te

Lett. 16. 12 febbraio 1632.
Lettera del padre inquisitore di Genova al Vescovo di Savona.
Ill.mo et Rev.mo Sig.re Padrone mio colendissimo,
Per questo ordinario ricevo risposta dalla Sacra Congregatione in materia di quelle streghe di Spigno, che consiste in questo: che V.S. Ill.ma et Rev.ma procuri che le dette donne siano condotte o in codesta città, o in altro luogo sicuro, per doverle nuovamente essaminare, per supplire a molti mancamenti che si sono commessi nella fabbricazione del processo. Io so che per questo medesimo ordinario V.S. Ill.ma et Rev.ma avrà parimenti ricevuto aviso di questo dalla S. Congregatìone per quello che sono avvisato, però volendo adempire la mente della Sacra Congregatione quando le dette donne saranno ridotte in luogo ove possino essere riesaminare si compiacerà avvisarmi, che procurerò assistervi in persona o che manderò il mio Vicario.
Intanto sarà bene che V.S. Ill.ma e Rev. ma avvisi questo Marchese che non eseguisca cosa alcuna se prima il S. Ufficio non ha fatto la parte sua, acciò non incorresse nelle censure, come fece già un commissario di Triora.
Intanto bacio le mani a V.S. Ill.ma e Rev.ma offerendomi prontissimo ad ogni suo cenno.
Genova, li 12 febbraio 1632

Di V.S. Ill.ma e Rev.ma aff.mo ser.re
f. Pietro Martire Ricciareli Inquisitore

Lett. 17. 17 febbraio 1632.
Minuta di lettera del cancelliere del Vescovo di Savona all'arciprete di Spigno.
Lettera scritta al signor arciprete di Spigno Vicario Foraneo.
Molto Reverendo Signore,
di ordine di Mon.r Ill.mo sarà contento di intimare al S. Podestà e altri a qualli spetta, che in modo alcuno non faccino sentenza né essecutione contra quelle donne o huomini imputati o vero processati costì, li quali pretendevano esser incorsi in materia di sortilegi o streghe, e de' quali deste già avizo a Sua Signoria Ill.ma; e ciò sotto le pene e censure de' Sacri Canoni et altre ad arbitrio di Sua Sig.ria Illustrissima, avizando a farlo subito, stante sollevatione, che per tal conto si aspetta avizo dalla Sacra Congregatione, alla quale si è scritto.
Di più, di ordine di Sua Signoria Ill.ma, faccia (ri)scodere dalli legati fatti dal r. Albera scuti 125, nelli quali è stato condenato, come dalli atti, cioè cento di condanna e 25 scutti di spese, delle quali spese li riserva alla mensa episcopale ecc. Si voliono, di più, informationi della fuga del rev. p. Montalto ([133]), e le trasmetterà convenientemente etc. Farà, di più, diligenza per ritrovare un prete per la chiesa di Turpino e più se lo avizerà.
Dovrà colligere li fructi della Capella o Capelle vacanti per le mani del rev.do Ricco e del rev.do Bexa.
Savona, il dì 17 febbraio 1632
Bartolomeo Conrado Cancelliere

Lett. 18. 21 febbraio 1632.
Il vicario foraneo di Spigno, a nome del Vescovo intima al procuratore fiscale di Spigno e a quanti altri in causa di sospendere la sentenza, e il processo contro gli imputati. Segue, in data 22  febbraio, la relazione di notifica.
Ioannes Verruta, Archipresbiter ecclesiae parrochialis S. Ambrosii Spigni et Vicarius Foraneus citra iugum pro Ill.mo et rev.mo D.D. Episcopo Saonensi.
lnsequendo ordinem dicti Ill.mi et Rev.mi Domini Episcopi nobis transmissum, ut ex familiaribus d. Cancellarii Bartholomaei Conradi, Curiae Episcopalis Saonensi, datis sub die 17 februarii currentis anni 1632, intitulatis: “M.R. Signor”, incipientibus: “d'ordine di Mons. Ill.mo” subscriptis: “ Bartholomeus Conradus Cancellarius”, a tergo: “Al M.R. Signor Giò. Verruta, Vicario Foraneo et Arciprette in Spigno”, tenore praesentium nottificamus et intimamus Magnifico D.o Procuratori et aliis quibuscumque spectat, ne quoquo modo sententiam faciant nec exequant in materia sortilegii aut maleficiorum, de quibus in actis, ad quae etc., sub poenis et censuris Sacrorum Canonum et aliis arbitrariis dicti Ill. et Rev. D. Episcopi. In quarum etc.
Datum Spigni, die 21 februarii 1632
1632, die 22 februarii
Georgius dc Serrato, nuncius Curiae etc., retulit se hodie praedicta omnia notificasse et inthimasse M. Magnifico D. Hieronimo Bocciello, Procuratori Spigni, personaliter reperto, et per copiam ostensam et demissam in manibus dicti D. Procuratoris et fecisse in omnibus etc. Et ita etc., ordinatione supradicti lllustris et admodum rev.di Domini Vicarii Foranei.
(S.T.) Henricus Boffa, Notarius et Cancellarius etc.

Lett. 19. 29 febbraio 1632.
Lettera del marchese di Spigno al Vescovo di Savona.
V.S. Ill.ma può esser certa che con particolar gusto ricevo li suoi comandi, così nel particolare delli Padri di S. Domenico subito feci alla presenza del maestro di casa di V.S. Ill.ma chiamar li sindici di questo loco acciò dessero pronta soddisfazione, il che non seguendo bonamente, le ho offerto ogni altro miglior mezzo che si deve per la giustizia, il simile contro li altri particolari che devono, il che havrà effetto sempre che detto maestro di casa o altro lor procuratore lo richiedessero come più ampiamente mi dice il nostro signor Arciprete havcr scritto a V.S.; in questo particolare non ho altro che agiungere.
In quello delle streghe che si trovavano detenute in queste carceri, mi spiace che per esempio et per timore all'avenire non sii potuto seguire qualche rigore aparente, già che per la longhezza et dilatatione sono tutte morte, et con haver finito avanti hieri di passar la barca di Caronte ci hanno levato a tutti questo impaccio come detto Signor Arciprete le havrà avisato.
Mi viene fata instanza di contentarmi che sii rimesso qua il rev.do Curto: io le ho risposto che V.S. è il padrone de religiosi et che perciò prima seco hanno da compire et riconoscerlo superiore con quella sottomissione dovuta et che poi, per quello (che) tocca a mio padre et a me, sempre che passino con la dovuta riverenza verso V.S. Ill.ma, non vi sarà che dire, come ho significato a detto signor Arciprete per meglio negotiare il servizio di V.S. Ill.ma, che poi voglio suplicare di aquietarsi come bon partire mediante che compisci al suo debito et si colochi a servire una di queste chiese, il che sarà scarico di V.S. et salute delle amme.
V.S. scusi la libertà con che le scrivo tutto a buon fine, et inanimito dalla servitù che le professo, mentre per fine me le raccordo in gratia et da Dio le supplico ogni maggior grandezza, baciandole mille volte le mani, così fa mia madre.
Da Spigno 29 febbraio 1632
Di V.S. Ill.ma servitore aff.mo
d. Alfonso Asinari Carretto

Lett. 20. 2 marzo 1632.
Minuta di lettera del Vescovo di Savona al padre inquisitore di Genova.
M.to Rev. Padre,
Ho differito la risposta alla sua de' 12 passato per dargli risposta compiuta della diligenza nuovamente fatta, qual è che havendo scritto et al Signor Marchese che non procedesse contro le streghe et al mio Vicario Foraneo che inhibisse al Podestà, l'inibizione fu fatta in tempo che due erano ancor vive, ma con la lettera del Signor Marchese de 29 passato ricevo avviso come tutte sono morte, che tronca a noi l'occasione di cercar più oltre, eccetto se a V. P. Molto Reverenda occorrerà nuovo pensiero, che mi sarà caro l'aviso. Da Roma io non hebbi altrimenti lettera alcuna e perciò io non ho occasione di replicar altro, mentre la morte il tutto scioglie,
et a V.P. bacio le mani e prego ogni felicità.
Savona il dì 2 marzo 1632.
di V.P.M.R.
come servitore aff.mo
Francesco Maria, Vescovo di Savona

Lett. 21. 11 marzo 1632.
Lettera dell'arciprete di Spigno al Vescovo di Savona.
Ill.mo et Rev.mo sig. mio e padron sempre colendissimo,
La settimana passata venni alli rastrelli di Casa di Ferrero per trattar col sig. Commissario Delfino per l'errore di una mina e mezza di grano tra quello delle monache et quello che p. Nicolò mandò a V.S. Ill.ma, come per altri negozi, il che all'avenire mi servirà per norma.
Al Rev. Curto ho detto il tutto.
Mando li testimoni per la fuga del curato di Montaldo, non havendo potuto più 'presto per colpa di messer Enrico Cancelliere, giovandomi poco il sollecitarlo altre volte. Non mi sono scordato altrimenti delli ordini lasciati al rastrello come V.S. Ill.ma mi scrive, stante che parmi haver esseguito fuori la causa del Curto, e capelle vacanti, nelle quali non si può hora recuperar cos'alcuna, et in quella del Rossario il Signor Marchese mi risponde far servire, né voler ch'io me ne ingerisca in modo alcuno, et quella de Disciplinanti li redditi sono pendenti.
Per il stupro ([134]) il padre del giovine mi darà due doppie hora, et per l'altre due s'obligherà all'agosto pagar tanto grano se così V.S. Ill.ma ordinerà, e veramente è povero, né si può far essecutione solo che in campi.
Per li pretti di Piana e Turpino qui non è possibile trovarne fuori di quel frate per Piana che si chiama fra Silverio dalla Colla di S. Remo. Li padri di S. Domenico saranno pagati et il maestro di casa ha li denari né per hora occorre di tornar al rastrello per portarli io. Circa gli interessi di V.S. Ill.ma et in particolare per conto del Vallei, egli vuol sodisfare, ma dice che il maestro di casa gli leva un'annata, et si lamenta assai, tuttavia il Podestà ha concesso un capiatur ([135]), et venendo su li fini seguirà.
Per Piana detto maestro di casa tratta lui, et per parlar chiaro, dice pubblicamente voler  mentre sta di qua lui, far li fatti né ha charo m'ingerischi in cos'alcuna, che però come dissi in voce a V.S. IIl.ma non ho bisogno far duelli tutto il giorno; Turpino sta così, né si trova chi vi voglia attendere, per non esserci gente in quelle parti, et dicono non voler quei pochi rimasti haver a far com me scritture per non intrarvi come con li Baroti, a quali haveno affinato detti beni con l'istessi patti (che) havevano li Brignoni, che non fu poco in questi tempi si penuriosi di agricoltori et calamitosi, sicuro ch'era a utile della Mensa, con tutto ciò il maestro di casa volse romper l'instrumento et far a suo capriccio, mai pratico del paese.
Menasco similmente resta così, né si trova affittar quei beni a quel prezzo o sia reddito, per esser seccati gli alberi di castagna, così ancor seguito in li castagneti del Signor Marchese: quando è  tempo di augmentare è tempo, e quando perdere, bisogna haver patienza, ma il maestro di casa non si fida di me, pensando e credendo differentemente, e quello non dovria mai, e già dissi che messer Enrigo non puoi accomodarsi al suo humore, e novamente mi ha detto (che) lo recordi a V.S. Ill .ma, alla quale viverò per sempre fedelissimo servitore e suddito in tutte le cose, ma dove non posso et mi è opposto, la supplico ad iscusarme.
Ho baciato le mani alla Signora Marchesa et Signor Marchese, che m'hanno ordinato li rendi li duplicati baciamani.
Non manco d'avisar come il sig. Podestà piglia denari dalli beni delle streghe morte ([136]), et una incolpata eh' era in carcer l'hanno lasciata andar a far i fatti suoi.
Se m'ordinerà (che) pigli quelle 2 doppie per il stupro, le farò risponder costì dal Sig. Vicario di V.S. Ill.ma, alla quale per fine faccio humilmente riverenza.
Di Spigno li 11 marzo 1632.
Di V.S. Ill.ma et Rev.ma Servit.re e suddito Humilissimo
Giò. Verruta Arcìp.te

Lett. 22. 5 aprile1632.
Lettera dell'arciprete di Spigno al Vescovo di Savona.
Ill.mo et Rev.mo signor mio padron colendissimo
Ho ricevuto il plico con la dellegazione  di V.S. Ill.ma in me fatta attorno alla causa di Lovesio ([137]): In conformità ho fatto subito chiamar quei huomini per seco trattar et informarmi del tutto, ma (per) le grandi aque et il cattivo tempo seguito sin qui non sono comparsi; ho replicato hoggi e verranno et sentirli si provederà in la miglior forma (che) si converrà, et di tutto darò parte a V.S. Ill.ma.
Circa le streghe qui morte, già ho scritto a V.S. quanto è seguito, et di nuovo informatomi replico che il Podestà si è acordato con tutte, con chi in 40 scuti, con chi in 50, con chi in 60 e più e meno: così acordati tra le parti e lui, senza mai haver detto cosa alcuna, havendo noi solo perduto il tempo di tutta l'estate. Vogliono così, et durum est contra stimulum calcitrare. Una donna incolpata et statta in prigione 3 mesi l'hanno lasciata andar a far i fatti suoi: quando mi sono opposto, li messi della chiesa sono andati in prigione sotto pretesti indiretti et io malissimamente visto e perseguitato. Conviene, dopo aperti li passi ([138]), se li prenda rimedio, poichè non trovo quasi più chi voglia servirmi da Cancelliere o Messo. Il processo fabricato nella causa delle streghe è in mano d'un notaio, che darà prontamente se sarà richiesto ([139]).
Vallei un giorno darà nelle mani et si farà arrestare, havendo licentia del Podestà.
Per Menasco converrà moderare, ma il maestro di casa non compare, qual mi ha detto non facci cosa senza sua presenza.
A Turpino non trovo chi v'attenda, et sono alla vita a una persona di Mal(vicino?) poiché a Turpino non v'è più gente per la contagione.
Pensavo che il Curto attendesse alla capella de' Disciplinanti, ma inclina a quella (che) vuol fondare il Signor Cavaliere, che sporgerà memoriale a V.S. Ill.ma, alla quale la Signora Marchesa bacia le mani con l'istesso signor Cavaliere, et io per me li faccio humilissima riverenza.
Di Spigno lì 5 aprile 1632
Di V.S. Ill.ma et Rev.ma devotissimo servitore
Giò. Verruta

Lett. 23. 23 aprile 1632.
Lettera dell'arciprete di Spigno al Vescovo di Savona.
Ill.mo et Rev.mo Signor mio Colendissimo,
Aspettiamo dimani quei di Loesio con la rellatione della seconda inibitione (fatta) al Sicco et seguiteremo appresso prout iuris etc.; circa li Signori di Brovia et Ponti farò l'inibizione in bona forma come anche alli particolari in non doversi rispondere cosa alcuna. Mi spiace solo che il Sicho non possiede né in Piana né in Loesio, et conforme V.S. Ill.ma avisa, faremo noi la causa contro quelle streghe ([140]).
Habbiamo misurato le robbe dell' Abbatia in stara 72 in tutto e procurerò far il tutto in farne fuori, se ben memoria mia mai vidi statto così poca richiesta in queste bande. Al sig. Podestà ho risposto quanto V.S. Ill.ma scrive circa suo figlio, et tuttavia vorrà esser favorito per gli interstizi (?) stante la notoria necessità della Chiesa et far la spesa necessaria senza haver causa di esprimerla nella   nomina di una di quelle capelle, stante lo fa, acciò questi huomini non li rinfaccino questo  benef(icio?), et farà la spesa prontamente.
Per la benedittione da Roma hanno a charo saper quanto vi vorrà.
Alla signora Marchesa ho fatto a compimento tutto (ciò che) V.S. Ill.ma m'ha ordinato, et nuovamente se le ricorda serva et in gratia.
Il signor Cavaliere m'ha detto che in nome suo mandi il qui inchiuso memoriale per la sua Capella, con supplicarla vogli favorirlo del Decreto.
Non si tratta per queste bande cosa di rilievo per conto della guerra, solo che da Milano s'ha nuova per quella gente va verso Casale[ .. .]. Li puochi francesi ch'erano in Acqui e Ponzone si sono partiti.
Ho fatto chiamar per dimani li sindici di Piana ed il frate ch'anderà alla casa.
Supplico V.S. Ill.ma per quanto posso a darmi nuovo avviso come havrò a governarmi con questo podestà per le streghe morte, temendo assai che i Signori mi faranno qualche burla, et sono sicuro sarò perseguitato, io o mia casa, conoscendo l'humor loro: che però la risupplico se sii possibile trovar strada per la quale io puossi caminar con sodisfazionc di tutti.
Non ho voluto per ora al Podestà dir altro per questo rispetto, quia cognosco nomine.
Resto e con ogni humiltà a V.S. Ill.ma faccio riverenza
Di Spigno lì 23 aprile 1632.
Di V.S. III.ma et Rev.ma Humilissimo servitore e suddito
Giò. Verruta arcip.te

Lett. 24. 3 maggio 1632
Lettera del padre inquisitore di Genova al Vescovo di Savona.
Ill.mo et Rev.mo signore Padron mio Colendissimo,

La sacra Congregatione del Santo Officio di Roma con sua lettera mi scrive che debba intendermi con V.S. Ill.ma nel particolare di quelle streghe che sono state fatte morire a Spigno da gli officiali del Signor Marchese di detto luogo e mi impone che mi informi a pieno da V.S. Ill.ma di questo fatto, et che procuri havere la copia del processo, ordinandomi di doverla mandare subito a Roma.
Lettera del 3 maggio 1632
Pertanto la prego avvisarmi minutamente se dette streghe sono morte da se stesse naturalmente o vero di morte violenta per ordine de sudetti officiali, e se tutte o parte di esse sono state fatte morire innanzi o dopo l'inhibitione fatta al Podestà a nome di V.S. Ill.ma et Rev.ma, et insomma tutto quello (che) è successo nella fabbricazione, prosecutione et terminatione del processo, del quale mi farà gratia mandarmene qua una copia per extensum, conforme all'ordine della Sacra Congregatione, per mandarla a Roma come mi viene comandato.
E intanto me le ricordo servitore di cuore e e bacio affettuosamente le mani.
Genova, lì 3 maggio 1632
fra' Pietro Martire, Inquisitore

Lett. 25. 10 maggio 1632.
Minuta di lettera del cancelliere del Vescovo di Savona all'arciprete di Spigno.
Al molto Rev.do Arc.te foraneo in Spigno
Molto Rev.do Sig.
Compie in ogni modo aver copia autentica dcl processo di quelle streghe che sono state fatte morire a Spigno dagli officiali del Signor marchese, et insieme aviso se dette streghe sono morte da se stesse naturalmente o vero di morte violenta et per ordine di chi, e se sono state fatte morire inanti l'inhibitione che fu fatta sotto li 22 febraro passato, et insomma di tutto quanto è successo nella fabricatione, prosecutione e terminatione del processo, del quale, come del seguitto, ne manderete copia quanto prima e con più prestezza sarà possibile, acciò noi possiamo fare quel tanto che ci spetta intorno detta causa, conforme alli ordini si staranno dunque aspettando in ogni modo.
Savona il dì 10 maggio 1632
copia Bartolomeo Conrado Cancelliere etc.

Lett. 26. 20 giugno 1632.
Lettera dell'arciprete di Spigno al Vescovo di Savona.
Ill.mo et Rev.mo Signor mio Padron sempre colendissimo.
Ho, con altre mie, già datto raguaglio a V.S. Ill.ma di quanto segue attorno la causa di Loesio, si ben adesso il Sico ([141]) alliga molte cose et si serve del signor Rizzo come Auditore del Signor Marchese di Garresio, supponendo haver potuto menare quei prigioni a Cagna per maggior sicurezza, et come V.S. Ill.ma vedrà dalle oppositioni che il Cancelliere manderà, dico messer Enrigo, col processo fabbricato in questa causa.
Il Cavaliere nuovamente prega V.S. Ill.ma restar servita far decreto alla supplica sporta a dì passati per conto della Capella (che) desidera eriger nella mia chiesa in honor o sii sotto il titolo della Madonna Santissima dcl Carmine, acciò da Roma anche puossi ottener dal Generale dei Carmelitani licenza di instituir la Compagnia, sendo così disposto di fare.
Al Sig. Cancelliere a rastrelli di Ferrero dissi che per conto delle streghe morte si saria mandato un sommario amplissimo per esser il processo looghissimo et di copiarlo il Notaro ricusa pretendendo la mercede prima: et non sarà poco haver simile sommario stante che ogni giorno li sono alla vita e pure né messer Enrico né suo fratello mi sente, sendo disgustati per li gravi affari (che) hanno nell'abbazia.
Io no trovo chi voglia attendere a Turpino, et è notoria la diligenza (che) ho fatto et vado facendo, e veramente in quei contorni non vi sono più genti, et vano gerbide altre possessioni di rilievo per questo difetto.
Il maestro di casa dovea far a mio modo quando obbligai li Barosi secondo li patti delli Brignoni ([142]), perché sapevo quello (che) vi poteva essere, ma a dirla a V.S. Ill.ma vorria esso esser l'honorato et ch'io facessi le fatiche: può egli scrivere quello (che) vuole di me, ma V.S. Ill.ma non gli creda, ch'io sempre procurai e procurerò il servitio et utile della Mensa (vescovile).
Già scrissi che il maestro di casa non volea ch'io in cosa alcuna dell'Abbazia mi ingerissi mentre lui stava in queste bande, havendomi già fatto dire e significare da molti, al che acquetandomi, supponendo esser tale la mente di V.S. Ill.ma, non ho questi due anni (ri)scosso i fitti, né impeditomi d'altro, havendo lui così voluto et comandato.
Messer Enrico non vuole più andar avanti nell'Abbazia, havendomi detto che n'avvisi V.S. Ill.ma, dicendo haverli danno più di 500 scudi, che non può essere: conviene anticipare il tempo per la nuova locazione, V.S. Ill.ma comandi quello (che) si deve fare.
A Piana il frate va, però sta sospeso mentre sta ad havere la patente da V.S. Ill.ma di poter essercitare la cura, con ordine di darli qualche denaro a conto dcl salario.
Valici padre e figlio m'hanno promesso voler dare soddisfazione l'agosto prossimo di quanto saranno legittimamente obbligati, e tuttavia capitando il figlio nella giurisdizione del signor Marchese si farà detenere per sospetto.
La raccolta dimostra assai bene, ma li grani saranno brutti per l'acque venute la primavera, li marzaschi particolarmente, li lemeti (?)in quantità con fave.
Resto et a V.S. lll.ma faccio humilmente riverenza. Il Signor Marchese et sig. Cavaliere li baciano le mani.
Di Spigno lì 20 giugno 1632
Di V.S. Ill.ma humilissimo servitore
Giò. Verruta
Li sindici manderanno li 4 scudi d'oro per la Benedizione papale questa settimana.

Lett. 27. 21 aprile 1632.
Minuta della pratica di dispensa per il matrimonio di Bartolomeo Rodano di Rocchetta di Spigno e Agostina Traversa.
Essendoci, da Sua Santità Nostro Signore, statta commessa l'essecutione d'una dispensa matrimoniale tra Bartolomeo Rodano ([143]) et Agostina Traversa della Rocchetta di Spigno, habbiamo risoluto, stante l'impedimento del contaggio, commettere a V.S., come in vigor delli presenti li commettiamo, l'essame de' testimoni, quali per verità doveranno deponere sopra la parentela in quarto grado di affinità che si dice essere tra loro, distinguendo grado per grado; di più, che detta Agostina non può trovare marito di sua pari conditione con chi possa maritarsi in detto loco per l'angustia d'esso; item che detta Agostina non è stata rapita: quali cose tutte prego V.S. far ricevere, con esatta diligenza, per mano di pubblico notaro e mandarcele, acciò possiamo proceder alla speditione di detta matrimoniale, et a V.S. preghiamo felicità.
Savona, li 21 aprile 1632.

Lett. 28. 14 febbraio 1633.
Minuta di lettera del Vescovo di Savona all'arciprete di Spigno.
Ad aures (nostras pervenit) qualmente il rev.do Prete Benedetto Bocchiello scrive in li atti della Corte Secolare, tanto nelle cause criminali come nelle civili, e, principalmente, si dice haver scritto nella Causa delle Streghe et anco in atto di tortura. Qui prefatus Rev.rmus Dominus, eisumodi producta ut notoria et vera, mandavit per multum reverendum dominum Ioannem Verrutam, Vicarium Foraneum, sumi secretas et reales informationes, sub interminatione Divini Iudicii, et illas ad nos trasmitti, pro quibus, ad cautellam etc., dantes opportunas facultatcs etc.

Lett. 29. 16 febbraio 1633.
Minuta di lettera del Vescovo di Savona all'arciprete di Spigno.
1633, die 16 februarii.
Ad aures (nostras pervenit) etc. come qualmente, in tempo che l'arciprete Nicolò Spinola fu, di ordine del Podestà di Spigno, incarcerato ([144]) per Giò. Bonifacino, ministro secolare, Giorgio Del Prato, ministro della Corte ecclesiastica, et trattenutovi tre giorni; et di più detto Signor Podestà li fece spogliare la casa di grano e di bronzi; come anche, per ordine dell'istesso Podestà, ha fatto  incarcerare e tenere carcerato un giorno, per Luisio Crotia, Vincenzo Boehiello, fiscarolo della Chiesa, etc.
Qui prefatus Rev.mus Dominus, eiusmodi producta ut notoria et vera, mandavit per multum Reverendum Dominum d. Ioannem Verrutam, Vicarium Foraneum, sumi secretas et reales informationes sub interminatione Divini Iudicii et illas ad nos trasmitti. Pro quibus, ad cautellam, datur opportunas facultates etc.

Leonello Oliveri

Propr. lett. riserv.
Riprod. vietat.

Ruderi del castello di Spigno
( da http://web.mclink.it/MH0688/Fuoriclasse/mappa.htm)




[1] ) Spigno Monferrato, in provincia di Alessandria.
[2] ) E’ doveroso in questa sede un particolare ringraziamento all'archivista don Leonardo Botta che con squisita cortesia ci ha messo a disposizione tutto il materiale, facilitandocene in ogni modo la ricerca e lo studio e offrendo un esempio di collaborazione e di disponibilità veramente encomiabile.
 [3]) "Di quanto V.S. Sig. Arciprete mi domandate et mi ha fatto leggere” etc. ,., dice la teste. Quindi ai testimoni vengono probabilmente lette non solo le accuse rivolte alle imputate, ma anche le deposizioni degli altri testi. A che punto era finito il diritto romano!
 [4] ) Il richiamo alla presenza dei gatti non è certo casuale: "il totem della strega non è più la cerva spaurita o la Medea folgorante, è il Gatto, aggraziato e malvagio" (R. BARTHES, La Sorcière, in Saggi critici, Torino 1966, p. 72).
 [5] ) «Bronza» e "bronzina» erano tipici recipienti cilindrici appunto in bronzo usati come pentole da focolare nelle cascine delle Langhe, lo "' zebro” (o " zebrott" in dialetto) è un secchio ovale di legno ancor oggi utilizzato per la lavorazione del vino, "boria" e “borletta” sono termini dialettali con i quali si indicano i covoni di grano già tagliato ma non ancora trebbiato
[6] ) Nei processi per stregoneria di norma non è facile riscontrare nelle dichiarazioni dei testi, anche in quelli appartenenti allo stesso ambiente sociale, una solidarietà verso gli imputati: né ciò deve stupire, visto che spesso simili processi erano originati proprio dai sospetti e dalle accuse della gente contro le “streghe” in una sorta di ottuso - quanto spiegabile -istinto di autoconservazione, tenuto conto che esse erano individuate come causa di carestie o epidemie, e traevano talora origine o alimento da vecchi asti e litigi di cortile e di borgata, particolarmente frequenti e pertinaci nei piccoli centri di campagna. K. THOMAS, Religion and tbe declin of magic, London 1971, trad. it. Problemi sociali, conflitti individuali e stregoneria, in M. ROMANELLO, La stregoneria in Europa, Bologna 1978, p. 230, sottolinea come le tensioni che diedero origine alla caccia alle streghe a livello popolare difficilmente nascevano tra molto ricchi e molto poveri, bensì “tra gente abbastanza povera e gente poverissima”.
[7] ) In realtà il colloquio in casa Fornarini cui allude Segurano era avvenuto precedentemente all'arresto di Margherita: infatti ad esso fa cenno la testimonianza di Maria Fornarino, rilasciata prima dell'incarcerazione della donna. Segurano Suliano doveva aver chiacchierato, insieme agli altri, circa le voci che circolavano su Margherita, e non sul suo arresto: accortamente, però, forse nel generoso quanto inutile tentativo di aiutarla, forse per paura di essere coinvolto, non vuol far sapere ai giudici, che per altro ne erano già ampiamente al corrente, che la gente del posto considerava già da tempo Margherita una « masca », e quindi riferisce solo di commenti circa il suo arresto, commenti che sarebbero stati ovvi in qualsiasi posto e che non avrebbero potuto essere visti come una ammissione che chiacchiere su Margherita circolassero comunemente. Comunque i nostri avveduti giudici non si accorsero dell'errore cui era caduto Seguriano.
[8] ) V. per es. EYMERICH - PEGNA, Directorium inquisitorum, Romae 1587,pars tertia, Modus interogandi reum accusatum.
[9] ) “L'inquisitore non deve mai dire che cosa vuole sapere e per quale motivo ]'imputato è stato invitato a presentarsi o perché è stato accusato o di che cosa è imputato. ( ... ) L'inquisito deve indovinarlo da solo, deducendolo dall'esame della propria vita precedente, dalle proprie idee, dall'analisi dei propri atti pregressi e confessarlo" (1. MEREU, Storia dell'intolleranza in Europa, Milano 1988, p. 206): in poche parole si tratta di far sentire in colpa l'imputato. Il tutto ricorda molto l'atmosfera di certe pagine di Kafka.
[10] ) Informarsi sulle abitudini morali delle imputate era la prassi degli inquisitori dell'epoca: “Se poi l'imputata è in stato di concubinato o di adulterio, sebbene tali circostanze non siano pertinenti agli scopi dell'indagine, se ne tragga tuttavia un sospetto più fondato che nelle denunzie prestate contro persone probe e oneste”: così almeno suggeriva il “testo sacro” per ogni cacciatore di streghe, il Malleus Maleficarum di Spranger e lnstitor (pars III, questio I ).
[11] ) Uno dei testi canonici utilizzati dagli inquisitori nei processi per stregoneria, la De magorum daemonomania di J. Bodin, stampato nel 1587, illustrando la tecnica degli interrogatori ricordava che (p. 371) l'inquirente doveva venire a conoscere “da quale paese veniva la strega e se ha cambiato domicilio, poiché si riscontra d'ordinario che le streghe si spostano di posto a posto” {v. anche F. TRONCARELLI, Le streghe, Milano 1983, p. 111).
[12] ) Località a pochissimi km. di distanza.
[13] ) “Non si dimentichi (il giudice) di rilevare, nel processo, tutto quanto riguarda il modo di vestire: se si constata che le streghe non fanno nessuna confessione bisogna farle cambiare abiti" (I. Bodin, De la demonomanie des sorciers, Parigi 1587 p. 375).
[14] ) R. MANDROU, Magistrati e streghe nella Francia del '600, Bari 1971, pp. 625 sgg.
[15]) Si tratta di una malattia che colpisce i bovini, una sorta di artrite reumatoide determinata dalla cattiva condizione delle stalle, umide, fredde e malsane. Oggi è praticamente scomparsa, ma è ancora nota con questo stesso nome ai vecchi contadini.
[16] ) Si deve tener presente che essa fu pronunziata da Margherita in dialetto e fu quindi trascritta dal notaio in modo molto approssimativo ma identificabile col dialetto ancor oggi parlato. Ecco il testo:
”Cento e sapient senza gatta mat ment
Mi per una via san son andà,
entr ra Madona son scontrà,
andà voreivi.
Andè cent sapient,
a vorioma andè in cà di N.N. c'ha la giacia.
Tornè andrè, cent sapient, ch'la fa voto
di stè un ann e un dì senza mangè
d'aij e lentigie ».
La traduzione - altrettanto approssimativa! - potrebbe essere così: « Cento sapienti (??). lo sono andata per una via, mi sono imbattuta nella Madonna. Volevo andare. Andate, cento sapienti, dobbiamo andare a casa di N.N. che ha il mal del ghiaccio (?).Tornate indietro, cento sapienti, che ha fatto voto di stare un anno e un giorno senza mangiare aglio e lenticchie”
[17] ) Frase poco chiara. Forse vuol dire che prescriveva al malato di offrire una libbra di olio alla lampada dcl SS. Sacramento della Chiesa?
[18] ) Ecco il testo:
« Ch'ha fà li vermi è stà Giob,
se n'ha fatti nove n'ba fatti trop,
nove an ott,
d 'an otto an sett,
d'an sett an sci,
d'an sei an cinq,
d'an cinq an quautr,
d'an quatr an trei,
d'an trei an doi,
d'an doi an un »,
Traduzione: " Chi ha provocato i vermi è stato Giob. Se ne ha fa tti nove ne ha fatti troppi. Da nove a otto, da otto a sette, da sette a sei etc. etc.», A riprova del collocarsi di queste formule “ magiche” in un filone le cui origini affondano veramente nei secoli, riportiamo la formula recitata in francia (agli inizi del IX secolo!) per curare l'analoga malattia (i vermi), riportata dal Polyptyque de l'Abbaye de Saint-Germain-des-Prés (811-826) pubblicata da A. LONGNON, Le Polyptyque etc., t. II, Soc. de l'Histoire de Paris, 1886-95, ripresentata poi da E. Power, Vita nel medioevo, Torino 1966, p. 23: «Vieni fuori verme con nove vermiciattoli, vieni dal midollo nell'osso, dall'osso nella carne, dalla carne nella pelle, dalla pelle nella freccia. Così sia, Signore"· Come si vede la struttura ripetitiva e scalare della formula parigina del IX sec. e di quella langarola del XVII sono analoghe, come pure analogo è, alla fine della formula, il richiamo alta religione cristiana tramite l'invocazione divina, tipico esempio di sincretismo magico-religioso. Analogamente a riprova della ostinata vitalità di simili formule possiamo notare che le filastrocche ricordate dalla strega sono ancor oggi vitali, specie la seconda, in Val Bormida, dove si trovano ancora persone anziane che le ricordano (e talora le usano nelle stesse circostanze e con gli stessi scopi, anche se - almeno ora - senza correre i rischi delle loro colleghe di una volta). Come ultima considerazione pensiamo un attimo a cosa deve aver significato per questi guaritori tramandarsi a memoria, dì generazione in generazione, in quei secoli non sempre facili per loro, queste formule il cui uso poteva comportare processi e morte: eppure sono arrivate sino a noi, affidate solo alla trasmissione orale!
[19] ) Francesco Maria Spinola (1593-1644), fu vescovo di Savona dal 1624 all'anno della sua morte
[20] ) In realtà, come si è ricordato, le date di inizio e di fine di ciascuna delle quattro fasi in cui abbiamo articolato gli anni della prima metà del XVII sec. hanno più un valore indicativo che di rigorosa delimitazione cronologica.
[21] ) Esattamente dal 1393, quando i feudatari appartenenti alla famiglia Del Carretto avevano prestato giuramento di fedeltà al Marchese monferrino per molte località della valle.
[22] ) Ciò era possibile tramite l' “opzione” che il Monferrato aveva sui centri di Spigno (in mano agli Asinari/Del Carretto), Cairo (in mano agli Scarampi), Carcare e l'alta Val Bormida (in mano ai Del Carretto) in seguita al ricordato giuramento dei 1393. Occorre ricordare che all'epoca la principale via di comunicazione verso il mare scendeva non su Savona ma sul finalese tramite i valichi alle spalle di Altare, Bormida e Calizzano
[23] ) Anche questa volta in verità il punto di partenza fu solo un pretesto, il conflitto fra le due superpotenze dell'epoca (Francia e Spagna) era divampato già da tempo ed esso coinvolse fatalmente, in uno o nell'altro schieramento, tutti gli Stati europei.
[24] ) L'origine di questa complicata situazione è da ricercarsi nel fatto che tutte queste località erano soggette a feudatari che si trasmettevano il feudo suddividendolo fra i diversi aventi diritto, ognuno dei quali diventava quindi “condomino”, cioè cosignore, di una quota del paese proporzionata alla sua fetta di eredità. Ogni condomino poteva poi prestare giuramento di fedeltà, per la sua parte di feudo, a Potenze diverse a seconda delle diverse contingenze politiche. Il risultato era spesso un complicato intreccio di infeudazioni e subinfeudazioni.
[25] )  G.B. Pio, Cronistoria dei Comuni dell'antico Mandamento di Bozzolasco con cenni sulle Langhe, Alba 1920, p. 124.
[26] ) Nel 1619 il vescovo di Acqui Camilla Beccio, alla cui diocesi apparteneva parte del territorio valbormidese (Cagna, Lodisio, Brovida, S. Giulia), così scrive: “empi militari rubarono in chiesa pissidi, calici ed indumenti per celebrare. Ruppero tabernacoli, sconciarono immagini sacre semine umano pollutionc, monti di pietà derubati, sacerdoti percossi, fonti battesimali dissacrati. I soldati spogliavano e poi vendevano e venivano a loro volta spogliati dai civili derubati" (V. SCAGLIONE, Contributo allo studio della vita socio-religiosa della Langa Acquese dopo il concilio di Trento, Cairo Montenotte 1985, p. 16).
[27] ) Fra i tanti esempi potremmo ricordare quello testimoniato da una lettera, conservata nell'Archivio vescovile di Savona (Vicariato di Spigno, 22/8/1622) indirizzata proprio da Spigno al vescovo di Savona nell'agosto del 1622 che ricorda le scorrerie effettuate da una banda di 60 briganti nel territorio di Piana.
[28] ) E. ZUNINO, Cairo e le sue vicende nei secoli, Cairo 1929.
[29] ) A. DELLA CHIESA, Descrizione del Piemonte, Ms. Bibl. Real. p. 11 0.
30] ) Savona, arch. vescovile, pacco Spigno, lettera del 30/3/1628.
[31] ) Degli episodi relativi ad Altare e Roccavignale abbiamo particolareggiati e gustosi resoconti lasciati da P. GIOFFREDO, Storia delle Alpi Marittime, VI, Torino 1889, pp. 433 e sgg.
[32] ) Su questo episodio resta una drammatica descrizione di A. F. DELLA CHIESA, Descrizione del Piemonte, Ms., Bibl. Reale, Torino che ricorda come Bartomelino in giorno di festa avendo occupato l'oratorio dei disciplinanti mentre si celebravano i Divini Uffizi, con l'aiuto de' suoi bravi fece di quei meschini (gli osigliesi, non i bravi!) crudel macello"· Su Bartomelino Pozzoverasco v. anche G.B. VERZELLINO, Delle Memorie particolari e specialmente degli uomini illustri della città dì Savona , II, Savona, p. 248 e G. CASANOVA, La Liguria centro occidentale e l'invasione franco-piemontese nel 1625, Genova 1963, pp. 30-38. Particolare curioso, anche il nostro Bartomelino, come il più famoso «Conte del Sagrato” sarebbe poi morto a Genova in fama di santità.
[33] ) Archivio vescovile di Savona, Vicariato di Spigno, lettere del 3 e 24 gennaio 1631.
[34] ) ZUNINO, op. cit., p. 146. E il fatto che le autorità spagnole si sentissero in dovere di assicurare che gli abitanti di Cairo non avrebbero avuto nulla da temere dalla presenza di soldati inviati ”per la difesa del loco” la dice lunga sul tipo di rapporto esistente fra soldati e popolazione.
[35] ) Archivo Parrocchiale Carcare, Libro dei battesimi 1625/1641.
[36] ) GHILINI, op. cit., p. 141.
[37] ) GHILlNl, op. cit., pp. 252 sgg.
[38] ) Ancora nel 1637 i Sindaci di Rocchetta, Cairo, Carretto e Brovida inviano collegialmente una supplica al  commissario spagnolo di Alessandria, che aveva chiesto proviggioni di cibo, in cui fanno presente la loro “intollerabile povertà”. Nello stesso periodo a Giusvalla gli «Agenti della Comunità» fanno un voto alla Vergine per  “essere liberati da una a lor dannosissima et fastidiosissima molestia che gli era infesta da soldatesca francese et savoiarda accampata a Dego”. Per altri particolari sulle conseguenze della guerra in Val Bormida v. ZUNINO, Cairo e le sue vicende, cit., p. 139; V. S. DERAPALINO, Un collegio nelle Langhe, Savona,1972, p. 98.
[39] ) I contadini di Brovida, Rocchena e Carretto devono, per es., andare una volta alla settimana a Cairo durante tutta l'estate del 1623 per trasportare i bagagli delle truppe (Pio, op. cit., 127).
[40] ) Nel luglio del 1625 Spigno deve, per riportare un esempio, fornire alle truppe spagnole “120 denari e 50 robiole al dì” (Pio, op. cit., p. 128).
[41] ) Nel 1645 gli abitanti di Altare, Cairo e Millesimo devono andare a svuotare il fossato del castello di Acqui e la paga (una razione di pane e un boccale di vino al giorno) non era certo delle più invitanti, senza pensare che nel frattempo i lavori della campagna dovevano essere trascurati.
[42] ) F. ISOLA, Carcare e le Scuole Pie, Savona 1897, p. 80.
[43] ) 43 ZUNINO, op. cit., p. 149. A quegli anni risale appunto l'istituzione, in molti paesi della Val Bormida, tra cui Carcare e Cairo, dei "monti di pieta” gestiti dalla Chiesa, che distribuivano ai contadini ridotti in miseria il grano necessario per le semine.
[44] ) Dal punto di vista prettamente medico l'epidemia di peste che serpeggiò per tutto il mondo occidentale (ma anche in Africa e Asia) dal VI sec. a.C. fino praticamente ai nostri giorni (morti di peste si ebbero a Parigi ancora nei 1920!) era, ed è, una malattia degli animali, specificatamente dei topi e delle pulci (nel caso specifico la xenopsylla cheopis) loro parassite: da quest'ultime viene poi trasmessa all'uomo. I traffici commerciali, soprattutto marittimi, furono il principale veicolo di trasporto da un porto ad un altro, e spesso da un continente ad un altro, di questa malattia di per sé tipica, come si è detto, degli animali. Essa però trovava un catalizzatore in periodi di carestia e di indebolimento della popolazione, che scatenava il divampare di esplosioni epidemiche con una regolarità quasi ciclica.
[45] ) Arch. Parrocchiale, Liber defunctorum, ad annum.
[46] ) Altare, Archivio Parrocchiale, Liber mortuorum ab anno 1616 ad annum 1703.
[47] ) Nel 1604 Altare aveva 754 ab. divisi in 208 famiglie (cfr. G. G!ORCELLI, Le città, le terre ed i castelli del Monferrato descritti nel 1604 da Evandro Baronino cancelliere del Senato di Casale, in “Rivista di storia, arte, archeologia della provincia di Alessandria”, XIII, 1904, fasc. l5 pp. 61- 130, fase. 16 pp. 43-82, XIV, 1905, fase. 17 pp. 219-313.
[48] ) Altare, Archivio Parrocchiale, Liber matrimoniorum 1616, Liber baptizatorum 1616-1703: per quanto riguarda le nascite, in particolare, le conseguenze delle peste si trascinarono per diversi anni e ancora nel 1633 furono 43, una decina in meno della media. Il “Registro dei battesimi “ ricorda diversi casi di battesimi d'urgenza, nel 1631, a causa del pericolo "della contagione”.
[49] ) Archivio Parrocchiale, Liber mortuorum 1616-1703: 14 aprile “admodum reverendus dominus Albertus Olivetus Merli occisus fuit”, 12 giugno ,”Iohannes Ambrosius occisus fuit”, 26 luglio “ Beneminus Curottus occisus fuit”.
[50] ) 52 decessi nel 1622, 74 nel '24, 65 nel 1678 (dati dell'Archivio Parrocchiale).
[51] ) Arch. Parr., liber defunctorum: “nota defunctorum presentis curiae anno contagi 1631 de quibus non potuit haberi certa diei et mensis decessus et ideo huic separatim descripsi “.
[52] ) Pacco Battezzati, (dal vol. I al XI, 1556- 802), “Libro battezzati 1625-1646”»,
[53] ) Tutte le testimonianze in nostro possesso concordano nel rilevare il periodo estivo come quello in cui maggiori  furono i decessi.
[54] )Arch. Parr., " Incipit liber matrimoniorum infrascripto me sac. Barberi cessata lue” .
[55] )  La relazione, opera di un Ufficiale dell' Armata napoleonica, è stata pubblicata dall' A. in “Alta Val Bormida” (periodico della Comunità Montana Alta val Bormida), XXV, 1984, n. 11, p. 3. Ma il dato appare dubbio.
[56] ) A Calizzano casi di peste si ebbero anche nell' estate del 1628 allorché, tra luglio e agosto, morirono " di condizione pestifera» Luigi Gorreto e i due figli di A. Vivaldo, mentre altri abitanti vivono " accabanati”., cioè accampati, fuori del paese in quanto "suspecti et confinati propter mortem eorum filiorum” (F. CICILIOT, Val Bormida tra medioevo ed età moderna. Frammenti di storia economica, sociale e culturale, in “Atti del I Convegno storico Valbormida e Riviera”, Comunità Montana Alta Val Bormida, Millesimo 1985, p. 75.
[57] ) G. A. SILLA, Storia del Finale, II, Savona 1965, n. 218.
[58] ) “17 augusti: tempore pestis baptizata fuit Maria filia d. Philipi et Angela  iugalium de Cremis (..) " die 24 augusti, tempore pestis, baptizatus fuit Bartholomeus et Franciscus" (Annotazioni del parroco G. Panelli).
[59] ) “Liber baptizatorum 1621-1660 ". Nel 1604 Dego contava 717 ab. divisi in 166 famiglie (GIORCELLI, op. cit., 222).
[60] ) Non è irrilevante questa precisazione secondo la quale contro la peste a Spigno si prendevano le misure che si erano prese a Milano: sappiamo infatti dalle lettere di d. Verruta che il Marchese di Spigno era a Milano o ne era appena tornato. Là probabilmente aveva potuto assistere a tutte quelle vicende legate alla peste e agli untori che il Manzoni descrisse poi nelle sue opere. È possibile che il Marchese sia rimasto influenzato sia dalla certezza che si aveva a Milano circa la propagazione della peste tramite untori sia dai metodi lassù utilizzati per stroncare tale diffusione: e se non si avevano incertezze ad usare i roghi in una grande città, perché stupirci se qualcuno voleva accenderli anche in un piccolo villaggio di campagna?
[61] ) La mancanza di una guida spirituale che fosse di conforto ai parrocchiani di Piana nell'infuriare in base alla quale nessun sacerdote aveva il coraggio di recarsi nel paese desolato dalla peste  preoccupa il Vescovo di Savona che pur comprendendo l’umana debolezza in base alla quale nessun sacerdote aveva il coraggio di recarsi nel paese desolato dalla peste, richiama il parroco di Spigno alle proprie responsabilità: " Intendamo con nostro grave dolore (scrive il Vescovo a d. Verruta il 25 giugno 1631) che la chiesa di Piana è derelitta di Prete, che niuno vi ardisce entrare né usare di quclli paramenti et che ancora vi sta il Santissimo senza lume. Compatimo assai alli tempi presenti quali in parte scusano la nostra debolezza; è però vero che siamo obligati far ogni nostro per riparare tanti inconvenienti, con gran danno delle anime; e siamo restati assai che da lei, come nostro Vicario Foraneo a cui spetta invigilare in casi massimamente importanti, non ne habbiamo ricevuto aviso alcuno. Per tanto procurerete subito informarvi del fatto e rimediare alla meglio che alla sua prudenza e conscieza stimerà opportuno( .. ) con procurare qualche religioso che vagli assumersi quello carico di agiutare quelle anime( .. ) e perché so che tutte quelle cose non si ponno fare senza spese, mi contento che spendi del mio, tutto facendo sempre acciò si possa, quanto umanamente si può, <aiutare> quelle povere anime a noi affidate"· Nel 1604 Piana contava 450 ab. divisi in 98 famiglie (GIORCELLI, op. cit., 222).
[62] ) È tradizione che anche per la morte del vescovo di Acqui fossero state chiamate in causa streghe e untori. In realtà nell'Archivio vescovile di quella città, uno fra i meglio ordinati fra quelli visitati per realizzare questo lavoro, non c'è  a alcuna traccia di inchieste, e tanto meno di processi, che  sarebbero state avviate dopo la morte del prelato.
[63] ) Spigno, archivio parrocchiale, Liber baptizatorum ab anno 1631 usque ad annum 1694, “Nota delli morti di contaggio nella parrocchia di me arciprete Giò Verruta “: in realtà la nota non esiste, i morti devono essere cercati qua e là sui registri, che danno l'impressione, per quei giorni, di un grandissimo disordine e confusione, con pagine saltate, annotazioni interrotte, mancanza di congruità (morti segnati nel libro dei battesimi, anni saltati o interposti).
È evidente che gravi avvenimenti stavano turbando il paese e l'arciprete: sono i giorni del processo!
[64] ) Savona, Archivio vescovile, Vicaria di Spigno, lettera del 1633 senza data.
[65] ) Ibidem, lettera del 26/6/ 1631. Nel 1604 Giusvalla contava 135 ab. divisi in 43 famiglie ( GIORCELLI, op. cit., 223).
[66] ) La comunità di Spigno aveva fatto voto di andare processionalmente al santuario della Madonna di Cassine nell'alessandrino, quella di Cairo alla Madonna del Santuario di Savona. A Merana la popolazione aveva invece promesso di fare festa "in perpetuo tutti i sabati in onore della Beata Vergine,. (Savona, Arch. vescovile, Vicariato di Spigno, lettera dcl 8/10/1631 ). “Vedendo ora però esser impossibile l'osservanza per esser poveri”, la Comunità si rivolge al Vescovo per essere sciolta dall’ obbligo: la richiesta viene accolta “attenta notoria paupertate hominum et considerantes simplicitatem predictorum ».
[67] ) “Habbiamo inteso che costì (a Spigno) è stata fatta la Nizzarda (un tipo di ballo evidentemente proibito  all'autorità ecclesiastica): recordandoli la gravezza del delitto - è ìl vescovo che scrive al parroco dì Spigno - Vostra Paternità li p otrà assolvere, imponendo ai penitenti quella penitenza che stimerà convenirsi “ (Arch. vescovile di Savona, Vicariato di Spigno, lettera del 12 marzo 1633).
[68] ) V. SCAGLIONE, op. cit., p. 20.
[69] ) Il dato è estrapolato dal numero di abitanti (500) “apti ad comunionem”" cioè in età di ricevere i Sacramenti, ricordato nella relazione della Visita pastorale di Mons. Pandasio del 1612. Gli abitanti in età di ricevere i Sacramenti erano approssimativamente, nella zona e nell'epoca, i due terzi del totale: quando è stato possibile sottoporre a confronto i dati ottenuti per estrapolazione con quelli fornitici da altre fonti si sono ottenuti valori coerenti con tale proporzione (es. a Carcare per il 1687 gli abitanti ricordati da uno “Stato delle anime” sono 592, quelli “atti alla Comunione” 435: estrapolando questo dato con il parametro precedentemente ricordato si sarebbe avuto un totale di 652 ab., con uno scarto, tutto sommato accettabile, del 9,2%. Per questi dati v., dell'A., Carcare nel 1800, GRIFL, Cairo 1986.
[70] )  Arch. Parr., Stato delle anime.
[71] ) A parte ogni considerazione su possibili cambiamenti determinati da contingenze di tipo socio-economico, non possiamo tralasciare, per es., il gravissimo impatto che ebbero su queste popolazioni anche gli anni dell'invasione napoleonica ( 1794-1800).
[72] ) V. SCAGLIONE, Contributo cit., p. 18. La diocesi di Alba, cui appartenevano quasi tutti i paesi dell'alta Val Bormida da Cairo fino a Murialdo, Bormida, Bardineto, nel 1649 contava 68.000 abitanti divisi in 104-107 parrocchie, nel 1658 era salita (o risalita?) a 100.000 (P. BRITIO, Acta et costitutiones secundae, tertiae et quartae sinodi diocesanae, Carmagnoliae 1649- 1658, pp. 57 e 13.
[73] ) B. BOSIO, la « charta » di fondazione e donazione dell'abbazia di San Quintino in Spigno. 4 maggio 991, Visone 1972, p. 21. Da quest'opera sono stati tratti, con qualche integrazione, i dati riguardanti la storia medioevale di Spigno.
[74] ) A.M. DE MONTl, Compendio di memorie istoriche della città di Savona, Savona 1681, p. 342.
[75] ) Non dimentichiamo che il marchese di Spigno nel suo soggiorno a Milano, di cui siamo a conoscenza, aveva certo potuto rendersi conto, di persona o per sentito dire, dei tumulti ricordati nei «Promessi sposi » e dei pericoli per le «istituzioni» che potevano nascondersi in una folla in preda alla disperazione: e a Spigno non c'erano né Ferrer né soldati spagnoli che potessero aiutarlo.
[76] ) Probabilmente la frase deve intendersi nel senso che il marchese non avrebbe aspettato, per il giudizio sulle imputate, le decisioni degli inquisitori ecclesiastici.
[77] ) Da C. BRIZZOLARI, L'inquisizione a Genova e in Liguria, Genova 1974, p. 72, apprendiamo che dal 1629 al 1632 ricoprì l'ufficio di Inquisitore fr. Petrus Martyr Ricciardis de Aqua Nigra. I nostri documenti presentano però, abbastanza chiaramente, Ricciareli anziché Ricciardi. Questo inquisitore aveva preso il posto, a Genova, di Vincenzo Maculano de Florentiola, che poi figurerà nel processo a Galilei.In precedenza inquisitore a Genova era stato il Masini,

autore del famoso Sacro arsenale, ovvero pratica dell'Uffizio della Santa Inquisizione. A Genova (e altrove) l'Inquisizione restò attiva fino al 1798, quando fu abolita da Napoleone.
[78] ) Quando si trattava di una "causa grave" bisognava darne notizia al supremo tribunale della S. Inquisizione e di là attendere la “risoluzione” prima di iniziare il procedimento (E. MASINI, Arsenale ovvero prattica della Santa Inquisizione, Genova 1621, pars decima).
[79] ) La Congregazione del Santo Uffizio (oggi Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede) interpellata dall'A. in data 28/10/1988, ha comunicato il 7/ 12/88 che in archivio in relazione a “un processo svoltosi a Spigno Monferrato tra il 1631 -1632, avente come oggetto la stregoneria” non è stata trovata indicazione alcuna.
[80] ) Il 27 settembre il Santo Uffizio accusa ricevuta della lettera del Vescovo tramite una comunicazione (doc. 9) di Stefano Senarega, Procuratore del S. Officio, che comunica di “aver parlato al Segretario del Cardinale di Santo Onofrio per la risposta, il quale mi ha detto che ne haverà pensiero particolare”. Il Vescovo aveva scritto 1'11, la risposta è del 27: in 16 giorni una lettera era andata a Roma, era stata esaminata e aveva avuto risposta. Tutto ciò mentre infuriavano peste e guerra! 
[81] )  La tortura della “corda” era uno dei metodi più semplici ed efficaci utilizzati per far parlare gli imputati: ad essi venivano legate la braccia dietro la schiena, poi venivano sollevati tramite una corda legata ai polsi e lasciati sospesi “ per un notabile spazio di tempo”, spesso con una pietra di 25/50 libbre legata ai piedi. A volte alla sospensione si aggiungevano improvvisi strattoni. Da tale trattamento gli imputati uscivano regolarmente con le articolazioni delle braccia slogate. Strattoni e pesi ai piedi erano proibiti nei tribunali ecclesiastici (v. MASINI, Arsenale cit., Parte VI, Modo di dare la corda al reo che ricusa di rispondere o non vuol precisamente rispondere in giudizio: «E qui per anco bassi a notare che non deve mai nel sacro Offizio darsi ad alcuno la corda con isquassi o con qualsivoglia peso o bastone ai piedi, ma deversi alzar semplicemente nella corda»: I. MEREU, Storia dell'intolleranza in Europa, Milano 1988, p. 219 definisce ciò “legalismo da camere a gas”: ma siamo nel '600, quando la tortura era pacificamente ammessa in tutti i tribunali. Del resto anche oggi ogni tanto si sente parlare di ..tecniche di interrogatorio avanzate..             
[82] ) L'aver sottoposto le imputate alla tortura senza la presenza dell'inquisitore ecclesiastico (ché tale non poteva essere certo considerato d. Vcrruta, semplice vicario dcl Vescovo) andava infatti contro le precise disposizioni dei testi allora usati dai giudici ecclesiastici, in primis il già citato Arsenale di Masini (fra l'altro stampato solo 10 anni prima e proprio a Genova), il quale (pars X, CCXXVIII, precisa che “non può l'Inquisitore dar la tortura al reo senza il Vescovo, nè il Vescovo senza l' Inquisitore, e se altrimenti avviene, la confessione a cotal tortura seguita è nulla ipso iure, etiamdiu ch'ella fosse stata dal reo più volte ratificata, essendogli stata senza giustificazione alcuna e perciò indebitamente applicata”. Ma difficilmente le povere donne di Spigno potevano essere al corrente di tali disposizioni!
[83] )  Altra violazione delle norme procedurali (se non apparisse un'ironia si potrebbe dire: dei diritti dell' imputato!): nei processi soggetti all' Inquisizione la tortura non poteva "ordinariamente passare la mezzora di horologio et nel darsi i tormenti al reo il giudice deve proceder con essi moderatamente, secondo la loro qualità e condizione, e haver sempre l'horologio da polvere per saper quanto tempo vi scorre” (MASINI. op. cit.). Qui invece le imputate sono state torturate per due ore.
[84] ) Caterina confessa che il diavolo le era apparso “in forma di un bel giovane vestito di verde”: è una frase che ritroviamo, con poche varianti relative al colore, in tanti altri processi simili: a Modena il diavolo appare a Orsolina la Rossa “in forma di un bel giovane vestito di rosso"· (M. ROMANELLO, Un processo dell'Inquisizione a Modena nel 1539, in Id . (a cura di), Stregoneria in Europa, Bologna 1979, p. 120; in Normandia è “un grande uomo nero, vestito di nero”, (ibidem, 165), in Svizzera sembra invece preferire il verde, stando almeno ai « quindici (!) giovani vestiti di verde” che fanno visita a una giovane strega di Basilea (ibidem, 340).
[85] ) Anche questa era una formula tipica: anche la già ricordata Orsolina la Rossa, processata a Modena nel 1539 dice “io renego Christo et la Vergine Maria" (ibidem, 120).
[86] ) La dichiarazione resa (o fatta rendere) dalla “strega” ricalca quasi esattamente i comportamenti che venivano attribuiti alle streghe. J. HANSEN, Quellen und Untersuchungen zur Geschichte des Hexenwahns und der Hexenverfolgung im Mittelalter, Bonn, 1901, trad. it. F. TRONCARELLI, Le streghe, Milano 1983, p. 188, ricorda infatti che le streghe "rinnegano la fede cristiana ed ogni cosa che a lei si riferisce, soprattutto il battesimo, i sacramenti della Chiesa e gli oggetti ad essa connessi, come la santissima Croce, l'acqua benedetta, l'ostia consacrata ( ... )come pure Cristo Redentore, la Beatissima Vergine Maria e tutti i Santi ( ... }. Promettono al demonio che calpesteranno offensivamente la croce con i piedi ( ... } e poi non prenderanno l'ostia ma la conserveranno presso di sé», L'uso dell'ostia sacra per fini magici viene visto da A. RUNENBERG, Witches, Demons and Fertiliy Magic, Helsingfors 1947, in ROMANELLO, op. cit., p. 149, come una delle caratteristiche “che distinguono la stregoneria dell'Europa occidentale dalle altre forme di magia primitiva”.
[87] ) “I riti demoniaci capovolgono la liturgia cristiana, Satana è il rovescio di Dio” (R. BARTHES, Saggi critici, Torino 1972, p. 70).
[88] ) Anch'esso adeguatamente codificato: " Il demonio si fa adorare con culto idolatra da quei perversi ( ... }. Essi si prosternano in atti supplichevoli ( ... ) e lo baciano da qualche parte, generalmente nelle parti posteriori ( ... ) li demonio prende quelli che vuole e nell 'atto carnale li conosce bestialmente “(HANSEN, Quellen, cit., p. 193)". 
[89] ) E come tale consigliata dai manuali agli inquisitori: “Se si constata che le streghe non fanno alcuna confessione ( ... ) bisogna farle rasare di tutti i peli” (J. BODIN, La démonomanie des sorcières, Parigi 1580, p. 375).
[90] ) Nelle loro riunioni le streghe “incominciano a danzare al suono cupo di una buccina ( .. :). Finita la danza ( ... ) uomini e donne giacciono assieme e si congiungono bestialmente e alla maniera dei sodomiti. Ed anche il demonio prende quelli che vuole e nell'atto carnale li conosce bestialmente”. (HANSEN, Quellen cit., p. 193). Certo che, nel nostro caso, considerata l'età (e la condizione) delle imputate il diavolo doveva essere ..di bocca buona.
[91] ) Non sono riuscito a ricostruire con precisione il significato di questo termine, fra l'altro di incerta lettura: è forse sinonimo di “torturare” o di “depilare” (già abbiamo visto come la depilazione integrale fosse procedura usuale nei processi di stregoneria)?
[92] ) Quindi in un certo modo “diversa” dagli altri, e come tale più facile ad essere raggiunta dai sospetti della gente che vedeva, nella ”deformità” fisica, una traccia esterna della differenza, della devianza - cioè dcl male – morale.
[93]) C'è però da notare che espressioni come “liberamente costituito nelle nostre mani” e “depone di essere strega liberamente” non debbono necessariamente sottincendere confessioni spontanee: il gesuita F. von Spee proprio in quell'anno scriveva infatti (citato da TRONCARELl., op. cit., p. 154) che " la prima tortura, dolorosissima, è più lieve in confronto al resto. Se la donna confessa, gli inquisitori affermano addirittura che la confessione è stata ottenuta senza ricorso alla tortura”.
[94] ) Ancor oggi nel dialetto langarolo una piccola pentola unta e sporca viene talvolta chiamata “il pignattin della strega”.
[95] ) Piccolo paese, ora quasi disabitato, posto a monte di Spigno, sulle colline alla sinistra della Bormida. Ora si chiama S.Massimo
[96] ) Sul rospo come tipico ingrediente per filtri magici v. C. FAGGIN, Diabolicità del Rospo, Venezia 1973.
[97] )  La confessione fatta sotto tortura doveva essere ratificata dopo 24 ore: “se il reo (reo, non imputato: erano già condannati in partenza!) avrà confessato nei tormenti, dovrà appresso ratificare fuori di essi e sciolto da ogni legame” (MASINI, op. cit., parte VI: Del modo di ricevere dal reo la ratificazione delle cose da lui confessate nei tormenti).
[98] ) Come si è già notato siamo qui di fronte ad un errore di procedura o ad un'usurpazione di competenze: trattandosi di stregoneria, cioè di reati di competenza ecclesiastica, la tortura poteva essere autorizzata solo dal magistrato ecclesiastico, il quale oltrettutto, in caso di materia “grave e difficoltosa”, quale appunto era questa, prima di autorizzarla doveva informare il Santo Uffizio e aspettarne le decisioni (v. MEREU, op. cit., p. 209 sgg.). Queste scorrettezze procedurali verranno rilevate nella corrispondenza intercorsa fra le varie Autorità Ecclesiastiche, in specie nelle lettere del Padre Inquisitore.
[99] ) Circa il numero totale delle streghe incarcerate non c'è corrispondenza tra quelle ricordate all 'inizio delle carte processuali e quelle citate in questa lettera del Verruta: le carte del processo hanno 11 nomi (Margherita Bracha e la figlia Margarina, Bianchina Santina seu Sulianam, Bartolomeo Perletto, Lucia Peirana, Ioannina Suliano, Lucia Rodana, Marietta de Columbis con la figlia Ioannina, Giacomo Avramo e Maria Scaiola), d. Verruta ne ricorda invece 14, cioè tutte le precedenti con l'esclusione di Ioannina de Columbis, cd in più Marietta e Ioannina Barbero (costei potrebbe forse essere la Ioannina de Columbis citata negli atti), madre e figlia, Caterina Marenco di Merana, detta Giacheta e la figlia Bianchina.
[100] ) Allude al già ricordato rogo di Roccaverano, la cui storia è ancora tutta da scoprire. Resta invece poco probabile, come si è notato in precedenza, l'effettiva condanna ed esecuzione delle «”streghe” di Cairo Montenotte.
[101]) La situazione di d. Verruta era tanto più difficile in quanto sappiamo da altri documenti che i rapporti tra popolazione (e/o Autorità?) di Spigno e parroci inviati da Savona (ricordiamo che i due paesi appartenevano a Stati diversi) erano stati, in precedenza, tutt'altro che buoni: sappiamo per esempio che il predecessore di d. Verruta, Nicolò Spinola, nominato nel 1629, aveva rinunziato due anni dopo proprio per le continue difficoltà di questo tipo mentre il parroco che lo aveva preceduto, dopo essere stato aggredito da uomini armati che avevano invaso la canonica, aveva abbandonato la parrocchia tornando a Savona. Don Verruta era stato nominato arciprete di Spigno solo dal febbraio di quello stesso 1631.
[102] ) La confessione di una strega non bastava per irrorare neppure una minima pena se essa non era sorretta da prove: “aliter nulla sequi posse condemnatio vel poena, cx sola confessione, vel omnino levis”: è questo il giudizio che Serafino Petrozzi, a uditore e consultore inviato dalla Repubblica di Genova ad esprimere il proprio parere circa il processo alle streghe di Triora (v. nota 104), aveva espresso nella sua relazione dopo aver esaminato gli atti relativi (v. F. FERRAIONI, Le streghe e l'inquisizione. Superstizioni e realtà, Roma 1955, p. 74).
[103]) Interrogare gli imputati «senza suggerire cosa alcuna» era quanto prevedeva la legge, anche se di solito così non si faceva, come non si era fatto nel corso del sopra ricordato processo di Triora: e proprio in quell'occasione il Senato di Genova aveva scritto al suo Commissario Civile che stava gestendo il processo, Giulio Scribani, invitandolo “ad esaminare le incolpate senza suggerirgli cosa alcuna” (Lettera del Doge e dei Governatori di Genova a Giulio Scribani del 1 agosto 1588, Arch. di Stato, Genova, Lettere del 1588, n. 538, in FERRAIONI, op.cit., p. 75)
[104] ) Il 3 febbraio d. Verruta trasmette a Savona ( lett. 15) copia del “esposizione concernente il negotio delle streghe” ricevuta dal Procuratore fiscale secolare, che però non è stata rinvenuta in archivio.
[105] )  A Triora (Imperia) si svolse fra la fine dell'estate del 1587 e l'agosto dell '89 un famoso processo alle streghe che non ci pare inutile ricordare brevemente. Ebbe origine da una lunga carestia, che spinse la parte più disperata ed ignorante della popolazione a segnalare alla «Giustizia» alcune presunte streghe. Nell'ottobre del 1587 giungono nel piccolo centro imperiese due inquisitori ecclesiastici che incominciano gli interrogatori delle sospette. Sotto tortura esse coinvolgono nel procedimento altre donne, che a loro volta tirano in ballo un numero di persone sempre più grande: alla fine oltre 200 abitanti saranno interrogati. Nel gennaio dell'88 parte della popolazione (le famiglie più elevate) temendo cli venire anch'essa coinvolta in quella che era diventata un'autentica caccia alle streghe, si lamenta con Genova (sede del potere politico) dell'indirizzo che stava prendendo il procedimento. Giunge allora a Triora l'Inquisitore capo (ecclesiastico) e, 1'8 di giugno, anche un giudice-commissario secolare. Quest'ultimo dà un colpo di acceleratore al processo, condannando a morte 5 « streghe », mentre altre 13 vengono inviate a Genova per ulteriori indagini. Interviene allora l'Inquisitore capo, ecclesiastico, che impedisce l'esecuzione della sentenza di morte in quanto la gestione - e conseguente sentenza - spetta, visto l'argomento, all'Autorità ecclesiastica e quindi alla Congregazione del Santo Uffizio. Le S condannate salvate in extremis vengono inviate a Genova, gli atti processuali sono trasmessi a Roma, al S. Uffizio. Quest'ultimo prende tempo. Frattanto, a Genova, languono in prigione 18 donne: in quali condizioni è facile da immaginarsi, visto che verso l'agosto del 1589 ne sono rimaste vive solo 13. Intorno a quella data le superstiti vengono - probabilmente - rilasciate e il Commissario secolare genovese che aveva istruito il processo di condanna viene scomunicato dal Sant'Uffizio per essersi ingerito in cose spettanti ali' Autorità ecclesiastica. In seguito la scomunica verrà ritirata su intercessione delle Autorità genovesi (su questo processo v. FERRAIONI, op. cit., dalla cui opera sono state tratte le informazioni relative).
[106] )  Si tratta del figlio del marchese signore di Spigno, Marco Antonio Asinari dcl Carretto, il quale nei documenti in nostro possesso non appare mai esplicitamente: ad un primo esame sembrerebbe strano che l'unica comunicazione diretta marchese - vescovo sia affidata al figlio del marchese, ma a ben riflettere è invece perfettamente logico. Agli atti non sarebbe risultato nessun contatto, nessun dialogo tra i due poteri, nessuna dichiarazione. E soprattutto in questa lettera era inopportuna la presenza del marchese padre, legale padrone del luogo di Spigno.
[107] ) In realtà non è stata riscontrata nessuna lettera con la quale Verruta informi il vescovo della morte delle incarcerate. Né invierà comunicazione al riguardo dopo la lettera del Marchesino, se non un cenno nella lettera dell’ 11 marzo. 
[108] ) Non sappiamo come e quando il vescovo abbia avuto questa informazione. Da una lettera di d. Verruta risalente la 3 febbraio (doc. 15) veniamo a sapere che in quella data era stata trasmessa al vescovo ”l'inclusa espositione concernente il negotio delle streghe'" esposizione che non è stata rintracciata in archivio. Forse l' informazione circa le streghe morte in carcere era stata desunta da quel documento. La constatazione che ben 12 imputate erano già morte in carcere è comunque indicativa su quanto quelle sventurate abbiano sofferto, sia come torture sia come condizioni di carcerazione: a meno che non siano morte di peste, ma ci crediamo poco.
[109] ) Si tratta forse di quella imputata che d. Verruta nel doc. IO ricorda come l'unica che non avesse ancora confessato e che “per opera del diavolo nega tuttavia"?
[110] )  Non si riesce a capire con esattezza il senso di queste frasi: significano che il Podestà riceveva dcl denaro, forse per non confiscare i beni delle persone decedute in carcere, o che pagava ai superstiti una sorta di risarcimento per i decessi? La lettera dell' 11 marzo farebbe propendere per la prima ipotesi.
[111] ) Vedi, oltre alla già citata opera di MEREU, anche E.W. MONTER, Riti, mitologia e magia in Europa all'inizio dell'età moderna, Bologna 1987.
[112] ) BOSIO, La charta, cit., p. 206.
[113] ) Così scrivevo nel 1996. Oggi, a 21 anni di distanza, ben poco è cambiato e la vicenda risulta, in loco, poco conosciuta. Però una recente tesi di laurea (M. Marenco,  La strega nell’immaginario dell’età moderna:  i processi a Savona e in Val Bormida  (Quiliano, 1608, Spigno Monferrato, 1631-32) dedica alla vicenda un capitolo. Forse un certo interesse sta nascendo.
[114] ) I documenti relativi al processo alle streghe di Spigno hanno  fornito la base documentaria all'opera di A. FRANCIA, Storia Minima. Streghe, inquisitori, peste e guerra in un episodio di violenza collettiva del XVII secolo, Genova 1990.
[115] ) Sono state adottate le parentesi quadre per indicare integrazioni a vere e proprie cadute di testo per danni allo scritto; le parentesi uncinate per integrare quelle che appaiono come autentiche dimenticanze dello scriba; le parentesi tonde per l'inserzione di piccoli elementi del discorso utili all'immediata comprensione del testo. La denominazione Doc. 1, 2, etc. è nostra: in realtà le varie deposizioni si succedono senza interruzioni.
[116] ) La parte seguente del testo è stata aggiunta in fine, in forma di postilla.
[117] ) cioè levatrice
[118] ) Locuzione usata quando il teste aggiungeva informazioni di propria iniziativa, senza essere stato esplicitamente interrogato su ciò dagli inquisitori (MEREU, op. cit., p. 218).
[119] )= falce da fieno
[120] )moglia= zona quasi paludosa, ricca d’acqua
[121] ) Non ha nulla a che vedere col processo: si tratta di una dispensa di matrimonio richiesta a maggio da Francesco Nano per sposare Gioachina Perochia, sua parente in quarto grado.
[122] ) Turpino e Piana erano luoghi dove la Mensa vescovile di Savona aveva ampi possessi. Lo Sgorlino era l'affittuario di una di tali cascine. Morirà di peste di lì a poco.
[123] ) sottoporle a tortura.
[124] ) A Piana la peste infuriava in modo particolarmente grave. Morto il parroco la comunità era rimasta priva di sacerdoti. 
[125]) Il “maestro (o mastro) di casa”. era il sacerdote Pietro Antonio Bertuzzo: si occupava normalmente dell'amministrazione dei beni della Mensa vescovile nel territorio di Spigno. All'epoca reggeva la vicina parrocchia di Montaldo, il cui parroco era scappato per paura della peste. Dalle lettere pare possibile intuire l'esistenza di una latente rivalità fra il maestro di casa e d. Verruta.
[126] ) I rastrelli erano le barriere (oggi diremmo i caselli) poste lungo le strade all'ingresso dei paesi o al confine con gli Stati confinanti per controllare o impedire il transito in tempi di contagio. Quello lungo la strada Spigno-Savona era posto alla Cà di Ferrè (Casa del fabbro), nei pressi di Montenotte, alle spalle di Cairo.
[127]) Il cavaliere è il fratello del marchese di Spigno, Gabriele Asinari Del Carretto.
[128] ) Si tratta probabilmente di un sommario a noi non pervenuto e che il vescovo trasmise all'inquisitore di Genova che ne accusò ricevuta il 9 settembre (doc. 6): ci è invece arrivato un secondo sommario trasmesso dall'arciprete di Spigno al vescovo di Savona il 29 settembre 1631 (doc. 10).
[129] ) Prima aveva scritto “streghe”, poi "donne”, infine “persone”.
[130] ) Località attraverso la quale passava la strada Spigno-Cairo-Savona.
 [131] ) “crozze”= forse “stampelle”?
[132] ) Il destinatario in realtà non è chiaro: pare trattarsi del sostituto del vescovo in quel momento a Genova.
[133] ) Era un sacerdote che aveva abbandonato la sua sede per paura della peste.
[134] ) La lettera contiene riferimenti a episodi altrimenti sconosciuti e non pertinenti al processo alle streghe: come già ricordato la pubblichiamo comunque integralmente per offrire un più minuzioso spaccato dell'attività burocratico-amministrativa, oltreché ecclesiastica, di d .Verruta.
[135]) "Capiatur”: mandato di cattura che sarebbe stato eseguito qualora il ricercato fosse arrivato (“venendo sulli fini”,) nel territorio di Spigno. Chi fosse il Vallei e quale colpa avesse commesso non ci è noto: probabilmente era un affittavolo di beni della mensa vescovile
[136] ) Questa è l’informazione che Verruta manda al vescovo circa la conclusione del processo ( O almeno è quella ritrovata dalla documentazione riscontrata).
[137] ) Ci si riferisce ad un’altra vicenda di stregoneria che si stava svolgendo in quei giorni nel vicino paesino di Lodisio:  (http://storiadellavalbormida.blogspot.it/2016/12/processialle-streghe-in-val-bormida-nel.html#more)
[138] ) I valichi, chiusi per la peste.
[139] ) “Se sarà richiesto”: non sappiamo se questa documentazione “ in mano di un notaio” è quella mutila trovata nell’Archivio e qui pubblicata o un’altra non trovata (sempre che sia stata realmente fatta e inviata..)
[140] )  “faremo noi la causa contro quelle streghe”: d. Verruta non molla. Finito un processo vorrebbe aprirne un altro!
[141] ) Era il Podestà che stava conducendo il processo di Lodisio ( « Loesio » ).
[142] ) Si tratta di due famiglie affittuarie di alcuni beni di pertinenza della Mensa vescovile di Savona. Della rivalità fra d. Verruta e il "maestro di casa" abbiamo già detto.
[143] ) Potrebbe essere l'ex marito della “strega" Lucia Rodana.
[144] ) Si allude ad un episodio inserito in quel clima di intimidazioni e "persecuzioni” esistente a Spigno, prima dell'arrivo di d. Verruta, fra autorità locali e sacerdoti provenienti da Savona




LE   STREGHE DI SPIGNO  IN TEATRO    E NELL'ARTE








Le streghe di Spigno sono entrate anche nell'arte:eccole
in un'acquaforte di C.Fusillo del 2008 (dal web)

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